Nel mondo moderno dominato dai tiranni del denaro, ben lontani dalla figura del Rex, è imprescindibile riaffermare la supremazia dell’Autorità Spirituale sul Potere Temporale. Con questo approfondimento di diritto romano e di storiografia romana, si chiarisce la sostanza di tale supremazia, attingendo dalla memoria dei padri, dall’eredità della Tradizione.
Nella nostra redazione di Azionetradizionale.com l’impegno è sempre volto, con piena impersonalità, a fornire contributi per il Fronte della Tradizione. E questo scritto è un nostro contributo chiaro, lineare, ‘romano’ ed esaustivo.
(a cura della Redazione di AT)
Con l’avvento della res publica e la fine del regnum, l’unità primigenia, che vedeva riunificati nel rex il «potere temporale» e l’«autorità spirituale», si divide. Il rex viene svuotato dell’imperium che passa ai magistrati maiores; al re, che si riduce a rex sacrorum, vengono conservate le sole prerogative sacerdotali e riservato un ruolo di preminenza rispetto agli altri sacerdoti (J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Roma 2007, p. 108 n. 7).
Nasce una ‘distinzione’ tra sacerdotium e imperium che si protrarrà fino ad Augusto. Questa ‘distinzione’ non è però una ‘separazione’ e il «potere temporale» (magistratus) e l’«autorità spirituale» (sacerdotes) restano in perfetta armonia (R. Guénon, La Crisi del mondo moderno, Roma 2003, p. 71 n. 1).
Il diritto pubblico romano è infatti tripartito in sacra, sacerdotes e magistratus (come testimoniato da Cicerone nel De legibus, 2, 19 e confermato in epoca tarda da Ulpiano in D. 1, 1, 1,2). I magistrati per esercitare il potere temporale – che deriva loro dal populus – devono compiere gli auspicia. I sacerdotes – la cui autorità spirituale trova fondamento nella divinità – interagiscono continuamente con il potere temporale (presiedono ai culti pubblici e ad alcune assemblee popolari, redigono il calendario pubblico, procedono alla formalizzazione del bellum iustum e così via). Non solo: le stesse persone possono presiedere tanto al potere temporale – magistrati – quanto all’autorità spirituale – sacerdoti – contemporaneamente (Cicerone nel De domo sua, 1, 1: «tra le molte istituzioni che dai nostri antenati divinamente sono state ideate e introdotte, nessuna, o pontefici, è più bella dell’aver disposto che le stesse persone presiedessero sia al culto degli Dei immortali sia al governo della repubblica»).
Questa armonia – che non è nient’altro «che un riflesso o un’immagine della vera unità» (R. Guénon, Autorità spirituale e potere temporale, Milano 2014, p. 23) – arrivò mai a degenerare in un’opposizione nel corso della repubblica? Se sì, il principio gerarchico per cui la «regalità» – e tutti i suoi derivati quali sono la potestas e l’imperium dei magistrati – debbano dipendere dal «sacerdozio» trova conferma nelle testimonianze della Roma repubblicana?
C’è un episodio tramandato da Tito Livio (Livio, ab Urbe condita, 37, 51, 1-4) che tratta di uno scontro tra il pontifex maximus Licinio e il flamen Quirinalis Fabio Pittore. Quest’ultimo, nel momento in cui viene eletto promagistrato per la provincia Sardegna, viene richiamato dal Pontefice Massimo (in quanto suo ‘superiore’ nel nuovo ordo sacerdotum che lo vede al vertice al posto del rex sacrorum, cfr. G. Dumézil, La religione romana arcaica, Milano 1977, pp. 103 e ss.) all’adempimento dei propri compiti sacerdotali, con l’ordine di rinunciare alla promagistratura provinciale. Il pretore e flamine quirinale Fabio Pittore rifiuta di attenersi al comando del Pontefice e oppone al suo ordine il proprio imperium. Vengono coinvolti il senato, il popolo e addirittura i tribuni della plebe ma alla fine l’opposizione trova soluzione nell’applicazione del principio gerarchico: «religio ad postremum vicit» («alla fine vinse la religione»). Il pretore è costretto a rinunciare alla provincia, resta a Roma a esercitare la giurisdizione e viene sostituito nell’amministrazione della provincia da un altro pretore suo collega.
L’applicazione al caso concreto del principio gerarchico, per il quale il «potere temporale» debba essere subordinato all’«autorità spirituale», trova conferma in alcuni principi del diritto pubblico romano:
1) nel riconoscimento ai sacerdotes di potestates, di cui sono un’esplicazione i loro comandi ‘verso’ il popolo seppur non provengano ‘dal’ popolo (esemplarmente Cicerone nel de domo sua, 136: «pontifices semper non solum ad suas caerimonias sed etiam ad populi iussa adcommodaverunt» [i pontefici si sono sempre dedicati non solo alle proprie cerimonie ma anche ai comandi del popolo]);
2) nel fondamento dei comandi dei sacerdotes che – a differenza di quelli dei magistrati – non risiede nel populus ma nella divinità;
3) nella soggezione di tutti gli uomini alle potestates degli Dei, compresi quegli uomini che sono titolari a loro volta di potestas o imperium, come i magistrati repubblicani o, in generale, i re che esercitano poteri sugli uomini (come ricorda Cesare in un suo discorso pubblico tramandatoci da Svetonio, Divus Iulius, 6: «…sanctitas regum, qui plurimum inter homines pollent, et caerimonia deorum, quorum ipsi in potestate sunt reges …» [… la sacralità dei re, che tanto possono fra gli uomini, e la santità degli Dei che hanno potere sugli stessi re …]).