Ha avuto luogo il 24 novembre scorso a Roma, nei locali dell’associazione Raido, in via Scirè 19, il convegno dal titolo “L’iniziato selvaggio – L’opera e l’esempio di Guido De Giorgio”; relatore: Enzo Iurato. Guido De Giorgio come iniziato “selvaggio”. E’ stato questo l’incipit di Iurato, il quale ha sottolineato l’opportuna accezione da attribuire al termine “selvaggio”. Se si intende con questa connotazione l’amante della solitudine, del raccoglimento, del silenzio, dell’introspezione, del raccolto romitaggio da trascorrere in luoghi appartati, fuori dal caos della banalizzante quotidianità, allora il senso del termine è stato rettamente recepito. Se al contrario per “selvaggio” s’intende un cultore della violenza, un habitus mentale caratterizzato dall’insofferenza verso le regole, dall’anomia sociale o dalla mancanza o scarsa propensione a coltivare doti di virtù e moralità, beh, in questo caso non c’è nulla di più distante dall’autentica essenza di De Giorgio che l’aggettivo “selvaggio”. Che, anzi, in tale evenienza è da considerarsi un insulto. Il fatto è che Guido De Giorgio, cattolico fervente e credente, nutriva un’intolleranza viscerale per la modernità. Celebri, nelle sue opere, sono gli sferzanti giudizi sulla società italiana ed europea tra le due guerre sulla quale, con acutezza che sconfinava nella preveggenza, intuiva l’inquietante stagliarsi dell’ombra minacciosa del leviatano tecnologico.
Nato nel 1890 a San Lupo, nella provincia di Benevento, studia filosofia a Napoli. Dopo la laurea si trasferisce in Tunisia, esercitando l’insegnamento in un liceo e dove stabilisce contatti con l’ambiente dell’esoterismo sufi del luogo. Dall’incontro con la mistica islamica scaturisce un uomo completamente trasformato, uno spirito tradizionalista senza compromessi, un fiero avversario non solo del modernismo concettuale ma anche del prometeismo tecnologico. Ritornato in Italia, si stabilisce a Varazze, sulla riviera ligure, spostandosi in seguito nella zona del cuneese. Dopo la prima guerra mondiale si trasferisce a Parigi, dove conosce René Guenon con il quale instaura un rapporto di lunga e proficua collaborazione. Rientrato in Patria, tramite l’esoterista pitagorico Arturo Reghini si lega in amicizia con Julius Evola. Inizia un lungo cammino di prossimità ai due più noti uomini del pensiero esoterico del Novecento. Il francese Guenon da una parte, che, sebbene convertitosi all’Islam, insiste affinché De Giorgio prosegua senza esitare sul sentiero che ha iniziato a percorrere senza farsi influenzare da chicchessia; il siciliano Evola dall’altra parte, che, dotato di un carattere vulcanico e impetuoso, ce la mette tutta per “mitigare” alcuni aspetti del pensiero di De Giorgio, considerati appunto troppo rozzi e “primitivi”. L’esoterista beneventano collabora dapprima alla rivista “Ur”, poi partecipa all’esperimento di “Krur” e de “La Torre”, “creatura” di Evola, e dopo la seconda guerra mondiale non esita a scagliarsi con violenza contro il nuovo regime democratico, elaborando un pamphlet, “La repubblica dei cialtroni”, che lo condanna all’emarginazione sistematica da parte dell’establishment politico e di pensiero allora dominante dalle Alpi al Lilibeo.
Avversato dal filone “pagano” della cultura di Destra, che gli rimprovera l’eccessiva accondiscendenza verso il misticismo cristiano e la sua devozione verso Padre Pio da Pietrelcina, guardato con sospetto dal milieu filocattolico che non gradisce le “sbandate” antroposofiche ed esoteriche, Guido De Giorgio è stato uno degli uomini di cultura più misconosciuti dall’ambiente degli intellettuali “organici” del dopoguerra. Celebre il brano di una sua opera in cui descrive l’atmosfera surreale e disumana di una stazione ferroviaria milanese, gremita di pallidi, spettrali omini grigi come la cappa di smog che grava sulla città, tutti in preda a una grottesca frenesia che contribuisce a caratterizzare la scena come una bolgia dantesca. La “cronaca” di un viaggio in treno compiuto dal pensatore a San Giovanni Rotondo inizia con la metafora di una partenza caratterizzata da un’atmosfera di mestizia immersa nel buio pesto e nel gelo che attanaglia la località d’“imbarco”, situata nella Val Padana, atmosfera che va poi via via stemperandosi man mano che il convoglio s’avvicina alla meta, per terminare poi trionfalmente nella città del Santo delle Stimmate, che accoglie il filosofo col caldo abbraccio del vento e il fulgore di un sole accecante, quasi a sottolineare la vittoria sul peccato e sulle forze del male. Legato in corrispondenza epistolare con René Guenon, era angosciato ogni qual volta si profilava una trasferta parigina per un téte-a-téte con l’amico francese.
Detestava, insieme con la tecnologia, tutto ciò che “puzzava” di città, di motori, di folla, di inquinamento, di grandi e caotici agglomerati urbani. L’ideale per lui era ripiegare su un’amichevole chiacchierata in quel di Blois, dove Guenon risiedeva tra il verde della campagna. Amante ed esperto della Divina Commedia, considerava la montagna del Purgatorio dantesco un’allegoria della vita meditativa. Stazionando alla base del monte è facile perdersi, imboccando vie che portano a percorsi senza sbocco. Man mano che il sentiero si avvicina alla vetta, invece, la visuale globale si fa più agevole e ci sono meno possibilità di errore. Forse affetto da turbe maniaco depressive, dormiva non più di due ore per notte. Si alzava di buon mattino e iniziava a inerpicarsi su per le giogaie che circondano il Monregalese, affrontando percorsi di ore in assoluto silenzio seguito soltanto dal figlio Havis. Abituato come il padre a una vita spartana, avvezzo a dormire su scomodissimi pagliericci, all’aperto, con qualsiasi clima e senza la possibilità di godere di un briciolo di comfort, Havis affermò, una volta arruolatosi e spedito a combattere nei Balcani, che non aveva trovato grande differenza tra la vita al fronte e quella che conduceva prima della guerra. Asceta e introspettivo, amava vivere isolato e lontano da ogni strumento o ingranaggio che tradisse un pur minimo accenno di rudimentale tecnologia. La sua tenuta preferita era una maglia e un paio di pantaloncini corti e in questi semplici indumenti consisteva tutto il suo guardaroba per la quasi totalità dell’anno. Rappresentava insomma lo spirito autentico del perfetto uomo differenziato, dell’Ubermensch nietzscheano e, come ogni personalità indomita e assolutamente al disopra della massificante mediocrità, destinato all’incomprensione e all’ostracismo.
L’associazione Raido ha ringraziato il folto pubblico intervenuto dando a tutti appuntamento per il prossimo 15 dicembre, alle ore 17,30, presso la Sala Ouverture, in via Tripoli 22, sul tema “Mistica della guerra – Origini, significato e simboli dell’ascesi guerriera”. Interverrà Mario Polia.Recensione a cura di SpAng