Lo scorso 19 giugno il presidente americano Obama è sbarcato a Berlino per una visita ufficiale e, accolto in pompa magna da Angela Merkel (“Benvenuto a Berlino, simbolo della nostra libertà”), ha tenuto un discorso alla Porta di Brandeburgo, dinnanzi ad una folla ovviamente festante. Protetto da un vetro blindato di sicurezza, con il suo consueto stile casual e molto informale, il presidente ha toccato diversi, scontatissimi temi: l’invito a ridurre di un terzo le armi atomiche, il cui uso residuo dovrebbe essere riservato solo all’ipotesi in cui sia necessario difendere gli interessi degli Usa e dei loro alleati (e sappiamo bene in quale modo gli americani intendano questo concetto), la recessione mondiale (abilmente indotta e cavalcata chissà da chi e perché), la solita immancabile minaccia del “terrorismo internazionale” (con tanto di ennesima promessa di chiusura del carcere di Guantanamo, che invece continua ad essere più attivo che mai), le minacce dei cambiamenti climatici (causati, di nuovo, chissà da chi), la necessità di superare disuguaglianze e intolleranze (con tanto di inevitabile, stucchevole richiamo ai diritti dei gay). Insomma, un fiume di retorica e di politicamente corretto, peraltro sonoramente bocciato dalla stampa tedesca che ha stroncato senza troppi fronzoli il discorso del presidentissimo a stelle e strisce.
La visita di Obama a Berlino, di per sé inutile e piuttosto secondaria, è stata però l’occasione per rievocare due illustri precedenti visite, quella di Ronald Reagan nel giugno 1987 e, in particolare, quella di John Fitzgerald Kennedy nel giugno del 1963. Fa sorridere pensare che entrambi i presidenti, in anni di guerra fredda, incalzassero l’Unione Sovietica in nome delle solite paroline magiche: democrazia, libertà, progresso. Chiedevano libertà per Berlino, per la Germania oppressa dal mostro sovietico, quando pochi decenni prima ne erano stati fedelissimi alleati per distruggere il cuore dell’Europa e la sua Tradizione. “Duemila anni fa, il più grande orgoglio era dire ‘civis Romanus sum’. Oggi, nel mondo libero, il più grande orgoglio è dire ‘Ich bin ein Berliner’ ”, disse Kennedy nella sua visita nel 1963, disegnando ipocritamente l’immagine di Berlino quale ideale roccaforte di una libertà violata e richiamando senza il minimo pudore la Tradizione Romana dell’antica Europa. Quell’Europa che gli americani prima devastarono materialmente e che poi, dal secondo dopoguerra, cominciarono lentamente a traviare, alterandone le strutture comunitarie, etnico-antropologiche, economiche, sociali, spirituali, facendovi penetrare a tutti i livelli la propria grossolana mentalità materialistica, consumistica, anti-tradizionale. Lo scopo era quello di cancellare la Tradizione secolare del Vecchio Continente per poterlo così, finalmente, omologare e dominare.
Nella seconda metà degli anni Trenta il presidente Roosevelt aveva incaricato i suoi consiglieri Rothschild e Morgenthau di verificare quanta pericolosità vi fosse nell’espansione del fascismo in Europa. La risposta fu che, se entro dieci anni non si fosse posto rimedio, l’America sarebbe stata estromessa dal Vecchio Continente. Di conseguenza, americani, inglesi ed i loro più o meno dichiarati alleati cercarono di provocare in ogni modo dapprima la Germania nazionalsocialista, stuzzicandola sui suoi nervi scoperti fino a creare i presupposti per una guerra – l’unico strumento realmente efficace per eliminare il pericolosissimo fenomeno dei fascismi dal cuore dell’Europa – e poi il Giappone, temibile alleato di Italia e Germania, che fu fatto cadere nella nota trappola autoprodotta di Pearl Harbour, che costituì il casus belli per un formale ingresso nel conflitto degli Stati Uniti (i quali peraltro, sottotraccia, erano già attivissimi da tempo sul fronte bellico).
Le guerre per esportare la democrazia, per salvare i popoli ed il mondo intero, sono un vecchio strumento che funziona sempre ed in nome del quale può cadere ogni apparente barriera ideologica, fino a dar vita a degli scenari che possono sembrare inverosimili – come l’alleanza degli Stati Uniti con l’Unione Sovietica – ma che in realtà hanno una loro subdola e ben precisa logica sottesa.
Quella terribile guerra non fu condotta nel cuore dell’Europa in nome della cosiddetta “libertà”, ma molto più tristemente perché il modello economico, monetario, finanziario nonché culturale dei fascismi, ed in particolare della Germania, al di là di storture, incongruenze e degenerazioni, rappresentava un problema insormontabile per il modello materialistico anglo-americano, come avrebbero d’altronde candidamente confessato Winston Churchill nel 1960, nel suo libro “The Second World War” (“Il delitto imperdonabile della Germania prima della Seconda Guerra Mondiale fu il suo tentativo di sganciare la sua economia dal sistema di commercio mondiale, e di costruire un sistema di cambi indipendente di cui la finanza mondiale non poteva più trarre profitto”), ed il Segretario di Stato americano James Baker, nel 1992 (“Abbiamo fatto di Hitler un mostro, un demonio. Sicché non abbiamo potuto sconfessare questo dopo la guerra. Dopotutto, avevamo mobilitato le masse contro il diavolo in persona. Così siamo stati obbligati a recitare la nostra parte in questo scenario diabolico dopo la guerra. In nessun modo potevamo dire al nostro popolo che la guerra era solo una misura economica preventiva”).
Il clima ideologico nell’America di Roosevelt era peraltro ispirato da un ossessivo odio antitedesco in genere. Fin da metà degli anni Trenta, infatti, negli Stati Uniti si erano moltiplicati libri, pamphlet e articoli violentemente germanofobi, in cui si sosteneva la necessità di sterminare la razza germanica, indicando i possibili strumenti “operativi”. Gli stessi inglesi non erano da meno.
E così, un americano, amante della libertà e della democrazia, tale Theodore Nathan Kaufman, presidente dell’Associazione Americana per la Pace (!), influente membro della cerchia più ristretta dei consiglieri di Roosevelt, nel 1940 elaborò un umanitario piano d’azione che prevedeva, nel giro di un paio di generazioni, l’eliminazione fisica del popolo tedesco mediante un sofisticato piano di graduali sterilizzazioni. Anche i sovietici, a guerra finita, avrebbero elaborato e proposto piani finalizzati alla sterilizzazione di tutti i maschi tedeschi, da deportare poi in territorio russo, e all’accoppiamento coattivo di donne tedesche con uomini russi.
Altrettanto americano, amante della libertà e della democrazia era anche il già citato Ministro del Tesoro Henry C. Morgenthau, che ideò un piano di “pastoralizzazione” della Germania che, a guerra finita, fece crollare la produzione industriale del paese del 75% e la produzione agricola del 65%, riducendo alla fame milioni di cittadini tedeschi. Il piano, che trovò attuazione per diversi anni, secondo le stime più serie e rigorose, produsse la morte effettiva di circa 5-6 milioni di civili tedeschi fra il 1946 ed il 1950. Democraticamente. I tassi di mortalità infantile in certe città tedesche arrivarono a toccare il 20% all’anno, i casi di tubercolosi tra i bambini di Kiel, nella zona inglese, aumentarono del 70% rispetto al periodo pre-bellico. Churchill, Roosevelt e Eisenhower approvarono entusiasticamente il piano, poiché “l’intera popolazione tedesca è un paranoide sintetico”, come disse Eisenhower, e perché “o dovete castrare il popolo tedesco oppure dovete trattarlo in modo tale da non poter più riprodursi e generare persone che vogliono continuare nel modo in cui hanno fatto in passato”, come sottolineò, sempre democraticamente, Roosevelt.
Il Piano Morgenthau, oltre al totale smantellamento dell’industria tedesca, da distruggere o trasferire negli altri paesi, prevedeva la cessione delle materie prime minerarie tedesche e delle altre risorse, il lavoro forzato dei lavoratori tedeschi in paesi stranieri, la confisca di tutte le proprietà, nonché il controllo sistematico sull’educazione dei bambini, da attuare tramite testi scolastici i cui contenuti dovevano essere concordati dai vincitori, nonché insegnanti adeguatamente “preparati”.
I “liberatori” angloamericani non si fecero poi sfuggire la ghiotta occasione di sterminare dal cielo gli odiati “crauti/crucchi”, pianificando sul territorio germanico il più criminale piano di bombardamenti a tappeto della storia, per fiaccare la resistenza della popolazione e per sterminare il maggior numero di civili. Abbattere per sempre la forza del popolo tedesco era l’ossessione del macellaio Winston Churchill, che sognava di poter inondare le città germaniche di gas asfissianti, di distruggerne ogni edificio, di “arrostire” i 600.000 profughi che da Breslau si spostavano disperati a Dresda per sfuggire all’arrivo dei russi. La soluzione fu trovata, com’e noto: i bombardamenti incendiari al fosforo bianco degli angloamericani su Dresda, nel febbraio 1945, spianarono la città e sterminarono centinaia di migliaia di innocenti, forse 300.000, probabilmente di più. Circa centotrentuno città tedesche furono colpite senza pietà da un milione e mezzo di tonnellate di bombe dei “liberatori” angloamericani, e gran parte di esse furono rase al suolo totalmente o parzialmente; interi centri storici secolari, autentici scrigni di arte, civiltà e cultura, furono vilmente cancellati; circa un milione di civili tedeschi furono sterminati, sette milioni rimasero senzatetto.
Quanto poi ai “non civili” – oltre ovviamente ai combattenti di Wehrmacht e Waffen SS -, come gli alti ufficiali delle forze armate tedesche, i principali scienziati, tutta la dirigenza del Partito Nazionalsocialista, i funzionari municipali e tutti i membri della polizia segreta, chiaramente non c’erano dubbi: Stalin, Roosevelt ed Eisenhower proposero, in diversi luoghi e momenti (dalla Conferenza di Teheran, 1943, a Washington, 1944) di liquidarli tutti senza troppi fronzoli (si trattava di almeno 100.000 persone).
La completa realizzazione dei piani Kaufman e Morgenthau avrebbe dovuto portare, dopo l’eliminazione fisica di gran parte della popolazione, alla spartizione del territorio tedesco ormai quasi desertificato. Poiché però tale opera parallela di sterilizzazione chirurgica e di sterminio sarebbe stata troppo infamante e difficile da nascondere (negli stessi Stati Uniti si erano sollevate alcune timide voci contrarie), nonché tecnicamente molto complessa da realizzare, da un certo momento in poi si virò verso una forma di “castrazione morale” dei tedeschi, una castrazione più subdola ed efficace, lenta ed indolore, che avrebbe puntato sul senso di colpa collettiva e sul rimorso, indotti in un certo modo nella psiche dell’intero popolo tedesco. Ciò avrebbe contribuito, oltre che a far dimenticare in fretta gli orrori commessi, anche a preparare un terreno fertile perché nel cuore d’Europa attecchisse lentamente un certo pensiero unico omologante.
A conferma di ciò, in alcuni documenti preparati dalla Sezione Operazioni Psicologiche dei servizi segreti Usa dell’epoca (OSS), risalenti al 1944-45 e rimasti sepolti fino a poco tempo fa fra le carte degli Archivi Nazionali di College Park nel Maryland, sono presentati dei dettagliati piani d’azione da attuare nella Germania postbellica e nei campi di prigionia, finalizzati a mettere in atto una vera e propria “guerra psicologica”. Questa “guerra”, per sintetizzare, avrebbe dovuto: “modificare la mentalità tedesca, la loro maniera di pensare, i loro desideri e speranze”, eliminandone tra l’altro la propensione “per la vita militare, le uniformi e la guerra”; “marchiare i tedeschi con un definitivo sentimento di colpa e vergogna”; “diffondere l’avversione e l’odio fra le popolazioni tedesche, allo scopo di separare i prussiani e gli austriaci dagli altri popoli tedeschi, con ciò contrastando il loro desiderio di una più grande Germania e dividendo i loro interessi e il loro potere spirituale”; “compromettere e screditare i movimenti politici indesiderabili in Germania” e, al contempo, creare “un partito politico tedesco che possa essere controllato da noi”; “creare la base di un indottrinamento democratico e influenzare la politica tedesca”. Tutto ciò si sarebbe potuto ottenere, ad esempio, mediante “la creazione di una stampa ‘sovversiva’ ”, “l’incoraggiamento al largo sviluppo di una moda stravagante per uomini e donne”, la creazione di una “musica tedesca moderna (…) rivista e modificata in maniera che non sia più di supporto alla mentalità tedesca”, lo screditamento dei precedenti capi nazionalsocialisti e militari, degli junkers e degli industriali “con pettegolezzi sulla loro morte, fortune nascoste ecc”, la diffusione di discordie reciproche tra i cittadini tedeschi “per crimini di guerra, corruzione ecc.”. Inoltre, udite udite, si sottolineava come “le possibilità di accompagnare attività borsistiche e bancarie con quelle di controllo (..) saranno senza dubbio da annoverarsi fra i più potenti strumenti per modellare la vita economica e politica in Europa. Già ora circoli della finanza internazionale, con l’approvazione degli Stati Uniti e del governo britannico, stanno contemplando e pianificando di stabilire in Germania – e in Europa più in generale – istituti bancari con un’intelaiatura internazionale, comparabile alla Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, che possano attivamente impegnarsi nella vita finanziaria tedesca ed europea”.
La lettura di questi straordinari documenti, di cui ovviamente l’opinione pubblica resterà all’oscuro, è di una chiarezza disarmante ed anticipa perfettamente buona parte di quel che sarebbe avvenuto in Germania ed in Europa nel secondo dopoguerra.
Nonostante il progressivo abbandono, per ragioni più tattiche che umanitarie, dei piani di sterminio e di sterilizzazione, il conto totale delle morti causate fra i tedeschi nel dopoguerra tra il 1945 e il 1950, a causa di deportazioni di massa, decessi nei campi di prigionia, parziale attuazione del piano Morgenthau ed altro, arrivò comunque, secondo gli studi dello storico canadese James Bacque, ad una cifra compresa tra i 9 ed i 13 milioni. “E’ un peccato che non abbiamo potuto ucciderne di più”, chiosò l’ottimo Eisenhower.
Alla luce di tutto questo è davvero insopportabile pensare che nel corso dei decenni vari presidenti, ministri, politicanti, ambasciatori, esponenti di lobbies bancarie e finanziarie statunitensi abbiano messo piede in Germania (e più in generale in Europa) per parlare di libertà per il popolo tedesco e per il mondo intero. Così come è stato altrettanto insopportabile sentire le filippiche dei presidenti a stelle e strisce contro l’ex alleato sovietico, dopo che gli angloamericani avevano permesso scientemente all’Armata Rossa di arrivare fino a Berlino, devastando interi Stati dell’est europeo, massacrando milioni di civili, stuprando milioni di donne, causando centinaia di migliaia di aborti. Inglesi e americani sapevano perfettamente cosa facevano e cosa avrebbero fatto i russi, ma consapevolmente non mossero un dito per impedire la catastrofe o per mitigarne gli esiti, nonostante qualche voce contraria, anche in tal caso, non fosse mancata. L’esercito americano consentì di fatto ai sovietici di arrivare per primi a Berlino, di innalzare la bandiera con la falce ed il martello sul tetto del Reichstag, di porre le basi per la divisione della città e per l’erezione del fantomatico muro, di cui poi gli americani stessi avrebbero chiesto, ipocritamente, l’abbattimento.
Si parla di centomila stupri commessi nella sola Berlino tra l’aprile e il settembre 1945 e di 2 milioni di tedesche violentate sul fronte sovietico. Complessivamente circa 4 milioni di donne (non furono risparmiate neppure bambine ed anziane) su tutto il fronte orientale europeo furono violentate, e circa 3 milioni di civili tedeschi furono uccisi dall’Armata Rossa in Prussia, Slesia e Pomerania. Fu d’altronde questo il frutto del lavoro di manipolazione delle coscienze, di lavaggio del cervello e di esortazione al massacro ed allo stupro etnico e di classe inculcato nelle menti ottenebrate dei soldati dell’Armata Rossa da ufficiali e propagandisti del regime sovietico.
I sovietici, dal canto loro, come le forze capitalistico-plutocratiche (si sa, comunismo e capitalismo sono due facce d’una stessa medaglia) avevano quale obiettivo quello di distruggere i fascismi e le fondamenta culturali delle popolazioni europee, ritenuti molto più pericolosi per il comunismo staliniano delle decadenti democrazie europee. Il socialismo organico dei regimi fascisti, che aveva attecchito su millenari sostrati spirituali indoeuropei, stava infatti producendo un livello di progresso sociale, economico e culturale che avrebbe rappresentato la fine per il comunismo/capitalismo di Stato sovietico. Come confessò un colonnello sovietico prigioniero in Russia, nell’autunno 1941, ad un ufficiale tedesco, “Noi non combattiamo per le Potenze capitalistiche, combattiamo per la nostra idea. L’Europa di domani sarà vostra oppure nostra. Quando vi avremo battuti, sarà per noi un giuoco far saltare tutte le già corrotte impalcature sociali, morali e religiose delle cosiddette «grandi democrazie»”.
Non va dimenticato che, sulla base degli studi condotti da Viktor Suvorov, pseudonimo di Vladimir Rezun, ex ufficiale del controspionaggio militare sovietico, corroborati dalle ricerche di altri storici russi, è ormai stato accertato con prove inconfutabili che Stalin volutamente lasciò fare ad Hitler la parte del “rompighiaccio”: a seguito del patto di non aggressione, la Germania, occupando parte della Polonia (con la quale i tedeschi avevano cercato invano di giungere ad un accordo dopo i disastri causati dal Trattato di Versailles), avrebbe formalmente generato il casus belli che Francia e Gran Bretagna attendevano per poter dichiarare guerra ai tedeschi. Stalin avrebbe quindi atteso che la guerra continentale così scoppiata creasse disordini ed instabilità diffusa, preparando il terreno fertile per un attacco sovietico al cuore dell’Europa, che sarebbe stata travolta senza possibilità di resistenza. La rivoluzione comunista aveva bisogno di una guerra permanente per potersi imporre, conformemente alle tesi circa la necessità di una rivoluzione proletaria su scala mondiale, anche perché, come detto, la stabilità ed il progresso economico-sociale creati dai fascismi in vari stati europei non avrebbero mai permesso al comunismo marxista di attecchire. Stalin, insieme al fedelissimo maresciallo e capo di stato maggiore Boris Shaposhnikov, aveva perciò elaborato un piano biennale (agosto 1939 – luglio 1941) di mobilitazione di massa e di riconversione dell’economia interna in economia di guerra, che avrebbe consentito all’Unione Sovietica di giungere nell’estate del 1941 all’apice del proprio immane sforzo di riarmo bellico, in modo da poter assestare l’attacco finale all’Occidente. L’offensiva sembra fosse stata programmata per il 6 luglio 1941: il 15 maggio il maresciallo Zukov aveva presentato il formale piano d’attacco al Terzo Reich, come risulta da documenti segreti ritrovati negli archivi di Stato. La Germania, che pure non si era mai preparata ad uno sforzo bellico di vaste proporzioni, come dimostrano gli inconfutabili dati dell’economia interna e della dotazione militare, una volta scoperti i piani di Stalin, lanciò l’Operazione Barbarossa due settimane prima del programmato attacco sovietico, nel tentativo disperato di anticipare i russi ed evitare la catastrofe. Il clamoroso successo tedesco nella prima fase dell’Operazione, nonostante la misura delle forze in campo fosse già notevolmente impari, fu dovuta soprattutto al fatto che i sovietici si erano strategicamente e militarmente preparati ad una guerra offensiva e non difensiva, quale fu quella cui li costrinse inizialmente la Germania.
Alla fine di tutto questo, il popolo tedesco ringraziò e salutò candidamente americani, inglesi e russi come liberatori. Dimenticò in fretta ogni cosa, incredibilmente, grazie soprattutto a quell’opera di “castrazione morale” ed a quella sottile guerra psicologica abilmente condotta nel dopoguerra. “Ho concluso che ho sopravvalutato l’intelligenza delle masse. Nei dialoghi che tante volte ho avuto con le moltitudini, avevo la convinzione che le grida che seguivano le mie domande fossero segno di coscienza, di comprensione, di evoluzione. Invece, era isterismo collettivo …” confessò Mussolini nel suo testamento politico dettato pochi giorni prima della morte. Questo stesso isterismo è quello che ha portato e porta le masse europee, da decenni, adeguatamente instradate dai regimi democratici, ad esaltare il modello della “way of life” dei liberators d’oltreoceano, a demonizzare sistematicamente il male assoluto del “fascismo” ed il concetto stesso di identità culturale.
Nel 1956, ad Aquisgrana, Churchill fu insignito del Karlspreis, il premio internazionale “Carlo Magno”, onorificenza destinata a personalità con meriti particolari in materia di integrazione e unione dei popoli europei … ancora oggi, tanti cittadini comuni tedeschi continuano a riempire di fiori il memoriale dei soldati sovietici a Berlino. E i bombardamenti? Gli stupri di massa? Le devastazioni, i piani “umanitari”, le morti per fame, le deportazioni, i campi di prigionia? “Ce lo siamo meritato”, è la risposta che si sente dire spesso, persino in quei pochi film che hanno vagamente trattato certi temi, come il massacro di Dresda. E’ il frutto perverso della “castrazione morale”, del lavaggio del cervello di un intero popolo, di un intero continente, condotti incessantemente per decenni.
E allora, allora va bene così … da una parte, che cosa l’opinione pubblica debba sapere e cosa no, viene deciso dagli inappuntabili gendarmi della memoria (per parafrasare Giampaolo Pansa) e della cultura. Dall’altra parte, chi sa, e persino chi ha vissuto sulla propria pelle certe drammatiche esperienze, ha preferito e preferisce tacere, o comunque accettare e subire.
Ce lo siamo meritato. Tutti. E allora … evviva Churchill, evviva Roosevelt, evviva Eisenhower, evviva Kennedy, evviva Obama. Evviva gli Stati Uniti d’America, la way of life americana (ma anche, almeno un po’, la cara, vecchia Unione Sovietica ed il compagno Stalin), la libertà, la democrazia, il progresso. Forever.
Paolo G.