Danze ungheresi

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DANZE UNGHERESI. La mitezza selvaggia dei Magiari, musici e rivoltosi, umanisti e pastori rinati dopo ogni sconfitta

di Alessandro Giuli

La grande Ungheria si riconosce ogni anno ai piedi del Danubio, nel gelo ventoso di un’ansa nell’estremo meridione dove si bagna il piccolo paese di Mohács. Qui, nell’agosto del 1526, Luigi II d’Ungheria e Boemia finì macellato (lui dopo una caduta dal cavallo, a sconfitta avvenuta) sotto le scimitarre del turco Solimano I assieme a quindicimila dei suoi valorosi militi. In un colpo solo si spalancarono gli inferi per i tre quinti dell’esercito magiaro, fra cui mille armati di sangue blu e provato onore. Una non sconosciuta tela ottocentesca del pittore Bertalan Székely ci restituisce ancora oggi i focheracci notturni della disfatta, i vapori stigi dove l’anima magiara bevve il suo lungo oblio. Perché in quell’agosto del Sedicesimo secolo, mentre l’Europa vedeva sgretolarsi la sua diga sinistra di fronte all’avanguardia maomettana, l’Ungheria stava morendo non una ma due volte: veniva mutilata nella sua indipendenza dai turchi; si scopriva orfana dell’ultimo suo sovrano legittimo germogliato dai gloriosi Jagelloni (anche padri della Polonia), a beneficio degli Asburgo che da allora, con Ferdinando, avrebbero dominato sugli ungheresi fino all’epilogo della Grande Guerra nel 1918. Intirizzito dal sangue dei suoi figli, il Danubio salutò così il Rinascimento magiaro consacrato un secolo prima dal re valacco-ungherese Mattia Corvino.

Corvino era l’erede di Attila, o almeno come tale risulta incoronato negli scritti amichevoli di un gigante dell’Umanesimo italiano, il mago epicureo Filippo Bonaccorsi da San Gimignano detto Callimaco Esperiente, riparato alla corte degli Jagelloni di Cracovia e intimo in quella di Buda Callimaco, che già aveva ricondotto agli antichi Veneti la genealogia dei polacchi, scrisse la sua breve biografia intitolata “Attila” tra 1486 e il 1488, mentre era in gestazione la “Chronica Hungarorum” di János Thuróczy (1488), secondo la quale il re magiaro era un “secundus Attila” e il suo popolo poteva rivendicare una discendenza unno-scita. Corvino, nel cui stemma figurava l’uccello sacro ad Apollo, incoraggiò gli umanisti della sua corte, come il neoplatonico Giano Pannonio (amico di Marsilio Ficino, cui dedicò la prima stesura del proprio commento al Simposio di Platone), József Huszti, Pietro Váradi (arcivescovo di .Kalocsa), Miklós Báthory (vescovo di Vác), Pietro Garázda (cugino di Giano). Accanto, a costoro, più anziano però, figura l’astrologo Giovanni Vitéz, autore di una dissertazione sulla cangiante Fortuna delle due Pannonie e precettore dello stesso Corvino assieme all’erudito polacco Gregorio di Sanok (già ospite di Callimaco). Ma Corvino non si dimostrò all’altezza della sua corte umanistica, prese a sdegnare i suoi sapienti sospettandoli di congiurare onde innalzare al trono un polacco – infine un re polacco sarebbe arrivato – e impiegò del tempo prima di riabilitare la memoria di Giano Pannonio, consentendo che venisse seppellito nella sua città: Pécs, a poche miglia da Mohács. Sulla memoria del Pannonio, decoro della poesia magiara, nei suoi Carmina Callimaco Esperiente avrebbe scolpito alcuni versi ammirati: “Ille rudem primus permulsit versibus Histrum / Et patriae et gentis candida fama fuit”. Mitigato con i versi di Giano, quel rude Istro, nome primevo del Danubio iperboreo, già si disponeva ad accompagnare nell’Ade gli eroi di Mohács.

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Uno dei misteri ungheresi sta nel fatto che i Magiari commemorano annualmente l’orrore di Mohács con una grande festa di carnevale, il più antico del paese, in cui si mescolano faville pagane e reminiscenze croate, serbe e slovene (c’erano anche loro accanto allo sfortunato Luigi II). Il rito si chiama “Busójárás” e, grosso modo, si svolge così: un manipolo di ragazzi avvolti di pelli caprovine, alla cintura campanacci squillanti, sul volto una maschera di legno raffigurante il buon demone cornuto che propizia l’uscita dall’inverno (oggi la maschera è dipinta di rosso, un tempo era cosparsa di sangue, cioè della memoria ancestrale sgorgata dal sacrificio), accende una pira di sterpi sulla riva destra del Danubio, raccoglie la fiamma e, imbarcato su zattere di legno, traversa il fiume fino alla sponda opposta dove l’attende un più grande rogo atto a simboleggiare la trasmissione di un fuoco che è al tempo stesso il cuore della tradizione popolare. Dopodiché – tra canti carnascialeschi, fescennini improvvisati, bevute d’acquavite e simulazioni di accoppiamenti inflitti alle numerose ragazze accorse (echi rituali di fertilità, passati sotto i nostri occhi e sempre assai graditi dalle fanciulle del luogo) – il manipolo diventa coorte e sfila per le vie di Mohács fino alla piazza principale. Lì, incorniciato da un mercato artigianale sul tipo di quelli che nell’antichità accompagnavano i raduni nei santuari federali, il rogo è ancora più possente e s’infiamma sfidando il crepuscolo. Mentre dal palco sottostante un’orchestrina d’archi (ma nel corredo folclorico non mancano arcaicissime zampogne con flauto di corno d’ariete) ripete ossessivamente lo stesso motivo ipnotico e il popolo tutto danza in forma circolare e concentrica intorno al fuoco-sole rinovellato. Ogni nazione viva dell’Europa conosce simili riti di rinascita, ma pochi offrono allo sguardo interiore la selvaggia mitezza dei Magiari, così ben esemplificata dall’armonia palintrope dei tenui violini e delle urla priapiche. Esiste un modo più degno di attrarre nella terra la forza fiorente della primavera? Nel Sannio come in Piemonte, in Sardegna come nel Trentino, nell’Egeo, sui monti Rodopi dell’Ellade o della Bulgaria risponderebbero di no: si fa così anche da noi. Gli ungheresi hanno la specialità di riscattare, assieme alla vita della natura tenuta prigioniera dai ghiacci, anche l’onta di una sconfitta storica come quella cinquecentesca di Mohács.

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Se non si comprende questo, se non si penetra in tal modo nel sottofondo irrazionale e nel corredo genetico di un popolo orgoglioso e fiorente di arcieri a cavallo vestiti di montone (a Feketeerdö, nell’estremo nord poco distante da Vienna, la famiglia Grozer ancora tramanda l’arte di costruire archi da caccia in legno, corno e budello; e lì si reca chi voglia apprendere come si scocca dalla groppa di aristocratici e chiomati cavalli locali), ogni giudizio sull’Ungheria metropolitana diventa vaniloquio. Piaccia o no, fra i Magiari ritornati al patriottismo c’è anche questo inestinguibile attaccamento alle origini, questa diffusione capillare di melodie antiche senza le quali non si spiegherebbero gli spartiti novecenteschi di Béla Bartók, i variopinti tabarin d’inizio secolo, le contaminazioni tsigane (e oggi gli zingari sono solo il 2% della popolazione), la compattezza pianeggiante di una nazione che ha costruito la propria unicità tra le nevi dei Carpazi e i cattivi presentimenti dei Balcani, terre di etnicidi e invasioni mai pacifiche da ogni latitudine.

Con una lingua più simile all’etrusco che all’indoeuropeo, ancora adesso i Magiari possono raccontare la loro epica dei grandi spazi (il 70% dei dieci milioni d’abitanti sono addensati nelle poche aree metropolitane), l’eterna ferita della loro terra spopolata, civilizzata dalle legioni repubblicane di Roma (la Pannonia non era esattamente il posto privilegiato dove un veterano volesse svernare dopo il congedo, nell’appezzamento-premio donato dalla Res Publica, ma fu punteggiata di mitrei, fortificata laboriosamente e difesa con tenacia fino al IV secolo dell’era volgare) e invasa dagli Unni (ancora oggi autoproclamata minoranza etnica pulviscolare), dai Goti e dai Longobardi. Gli Avari vi si stanziarono fino all’irruzione carolingia, gli Ungari sarebbero finalmente subentrati un secolo dopo, alla fine della lunga marcia nomadica iniziata sui monti Urali. Ma nel corso del tempo avrebbero patito incursioni mongole e guerre anche civili e inter-etniche a sfondo religioso.

Ecco, il nomadismo atavico, quello loro e quello altrui, è un altro elemento chiarificatore nella rappresentazione dei Magiari. La vulgata conformista ha decretato, non si sa come, che i popoli delle tende (quelle ungheresi sono uno spettacolo di funzionalità e calore) promettano multiculturalismo a larghe maglie e pluralità festante. Chi dice questo, solo per fare un esempio a portata di modernità, non conosce i rom – e che gli dèi ce li conservino così come sono – con le loro abitudini: arcobaleno antropologico di ethnoi differenti, ovunque vadano, se pure la sorte assegni loro un destino (semi) stanziale, tracceranno sempre dal loro raggio vitale un cerchio impermeabile agli allogeni. Perché dunque agli ungheresi si dovrebbe chiedere di non essere se stessi? Non è in questione il perimetro invalicabile della convivenza civile – settore nel quale i Magiari vantano peraltro parecchi crediti con la storia: “Lascia agli stranieri la loro lingua e le loro abitudini, giacché il regno che possiede una sola lingua e dappertutto i medesimi costumi è debole e caduco”, consigliava il cristianissimo re Stefano I nell’Undicesimo secolo dell’èra volgare – quanto il principio di sovranità culturale prima ancora che politico. Si può essere una nazione ricca di genti multiformi senza per questo accettare a ciglio asciutto l’ingerenza del primo che arriva? A senso, sì: che si tratti degli elmetti asburgici o dei carri armati sovietici, dei panzerfaust teutonici o dei legati dell’Unione europea (in questo caso i due invasori tendono a coincidere), degli economisti del Fondo monetario internazionale o dei vedovi inconsolabli della Mitteleuropa cucita a immagine e somiglianza di una caricatura tutta intellettuale, nella quale ai Magiari è destinato il ruolo di organettisti, miti intrattenitori di turisti da caffè letterario in stile Liberty. Miti, sì, i Magiari, ma non muliebriter.

Nella Grande Guerra gli ungheresi hanno combattuto con determinazione visionaria, sul fronte sbagliato, fino a godere della sconfitta asburgica che preludeva a una libertà da riconquistare. Prima di abbandonare la vita in un campo di prigionia, nel 1917, il poeta tradizionalista Géza Gyóni cantava la vita della trincea con sincera sfrontatezza: “A sei piedi sotto terra / nonostante tutto, è ancora allegra la vita. / Risuona ancora la canzone: ascolta! / Oh, cara anima ungherese! / A sei piedi sotto terra / Cantano i giovanotti”.

Spettrale, ma non meno autentico, il più famoso connazionale Ady Endre, a guerra conclusa (e perduta) sintetizzò in pochi versi un “Saluto al vincitore” che denudava il sommario di decomposizione di un’epoca (ma senza saperlo preconizzava anche il buio totalitario che incombeva già sull’Ungheria, con il vento degli Urali e la tempesta della Seconda Guerra Mondiale): “Il magiaro è un popolo sinistro e triste. / Visse nella rivolta e, per curarlo, / gli recarono la guerra e l’orrore / i farabutti, maledetti nella tomba”.

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L’Ungheria non ha perso soltanto la maggior parte delle guerre decisive – quella cinquecentesca contro gli Ottomani, la Grande Guerra, la Seconda (per colpa di Miklos Horthy, che passa per nazista ma fu un persecutore di Ferenc Szalasy e delle sue Croci Frecciate). I Magiari hanno perso anche la Guerra Fredda, l’hanno persa sopra tutto quando hanno cercato di darsi il comunismo da soli (attenzione: non il capitalismo, un comunismo libertario), rifiutando – ancora una volta, il tipico comportamento da nomadi stanziali – quello imposto dai sovietici manu militari. La storia dei fatti del 1956, la mattanza dei gloriosi ragazzi di Budapest, studenti, braccianti, operai insorti contro la nomenclatura stalinista e l’occupazione sovietica, è troppo nota per non valere come la realizzazione compiuta dei versi di Endre: la rivolta, la cura dell’orrore, i farabutti assassini “maledetti nella tomba” e le corone sui sepolcri degli innocenti.

Molte decine di anni fa, i giovani della destra allora missina s’impadronirono – e fu forse l’unica concessione opportuna in uno stagno di esterofili devoti al culto della sconfitta e avviati allo sradicamento – di un’altra poesia magiara. Era il canto dei ragazzi ungheresi. Iniziava così: “Ricordo che avevi un moschetto / su portalo in piazza t’aspetto / nascosta tra i libri di scuola / anch’io porterò la pistola”. Così terminava: “Camerata riponi il fucile / torneranno a cantare le fonti / quel giorno serrate le file / e noi torneremo dai monti”. In mezzo, lì dove l’epica tracimava nell’elegia privata, risuonava la bugia di una promessa indelebile: “Ragazza non dire a mia madre / che io morirò questa sera / ma dille che vado in montagna / e che tornerò a primavera”. La primavera della grande Ungheria, quella in cui la gioventù magiara sfila in maschera lungo Mohács per riscattare la vita della natura e rinascere dal rogo delle sue onorevoli sconfitte.

Fonte: Il Foglio (sabato 07 gennaio 2012)