Mai come oggi il consumo di carne in occidente si è fatto così alto. Oltre alle conseguenze meno percettibili di questo abuso – quelle a livello psichico diremo – che si manifestano attraverso la trasmissione di istinti, paure e pulsioni dell’animale macellato, vi sono anche gravi problemi legati all’ambiente ed alla salute. Il seguente articolo offre una panoramica di un problema che oramai rispecchia anch’esso un segno dei tempi.
Se per produrre un solo hamburger da poco più di 100 gr, in America centrale vengono distrutti cinque metri quadrati di foresta tropicale su cui si trovano 80 chilogrammi di specie anumali e vegetali uniche al mondo, ci deve essere qualcosa che non va. E ci deve essere qualcosa che non va anche nel nostro rapporto con la carne, che continua a traboccare dalle nostre tavole, assai più di quanto l’organismo umano necessiti.
In realtà il consumo medio pro capite di proteine nei paesi occidentali non si discosta molto dalle indicazioni dei nutrizionalisti. Ma la statistica, come nel caso dei due polli di Trilussa, cela la differenza tra chi ha scelto la via della completa astinenza dalla carne e chi invece ne fa un uso sconsiderato. E per questi ultimi i rischi per la salute non sono pochi: un eccessivo consumo di grassi saturi è infatti connesso all’insorgenza di patologie che sono tra le maggiori cause di morte del nostro tempo (malattie cardiovascolari e perfino tumori).
Ci sono poi i pericoli derivanti dalle tecniche di allevamento degli animali: l’uso di sostanze farmacologiche, come ormoni o antibiotici, può comportare la persistenza nella carne di residui di quelle sostanze anche dopo la macellazione, e questo vale anche per i pesticidi impiegati nelle coltivazioni degli alimenti destinati agli animali e perfino per alcuni metalli pesanti.
E non è solo la salute umana a afre le spese della produzione intensiva di carni. Anche l’impatto ambientale è devastante. Da pratica che trasformava in carne scarti e materiali organici di scarso valore, con l’avvento delle pratiche zootecniche intensive, l’allevamento è diventato un’immensa macchina che consuma, in termini ambientali e nutritivi, più di quanto produca. Le stime elaborate dalla FAO riferiscono che per nutrire gli animali si consumano 77 milioni di tonnellate di proteine contenute nei mangimi, a fronte di una produzione di 58 milioni di tonnellate di proteine. Si tratta senz’altro di proteine con un valore nutritivo più elevato, am se si aggiungono i danni che la produzione intensiva di carne arreca all’ambiente, ecco che i conti non tornano più.
Da risorsa a rifiuto
Negli ultimi quarant’anni il numero delle aziende che praticano l’allevamento è sceso costantemente in tutto il mondo, ma quelle rimaste sono diventate più grandi: non per estensione territoriale, ma per numero di capi, portando a una separazione tra l’azienda agricola, che per millenni aveva ospitato gli animali, e gli allevamenti, Questo ha prodotto conseguenze paradossali: il letame, per sempio, da sempre una risorsa perché usato come concime, è diventato un rifiuto potenzialmente pericoloso, da smaltire con procedure estremamente costose.
E quando queste procedure non vengono adottate le conseguenze sono disastrose. Le emissioni di ammoniaca originate dai reflui zootecnici sono considerate corresponsabili delle piogge acide; i nitrati che contengono, inoltre possono inquinare le falde acquifere e, una volta giunti al mare, dare luogo a fenomeni di eutrofizzazione. Questi fenomeni sono la conseguenza di un’eccessiva quantità di nutrienti nelle acque che generano la ploriferazione di alghe microscopiche e batteri: aumentato il consumo di ossigeno, afarne le spese sono i pesci, che vanno incontro a morte.
Peggio dei TIR
Gli allevamenti incidono pesantemente anche sul consumo d’acqua: la FAO stima che in alcuni paesi, come il Botswana, l’acqua usata per abbeverare gli animali costituisca il 23% dell’acqua disponibile per l’intero paese, e l’8% del consumo totale di acqua sulla terra è in qualche modo connesso agli allevamenti animali. Gran parte di questa acqua (il 90%) è impiegata per l’irrigazione delle coltivazioni intensive destinate alla loro alimentazione. Le coltivazioni, a loro volta, riducono la biodiversità contribuendo alla deforestazione, e incrementano l’uso di pesticidi (intorno al 30% del totale su scala globale).
Infine, gli allevamenti contribuiscono all’effetto serra più del trasporto su gomme: la digestione degli animali produce oltre 100 milioni di tonnellate di metano (37 % delle emissioni totali dei gas); la deforestazione e l’uso di combustibili fossili per coltivazione e trasporto legati all’allevamento sono responsabili del 9% delle emissioni di anidride carbonica.[…]
Secondo le stime della FAO, se le attuali tendenze saranno confermate la produzione di carne raddoppierà entro il 2050. E questo si tradurrà in un’inevitabile raddoppio dell’impatto degli allevamenti sull’ambiente.
(di Antonino Michienzi estrapolato da American Scientific Novembre 2007)