GEO sull’Himalaya. Oltre i confini dell’umano troppo umano

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Escursione sull’Indrahara Pass
Dhauladhar himalayana 4342 m s.l.m.

Durata: 2 giorni
Dislivello: 2600 m

Durante un soggiorno presso le pendici dei monti himalayani, a GEO non poteva sfuggire l’occasione di ascendere una vetta dell’immensa catena estremorientale, che ospita nove dei 14 ottomila della Terra e che è il sogno e meta di ogni alpinista e amante della montagna. L’obiettivo è l’Indrahara pass, il passo della catena Dhauladhar a 4342 metri di quota, partendo dall’affascinante cittadina di McLeod Ganj, la dimora del Dalai Lama in esilio, a 1750 m s.l.m. L’ascesa classica prevede un anello meno faticoso di tre o quattro giorni e mezzo, ma optando per la direttissima si può raggiungere la vetta in due giorni. La mattina l’appuntamento è alle 8:30 ma la guida deve ancora fare colazione; non partiamo bene, ma considerando che è l’unica guida disposta a fare l’ascesa in due giorni ci accontentiamo.
Ci muoviamo alle 9 circa, passando per un ripido tratto tra i boschi di pini e i templi buddisti, mentre vediamo monaci dal saio rosso e la nuca rasata scendere nella direzione opposta. Lungo la strada sono numerosi i chioschi disposti a vendere acqua e snack a prezzo triplo per i turisti. Raggiunto il rifugio a 2700mt mi accorgo di quanto in montagna, come nel quotidiano, la parte iniziale, il ‘cominciare qualcosa’ è sempre la parte più difficile, dimostrandosi ancora una volta la montagna una ‘allegoria di vita’. Qui pranziamo con riso indiano, zuppa e tè chai.

Verso le 13:30 ripartiamo e alle 15 circa decidiamo di accamparci per la notte a circa 3350 m, ritenendolo l’unico luogo possibile prima della parte finale. Nonostante il freddo non sia eccessivo, nessuno di noi riesce a dormire, forse a causa dell’altitudine. Ci si sveglia alle 5 l’indomani per la colazione e gli ultimi preparativi prima che il sole sorga. Decidiamo di lasciare gli zaini al campo e portare con noi solo l’acqua e il minimo indispensabile. Alle 6 circa ricomincia l’ascesa. Ora la salita si fa veramente dura e l’altitudine e il freddo non lasciano spazio al riposo delle membra e della mente.
 Si cerca di non pensare alla fatica e alla sofferenza, di non lasciar vagare la ‘scimmia’ nella testa, ma seguendo la via tibetana del guerriero – poiché la località è propensa e l’impresa pure – si cerca di sgomberare la mente e concentrarsi solo sul proprio respiro. Un incontrollato moto di gioia esplode quando finalmente la luce del sole penetra oltre il valico, irradiandoci con la sua luce ed energia. Tutt’intorno la vegetazione scompare, lasciando il posto ad un panorama brullo e sassoso. Gli ultimi metri vengono completati con l’aiuto delle mani e delle nozioni base dell’arrampicata. Finalmente riusciamo a scorgere una bandiera rossa, segno della vetta.
 Tra lingue di neve e cumuli di nubi squarciate sulla cresta del passo, raggiungiamo finalmente la vetta. Il sole è ormai alto nel cielo e illumina tutt’intorno: la sconfinata distesa evanescente tanto al di sotto di noi, le montagne dalle cime bianche e aguzze alle nostre spalle, il valico sassoso attraversato a fatica. Tutto da la sopra sembra in bilico nel tempo e nello spazio, dove neanche il verso degli uccelli arriva. Un grosso rapace ci vola proprio a fianco per poi volgere verso la sua dimora nel cielo, mentre la guida rende omaggio alla divinità presso il tempietto hindu collocato come segno della vetta. Cominciamo a ridiscendere verso mezzodì e subito la discesa si dimostra incredibilmente ardua: quegli stessi sassi scavalcati con relativa facilità salendo, si dimostrano ben più difficoltosi da superare in discesa.  Sebbene la discesa sia sempre più facile della salita spesso si dimostra più pericolosa: non c’è più la tensione della salita, la concentrazione e la voglia viene meno, così come l’attenzione, e questi fattori sommati possono rivelare un insidiosa prova per chi vuole tendere ad una presenza a se stesso costante. Ci mettiamo quasi più tempo a scendere, a causa del terreno sassoso che in discesa provoca non pochi problemi. Gambe e ginocchia doloranti raggiungiamo il campo, che è come un sollievo insperato, un primo traguardo che dissipa in un attimo tutte le fatiche trascorse. Il resto del percorso, superata la sassaia, si fa decisamente più rapido e verso le 17 siamo di nuovo a McLeod. Nel complesso sono stati due giorni di fatica, sofferenza, malattia, insonnia, ma niente di tutto questo potrà mai inficiare le sensazioni provate nel poter vedere con occhi nuovi il mondo da uno spalto privilegiato e sacro come quello dell’Himalaya, giungere umilmente alle sue porte e rendere omaggio alla catena di vette sovrane che ha affascinato e sempre affascinerà gli uomini di ogni tempo.