Vola ancora il Barone Rosso

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    L’opera meritoria dell’associazione Silentes Loquimur ha questa volta “riportato alla luce” il leggendario Barone Rosso. Abbattuto nel ’44, come tanti, era rimasto seppellito sotto metri di fango, che ne offendevano il ricordo ma non ne cancellavano di certo la memoria. E ci sono voluti sessant’anni perché qualcuno finalmente potesse restituire un po’ di dignità a tutti quegli eroi caduti in battaglia, a cui questa età di Sovversione, non ha concesso neanche l’onore delle armi. A tutti quegli uomini che hanno “fatto ciò che doveva esser fatto” e ne hanno affrontato le conseguenze. Ed è questo che li ha resi eroi. Ed è questo che ha significato quella Croce di Ferro, che ora riemerge dal fango ed emoziona un po’ tutti noi per il carico di valore e coraggio che porta con sé, per i sacrifici affrontati col sorriso, per quella bella morte che veniva sfidata perché non era concesso avere paura, per la luce che restituisce a quello che ora è solo un ricordo, ma un tempo era un grande uomo.

    Il contrappasso non poteva essere più adeguato, per uno sconfitto. Un asso del cielo finito quattro metri sotto il fango: un pilota decorato della Lutwaffe, l’aviazione tedesca, che riemerge dalla terra smossa di un campo nella campagna di Portugruaro, un paese in provincia di Venezia. I resti del suo caccia abbattuto dagli Alleati negli ultimi mesidella Seconda Guerra Mondiale sono stati riportati alla luce ieri, grazie all’interesse del Gruppo ricerche storiche aeronautiche di Udine guidato da Roberto Bassi e al lavoro di Marco Pirina, presidente dell’associazione Silentes Loquimur di Pordenone che da anni si batte per il ritrovamento dei caduti italiani e tedeschi del secondo conflitto; in materia, nel Triveneto e non solo, è una celebrità. È lui che ha coordinato le operazioni di riesumazione dei resti dell’aviatore teutonico, che ha fatto da collegamento con Onorcaduti, l’istituzione che si occupa della sorte dei morti in divisa. Ed è lui che solleva il nastro biancorosso che tiene lontani curiosi, mentre una ruspa scava in profondità e una quindicina di volontari si affanna in mezzo alla mota per estrarre quel che rimane del soldato tedesco e del suo velivolo. Lì sotto, in profondità, il terreno morbido ha celato tutto, lo ha nascosto e protetto da quella domenica del marzo 1944 in cui il capitano dell’aviazione è crollato dalle nuvole e si è schiantato al suolo. Dalle profondità del campo emergono i componenti del motore dell’aeroplano, un Messerschimdt 109 Bf, poi i rimasugli del corpo di lamiera, le ruote, tutti frantumati nello schianto mortale. Ma la cosa più sconvolgente sono gli abiti e gli effetti personali dell’uomo alla guida. Pirina, Bassi e gli altri hanno restituito al sole veneziano il giubbotto, le scarpe, il portafogli, il libretto di volo e perfino l’accendino – schiacciato dall’impatto – del tedesco. Con questi, è ritornato anche il nome del giovane (doveva avere tra i 25 e i 30 anni, l’età plausibile per un graduato), sui documenti impastati di fango si legge con una certa chiarezza: Anton. Il cognome è cancellato dal tempo e dalle infiltrazioni dell’acqua. Si sa che è nato a Ulm e che nella gerarchia militare ricopriva un grado ben preciso: Hauptmann, capitano, appunto. Grazie a questi dati, che saranno confrontati con quelli in possesso dell’anagrafe tedesca, sarà possibile risalire all’identità dell’uomo, un’opportunità di cui all’inizio si dubitava e poi, qualora lo volessero, rendere i testi alla famiglia o portarli al cimitero militare di Costernano (provincia di Verona, il più vicino). Il Me 109 Bf era in dotazione anche all’aviazione italiana nello stesso periodo della guerra; ma l’abbondanza di materiale (conservato in modo impressionante, se si considerano gli anni trascorsi dall’incidente) ha permesso di stabilire con certezza la nazionalità del pilota. Non solo: ha consentito di accertarne anche il valore. Anton era stato insignito della Croce di ferro, onorificenza non concessa facilmente. Era uno che sapeva il fatto suo, nei cieli. Un professionista che terrorizzava tanto i britannici della Raf quanto gli americani dell’Air Force: numerosi, ma solitamente giovani e inesperti, i piloti Alleati piovevano dalle nuvole in una massa di fuoco molto più spesso dei tedeschi. Il rapporto era impietoso: soltanto un caccia del Reich abbattuto ogni tre aerei nemici eliminati. Però alla Germania non è bastato a vincere la guerra, così come al povero Anton non è stato sufficiente per aver salva la vita. Adesso, a oltre sessant’anni di distanza, il furore delle battaglie si è spento e per lui resta solo la pietà. Quella del prete che è venuto a benedire il campo in cui la gravità ha voluto seppellire l’ufficiale; quella del maresciallo dell’Esercito italiano Fidenzio Muzi, che ieri ha sorvolato la zona a bassa quota, come si usa per rendere omaggio a un nemico abbattuto (anche se, farebbe bene ricordarlo, per un po’ era stato un alleato); quella degli abitanti di Portogruaro, delle macchine che rallentano lungo la strada stretta di campagna per guardare, di Pirina e dei suoi collaboratori. L’Hauptmann Anton, ora, è ridotto a un caso da seguire. A testimoniare la sua umanità ci sono una scatola di metallo con le ossa rirovate (alcune hanno ancora brandelli di carne addosso, preservati dal sottosuolo) e le umide foto di famiglia. Immagini di bambini con un vestitino buffo, che il papà teneva in tasca mentre sorvolava la pianura. Conclusasi proprio qui, così lontano dalla sua terra natale e poco lontano da un fosso e da un canneto. In profondità, dove la terra venete si fa più fredda e scura.
    Tratto da Liberonews