Il prossimo 8 febbraio aprirà i battenti a Bologna la mostra “La ragazza con l’orecchino di perla, il mito della Golden age”, che proporrà diverse opere del pittore olandese Jan Vermeer, tra cui la celeberrima “ragazza con l’orecchino di perla” o “ragazza col turbante”, la vera attrattiva della mostra, che sembra ossessionare migliaia di persone. Si contano già oltre 100.000 prenotazioni arrivate da tutta Italia e dall’estero, e si pensa di arrivare a 230.000 visitatori in poco tempo; diversi visitatori hanno anche beneficiato di alcune anteprime a prezzi maggiorati. Un successo di tali proporzioni sembra sia motivato essenzialmente dalla presenza di quell’opera in particolare.
Un fenomeno simile si riscontrò, qualche tempo fa, anche in occasione delle mostre relative alle opere del Caravaggio, alle quali accorsero così tante migliaia di persone che, per diverso tempo a venire, furono organizzate decine di iniziative incentrate sul celebre pittore.
Dinnanzi a simili fenomeni di semi-isteria collettiva, soprattutto in un’epoca come questa, bisogna intendersi. Da una parte, può vedersi un lato positivo: un certo tipo di arte figurativa di qualità riesce ancora, evidentemente, ad esercitare un certo richiamo sull’animo di molte persone, nonostante esse vengano continuamente sollecitate dai solerti servi della sovversione a rivolgere le loro attenzioni all’arte informale, astratta e deforme, che non sembra ancora (e speriamo non lo sia mai) in grado di attrarre masse di grandi proporzioni.
Dall’altra parte, invece, si deve riflettere su quanto osservò a suo tempo Julius Evola, ovviamente in linea col pensiero tradizionale in materia: in una civiltà normale il centro non può cadere nelle lettere e nelle arti, le quali devono ricoprire il giusto ruolo in un contesto gerarchico. L’arte non deve presentarsi come il frutto di mere intuizioni o visioni soggettivistiche, spesso disordinate, alterate o deviate, ma rispondere ad un’oggettività, da intendersi quale manifestazione di quei princìpi ascetico-eroici che devono essere il punto di riferimento in una civiltà tradizionale. Nella sua impersonalità, più che idealizzare fatti, l’arte deve raffigurare archetipi, come sottolineò Coomaraswamy. Si può quindi osservare come l’irrequietezza, l’ossessione, l’instabilità, la “faustiana” frenesia soggettivistica collegata alle arti, sia in chiave attiva (quella dell’artista che crea l’opera) sia in chiave passiva (quella dell’osservatore/fruitore dell’opera) sono sempre il segnale di un disordine, di una perdita di centralità, di una caduta dalla rigida unità del piano verticale alla confusa dispersione di quello orizzontale, caratteristica, fra le altre, di un particolare tipo di razza dello spirito quale è l’uomo che Evola definì “afroditico”. Un tipo “che ha come estremo orizzonte l’esistenza materiale, come oggetto di un godimento fra l’estetico e il sensuale e di un estremo raffinamento”. Questa categoria di uomo fu quella che, come spiegava Evola, caratterizzò l’epoca rinascimentale, in cui la grande qualità dell’espressione artistica nascondeva i germi di una decadenza molto più profonda.
Di conseguenza, dinnanzi a fenomeni come quelli sopra descritti, si potrebbe parlare di una sorta di “afroditismo di massa”, inteso, come si accennava, dal lato passivo. Dietro tutto ciò si cela evidentemente un’insofferenza più profonda: molte persone percepiscono un vuoto interiore, esistenziale, di cui però, anche a causa del lavaggio del cervello cui sono sottoposte fin dalla nascita, non riescono coscientemente ad individuare la natura. Costoro cercano quindi, sempre inconsapevolmente, di colmare tale vuoto attraverso una sorta di bulimia o saturazione dell’osservazione e del “godimento” artistico.
Ovviamente, tra le tante soluzioni di puro ripiego per cercare di colmare simili vuoti, è preferibile questa ad altre vie catagogiche molto più degenerate e pericolose, soprattutto, come si diceva, laddove l’attrazione sia data da opere figurative o simboliste di qualità. Da ciò, infatti sembrerebbe evincersi come, nonostante il disordine e lo squilibrio che caratterizza la nostra epoca, nell’animo di molti riesca ancora ad emergere il desiderio inconscio di un ritorno ad un’ancestrale centro spirituale, di cui queste opere possono costituire, ora in misura maggiore, ora in misura minore, una manifestazione tangibile.
Paolo G.