La vera carità, a chi ti è vicino

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saluto legionario cameratismo

Considerazioni di puro buon senso sulla tanto sdoganata e proclamata “carità”, di cui tutti, nella loro ipocrisia borghese, si riempiono la bocca.

di Salvatrice Mancuso

(www.costanzamiriano.com)- Parto da una constatazione: la carità oggi è davvero vincente. Le nostre società, i giornali, i talk-show, aggiungono sempre nelle pieghe delle loro performance un formidabile “additivo”: la carità, intesa forse meglio come “charity”. Il significato più forte di “questa” carità è quello di supplire alle carenze dello stato o degli stati e rendere gli uomini meno egoisti, facendo avanzare la società di qualche punto sul cammino della fratellanza.

E’ una carità/solidarietà,una carità brevettata, studiata, ha un suo format, con marchio registrato, non si può contraffare. E’ una carità fotogenica, sceglie macro-argomenti indiscutibilmente forti e irrinunciabili: i poveri, i migranti, l’Africa, i senza tetto, i senza lavoro, le mafie e le antimafie… i “produttori di carità” diventano, non poche volte, protagonisti sociali e assi portanti della parrocchia o della diocesi. Riescono a diventare responsabili di qualcosa, i loro nomi vengono inseriti nella lista di relatori di “convegni”, sono apprezzati, lusingati, fino a quando diventano fisicamente irraggiungibili e si nutrono di virtualità. La carità è giovane, o giovanile o giovanilistica: ha spazi dedicati alle schitarrate, alle mangiate, inoltre, per espletare le proprie funzioni, si sposta, è atletica. Viaggia in aereo, attraversa diversi fusi orari, cambia valuta, o, come minimo, esce dai confini della propria parrocchia e va dall’altra parte della città, o fuori città, o dalla parte opposta della regione. Insomma la carità non riconosce il”self”, ed esplora qualsiasi ambito, basta che non sia familiare. La carità così vissuta, non è proprio all’insegna dell’ecologia. Consuma carburante, ha bisogno di finanziamenti, di progetti, di promotori, di consulenti, di “logistica”, di competenze…insomma, un bell’apparato. Questa carità un po’ “stilosa”, che va in Lacoste (anche se scolorita e deformata), ha un’agenda rigida e inflessibile di impegni, si attacca al calendario con obbedienza maniacale. Nessuno può raggiungere un “caritatevole” se il calendario non lo permette (e quasi mai lo permette). E poi… tanto impegno, tante energie, tante buone azioni spalmate su territori lontani, a volte non visibili, lasciano però vasti ambiti di sofferenza esclusi dalla carità. E non si capisce cosa rende così inappetibili alcuni esseri umani, bisognosi di molto o di poco, agli esperti di carità. Chi censisce gli esclusi dalla carità? Chi li conosce?

Questa vita mi suggerisce qualche cosa: le persone più bisognose sono a stretto contatto di gomito, vivono a distanze centimetriche, ci respirano sul collo; con loro stiamo insieme come virtualmente bloccati in un ipotetico ascensore. E’ la nostra detestabile collega, che mette sempre ostacoli nei turni di lavoro, acida e zitella come nelle barzellette, con cui in trent’anni mai abbiamo fatto insieme dieci passi fuori dal cancello prima di andare a casa. E’ la sorella o fratello a cui attribuiamo tutti i privilegi di una particolare attenzione da mamma e papà, che è malata di cuore (vabbè, non è un tumore) è rimasta sola (ma ha un lavoro soddisfacente!), può permettersi il cibo buono, ma mangia scatolette perché non ha più con chi sedersi a tavola e ha dimenticato pure come si cucina.

E’ la vecchia mamma che vive dall’altra parte della città e puoi vedere sì e no mezz’oretta la domenica (se non siamo fuori con marito e figli per il week-end), ma tanto ha la badante… Insomma, gli esclusi dalla carità sono “i soli”, quelli che sono senza nessuno accanto perchè sono rimasti abbandonati, come un cane ai margini di un’autostrada (per cui nessuno alzerà voci indignate e nessuno interverrà a rimediare). Quelli “lasciati” dietro a una porta, sbattuta pesantemente e blindata per sempre, quelli per cui la vita ha costruito alte mura di recensione, vittime di un apartheid silenzioso, invisibile e irriconoscibile. In questa società liquida, “i soli” si sciolgono come molecole in una soluzione acquosa. Spesso non hanno bisogni economici, vivono decorosamente, ma non hanno stracci di relazioni umane che riscaldino l’esistenza, rimasti bloccati in una nuova era glaciale, dove sono definitivamente spenti quei gesti di umanità che una precedente società, da poco seppellita, riteneva naturali e imprescindibili. Palazzi condominiali in cui l’unica attenzione rivolta al vicino serve per monitorare il comportamento ritenuto più incivile del proprio. Parenti stretti che si ricordano ogni lustro della zia o della cognata, rigorosamente sola. Condoglianze solo su watsapp o su Facebook. La mamma che vive solo della tua telefonata, che dimentichi spesso di chiamare, perché “eri fuori con amici”. Saluti ai colleghi che assomigliano a borborigmi. L’abbandono- il momento più doloroso del calvario di Cristo, quando momentaneamente si interrompono addirittura i canali di comunicazione con il Padre- è una sorta di “soluzione finale” della società, uno sterminio dell’anima, in cui la croce sembra schiacciare, e non si riesce a trovare una exit-strategy.

Scriveva Madre Teresa di Calcutta nelle regole della sua congregazione: “non permettete a nessuno di sentirsi solo, indesiderato, non amato, ma non permettetelo anzitutto a quelli di casa vostra, al vostro prossimo”.

Dovremmo capire che il nostro prossimo va riconosciuto letteralmente in ciò che è “geometricamente” prossimo, vicino: quello di cui sentiamo l’odore, quello con cui abbiamo legami familiari, i compagni di squadra, di lavoro, coloro con cui condividiamo il pianerottolo, chi mi sta seduto casualmente accanto sull’aereo o abitualmente a messa… In questa vita dovremmo pensarci come inseriti in lunga fila dietro lo sportello di un fantomatico ufficio di kafkiana atmosfera: invece di estraniarci, credendo che il bello sia lontano da quella coda, dovremmo vedere e guardare il volto di chi ci sta davanti e di dietro, di quelli che il caso ci ha messo accanto. Quelli saranno i veri compagni del nostro viaggio, quelli con cui condivideremo l’ansia, il senso della coda e dell’attesa e i motivi che ci hanno portato in questo giorno nello stesso anonimo ufficio, lì dove ci permetteremo anche di far passare avanti chi ne ha necessità.

Insomma, una carità “a chilometro zero” che potrebbe regalarci un gusto nuovo nel guardare i bisogni degli altri, una “slow charity”.

Nota della redazione di AT:
La carità a chilometro zero c’è la fa davvero.
Aiutare un padre con una figlia malata, ecco la vera solidarietà, quella fatta a chi abbiamo vicino, al collega, all’amico, al parente. Senza dover per forza trovare un indigente sparso dall’altra parte del mondo, come invece vorrebbe la Boldrini…
Aiuta il tuo ‘vero’ prossimo.

http://m.ilmessaggero.it/m/messaggero/articolo/PRIMOPIANO/1615904

(Parigi)- Grazie alla solidarietà dei colleghi che gli hanno donato 350 giorni di ferie il papà di una bimba di cinque anni malata di cancro non dovrà scegliere tra sua figlia e il posto di lavoro. 

Jonathan Dupré, papà 31enne di Naëlle, ora potrà seguire la sua bambina durante la chemioterapia grazie a una legge francese che consente di devolvere volontariamente i propri giorni di ferie in favore di un genitore che ne abbia bisogno per assistere i figli durante le malattie. La storia del bel gesto collettivo arriva da Neufchâtel-en-Bray, a nord di Rouen, Alta Normandia.

Tutto è cominciato un anno fa, quando è stato scoperto un tumore al rene di 13 centimetri sulla piccola Naëlle, e il papà non aveva più giorni di ferie a disposizione per starle vicino. Così è scattata la gara di solidarietà nell’azienda per cui lavora il signor Dupré, che per circa un anno potrà stare vicino alla sua bambina e darle forza per superare il male.