Terra rossa, terra mia

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i giuliano dalmati

di Mario Bortoluzzi

(Il Borghese, Maggio 2014) – «L’esodo degli Istriani, Fiumani e Dalmati è la conseguenza degli avvenimenti della Seconda Guerra mondiale, effetto delle violenze perpetrate dagli Slavi come ritorsione alle violenze fasciste durante l’occupazione italiana del regno di Jugoslavia. »

Questa è l’obiezione che ogni anno a ridosso del Giorno del Ricordo, da dieci anni, viene ripetuta come un mantra dai media del nostro Paese controllati da una ben individuata scuola di pensiero. In buona sostanza, gli Slavi di Tito nella ritorsione antitaliana hanno forse un po’ esagerato ma erano esasperati dalle violenze e dall’oppressione esercitate dall’occupante italiano. Tutto ciò denota una ignoranza, quando non si parli di vera e propria malafede, piuttosto radicata rispetto alla storia delle terre di Istria e Dalmazia. Che non furono mai terre avulse dalla storia italiana, come vedremo più avanti, ma facenti parte a pieno diritto della nostra storia nazionale, come lo sono tutte le storie delle attuali regioni italiane. Perché, ciò che fece Tito fu solo l’ultimo atto di un percorso iniziato nel 1860 e francamente la questione dell’ideologia comunista professata dai titini non fu il fattore scatenante, semmai fu il collante ideologico che tenne insieme i popoli slavi (Sloveni, Serbi, Croati) in funzione antitaliana. La storia di quelle terre, che furono romane e poi per quasi mille anni veneziane, è storia patria e dovrebbe essere studiata nelle scuole di ogni ordine e grado. Invece oggi è storia dimenticata, quando addirittura storia misconosciuta e nascosta. Ecco perché, ad esempio, nulla viene detto in ordine a ciò che avvenne dall’epoca del Risorgimento fino alla Prima Guerra mondiale in Istria e Dalmazia.

Ecco perché si evita di insegnare e spiegare che i metodi usati dal regime italiano dal 1918 al 1945 (la famosa questione dell’italiano obbligatorio nelle scuole, l’italianizzazione dei cognomi e poi le violenze della guerra), erano sì sbagliati se visti con l’ottica odierna, ma con la mentalità di allora erano considerati come gli unici praticabili per riparare le ingiustizie patite dagli Italiani nei decenni precedenti. Perché nulla accade mai per caso. Ma per parlare dell’origine dei conflitti fra nazionalità in quelle zone è necessario ripercorrere anche per brevi cenni quella che fu la storia dalmata. Dalle origini la Dalmazia antica, detta «Illiria» entrò nella storia con la prima delle otto guerre che sostenne dal 156 a.C. contro Roma. Provincia senatoriale dal 27 a.C. e successivamente imperiale, s’integrò con la romanità e diede a Roma imperatori come Probo, Claudio, Caro e Diocleziano. Tutta la costa e isole dalmate furono latinizzate dai Romani che fondarono città e favorirono la fusione con l’elemento autoctono illirico. Nel 475 d.C. si rifugiò in Dalmazia l’imperatore Giulio Nepote, mentre a Ravenna veniva elevato alla porpora Romolo Augustolo. Nel 476 d.C. questi fu deposto da Odoacre e l’Impero Romano d’Occidente cessò di esistere. Ma Giulio Nepote fece sopravvivere in Dalmazia le insegne dell’Impero e il senso della romanità sino al 480, anno della sua morte. Nel VII secolo d.C., iniziarono le invasioni barbariche. In particolare, gli Avari spinsero innanzi a se le tribù slave loro schiave che penetrarono nei Balcani e successivamente si spostarono sulle coste adriatiche. Le genti latine ripiegarono allora verso le città fortificate della Dalmazia. Mentre gli Slavi avanzavano verso Zara e Spalato, nelle città romane di Dalmazia sorsero i Municipi con caratteristiche analoghe a quelli esistenti nella penisola italiana. Gli Slavi giunti ormai al mare lungo il canale della Morlacca e insediatisi alle foci del Narenta si dettero alla pirateria e le città dalmate chiesero aiuto alla nascente potenza veneziana che, minacciata pur essa nei suoi commerci, decise di intervenire. Il giorno dell’Ascensione dell’anno 1000 il doge Pietro Orseolo II, dopo aver rifiutato ai Croati il pretium pacis, il censo per evitare gli attacchi ai convogli veneziani, alla testa delle navi e dei guerrieri partì per la Dalmazia e ottenne la dedizione di tutte le città latine, sconfiggendo ovunque la pirateria croata, portandosi fino a Spalato e Curzola. È questo un atto storico di importanza immensa. Venezia lo considererà per sempre un acquisto perenne e inalienabile e uno dei cardini fondamentali del suo diritto di Stato. Da allora e fino al 1797 il dominio veneziano, fra perdite e riconquiste, guerre, sottomissioni fu ininterrotto e dal XV secolo tutta la Dalmazia divenne parte integrante dello Stato veneziano «da mar». Città come Zara, Spalato, Traù, Sebenico, Cattaro, Ragusa (l’odierna Dubrovnik, è stata la quinta repubblica marinara italiana, dopo essersi affrancata da Venezia), isole come Curzola, Lissa, Lesina, Brazza, Meleda e cento altre località della Dalmazia portano ancora oggi nell’impianto urbanistico, nei complessi monumentali artistici e militari, nei palazzi, nelle vie i segni della presenza politica e culturale veneziana. Gli Slavi non riuscirono mai ad imporre il loro linguaggio ai Dalmati presso i quali avvenne la trasformazione del latino nel suo derivato volgare, il dalmatico.

Nel secolo XIV al dalmatico subentrò progressivamente il veneto che divenne la lingua ufficiale e culturale della regione pur conservando molto della lingua originaria. Fino alla caduta della Repubblica, avvenuta il 12 maggio 1797, la Dalmazia prosperò nelle istituzioni, nelle arti, nella cultura e nelle attività commerciali sotto le insegne veneziane. Anche l’elemento slavo-croato, spesso favorito dalla Signoria per ripopolare le campagne colpite dalla peste, conviveva ormai pacificamente da secoli con l’elemento latino, condividendone gli usi e i costumi; financo la lingua parlata sulle coste da Fiume a Spalato, una speciale varietà di lingua, la «ciacava», è ricca di parole veneziane, sconosciute ai Croati di Zagabria. Questi Dalmati di nuova acquisizione, contadini, marinai, pescatori divennero, a contatto con l’elemento latino, antropologicamente «mediterranei». Gli Schiavoni fedelissimi, gli oltremarini, furono le ultime truppe a lasciare la Capitale alla caduta della Repubblica. I Morlacchi di sangue latino, pastores Romanorum, per secoli combatterono sotto le insegne di San Marco e così gli Stradiotti che fornirono a Venezia la cavalleria leggera, impiegata contro il Turco. Tutti si sentivano uniti e protetti, sotto le ali del Leone. Come nel 476 d.C. l’Impero romano era sopravvissuto in Dalmazia, così anche la Signoria di Venezia continuò in Dalmazia per qualche tempo dopo la caduta della Repubblica. A Zara le insegne di S. Marco furono abbassate il 1° luglio, portate in Cattedrale, baciate e bagnate di pianto dal popolo. L’ultimo e più commovente saluto fu dato il 23 agosto dagli abitanti della città di Perasto, gonfaloniera del vessillo di battaglia della flotta veneta, nelle Bocche di Cattaro. Il Comandante della piazzaforte nel consegnare il gonfalone perché fosse deposto sotto l’altare pronunciò un nobile discorso di cui si riporta la parte più nota: «…Per trecentosettantasette anni le nostre sostanze, el nostro sangue, le nostre vite le xe stae sempre par Ti, o San Marco; e fedelissimi sempre se avemo reputà Ti con nu, Nu con Ti; e sempre con Ti sul mar nu semo stai illustri e valorosi. Nissun con Ti ne ga visto scampar, nissun con Ti ne ga visto vinti o spaurosi…»

Con il Trattato di Campoformio, la Dalmazia fu ceduta da Napoleone all’Austria ma, pochi anni dopo, nel 1806, tornò al Regno Italico retto dai Francesi, insieme all’Istria. In seguito, dopo alcuni decenni segnati da aspre contese, la regione tornò di nuovo all’Austria. Arriviamo così al 1815, l’anno in cui possiamo datare l’inizio del Risorgimento, anche in Dalmazia. Ben presto la Polizia austriaca individua nel fior fiore dei cittadini italiani, l’adesione alle idee di indipendenza e di ricongiungimento con l’altra sponda adriatica. Si scoprono Logge, Vendite Carbonare e poi nel 1830, adesioni alla Giovane Italia di Mazzini. È nel 1847 che entra nella storia di Dalmazia la figura di Nicolò Tommaseo di Sebenico, con la sua identità di vedute con Mazzini, egli propugnava la distruzione dell’Impero degli Asburgo e la resurrezione delle nazionalità.

Perciò Ungheresi, Italiani, Romeni, Serbi, Croati, Bulgari, Albanesi, «devono ribellarsi e costituire una nazione vivente di giovani nazioni associate». Viene perseguito dai Dalmati l’affratellamento con gli Slavi e per questo si moltiplicano le iniziative di scienziati, letterati, giuristi.

Ma, quando scoppiarono i moti del 1848 i Croati restarono indifferenti perché essi perseguivano il consolidamento della dinastia degli Asburgo attraverso una massa croata che intendeva diventare un pilastro di consolidamento dell’Impero. I Croati diventarono così il braccio militare dell’assolutismo austriaco e aspirarono, nell’ambito dell’Impero, ad annettere la Dalmazia alla Croazia. Ora, la Dalmazia del 1848 era nazionalmente quale Venezia l’aveva lasciata. E tale l’Austria l’aveva conservata, totalmente italiana nella cultura, nell’amministrazione, nelle gerarchie ecclesiastiche, nel censo, nel commercio, nella navigazione, nell’artigianato. Mai l’Austria cambiò i nomi delle città, delle isole, dei monti, dei fiumi. Questi nomi sotto l’Austria rimasero italiani per 120 anni perché esistevano da decine di secoli.

Ma l’elemento italiano, agli occhi degli imperiali, rappresentò un elemento su cui non si poteva fare affidamento: soltanto il mare divideva i Dalmati dalla madrepatria e questo l’Austria lo sapeva bene.

Agli inizi di marzo del ‘48 Milano, Venezia, Zara, Sebenico, Spalato insorsero concordi. La repressione austriaca stroncò sul nascere ogni possibilità di successo. Le città dalmate circondate dalle truppe austro-croate, i civili croati delle campagne vennero armati e aizzati contro i Dalmati, complice anche il clero croato che dipinse gli Italiani come massoni senzadio. Sul piano politico i Croati di Zagabria cominciarono ad esigere il pegno della loro fedeltà all’Impero e pretesero apertamente l’annessione della Dalmazia alla Croazia.

(Continua 1)