di Adriano Segatori
(Il Borghese, agosto 2016)
ITALIA PROLETARIA E DEMOCRATICA: IN GINOCCHIO!
Certo, l’effetto di questo ordine perentorio non ha lo stesso impatto emotivo di «Italia proletaria e fascista, in piedi!», né può essere prescritto con energico vigore da un preciso balcone della Roma imperiale, ma deve essere sussurrato in qualche dolciastra e viscida omelia domenicale da ben altre finestre. Del resto, si sa, che il secondo proclama era una trappola per avere carne da macello in guerre di espansione o manodopera per costruire discutibili opere di regime – così dicono i democratici pacificamente melensi. Il primo, invece… Intanto proletario suona male. È un archetipo, se vogliamo dire, desueto, incomprensibile per la sterile società capitalista dove i figli sono sempre di meno e quelli che ci sono emergono per una percentuale non proprio modesta di viziati e a midollo annacquato. Poi, suona male dal punto di vista estetico: sa di mani callose, di alzatacce mattutine, di osterie fumose, di mogli sfatte e di ferie spiaggiate. E le proletarie? Tutte cucina e allattamenti, occhi puntati sulla spesa o convergenti nei rammendi, odoranti di minestrone e di sugo, attenti alle piccole manutenzioni domestiche e ai comportamenti dei pargoli. Insomma, una diffusa e maleodorante malasorte.
I figli, ancora? Una ricchezza per numero. I più discoli, i meno interessati a piegare la schiena sui libri sarebbero stati indirizzati al lavoro, magari seguendo le orme paterne e la bottega di famiglia. I secchioni, quelli più dotati o, quanto meno, con maggior spirito di acculturamento, sarebbero finiti nelle «scuole alte» e da lì ad un più elevato gradino sociale dando lustro al cognome.
Oggi, invece, il capitalismo ha creato finalmente il paradiso in terra. Un mondo dorato in cui gli uomini, finalmente, si occupano del proprio corpo, con cerette, manicure e creme antirughe; uomini che concorrono con le donne nella ricerca dell’estetica esteriore e che con i giovani entrano in patetica competizione nella pretesa di visibilità, di seduzione e di avvenente ammirazione. Le donne non disdegnano, ovviamente, la cura di sé, ma con modalità parallele e a volte sovrapposte a quelle dei partner maschili. Dai tatuaggi all’alcol, dalla caccia sessuale ai comportamenti relazionali, tutto si è confuso in un’atmosfera di ambigua concorrenza, con una variabile in più: la lotta per la carriera. Una emancipazione nel lavoro che trova il ridicolo compenso nelle «quote rosa», la percentuale riservista che obbliga il sistema al riconoscimento del femminile. Donne che si scannano per raggiungere evanescenti, ma pur sempre visibili, centri di potere, e che le stesse altre donne non sopportano nel momento in cui a quel potere ci arrivano.
Sia da parte maschile sia da quella femminile, alla fine, si sta affermando una melassa indistinguibile di stili, di comportamenti e di mentalità in un’omologazione in cui tutti assorbono il peggiore dell’altro, annegando nell’indifferenzialismo ogni sana e spontanea peculiarità.
In mezzo a questo caotico e disorientante cambiamento i figli come sono sistemati? Innanzitutto pochi. Pochi perché ogni gravidanza è un peso per la coppia: il peso di sopportare mesi di limitazioni e controlli, per lei; il peso di sopportare la perdita di esclusività, per lui. Per entrambi, un peso per i condizionamenti nella vita di relazione e nel bilancio domestico. Primo attacco del capitalismo contro i figli come risorsa e come futuro per presentarli in qualità di baby consumatori, e contro i genitori, da disimpegnarli dal ruolo familiare e poterli meglio sfruttare, e ricattare, individualmente in quello di strumento lavorativo. Il secondo attacco è stato portato contro l’idea di lavoro proprio attraverso i giovani. I genitori, si sa, per documentata ricerca, proiettano le proprie aspettative e le proprie ambizioni ben prima del concreto concepimento. È cosa naturale e giusta, se contenuta nei confini della ragionevolezza e del buon senso.
«Meglio un asino vivo che un dottore morto», dicevano un tempo le nonne per consolarti di una prestazione scolastica andata male. Oggi, la presunzione genitoriale non ha più limiti. Il capitale ha squalificato il lavoro deprivandolo di qualsivoglia dignità, per cui chiunque ha diritto ad una laurea, ad un master, ad un perfezionamento all’estero e, naturalmente, ad una attività di tipo intellettuale (si fa per dire). Il lavoro sporco, quello manuale, quello della fatica fisica, è stato relegato nel livello più infimo delle prestazioni, per delegarlo ai nuovi schiavi che tutti accorrono ad accogliere con laido e interessato umanitarismo. Se i figli, un tempo, erano la ricchezza per i poveri e l’orgoglio per i nobili, ora sono un fastidio per la maggioranza. Se pensiamo bene, il trionfo mortifero del capitalismo è anche il trionfo della mentalità borghese. Ha descritto perfettamente Jean Cau questa perversione interpretativa dei figli e del loro ruolo comunitario. Un tempo il contadino pensava: «Se mio figlio non combatte, chi difenderà questa casa e questo podere?». E il nobile aggiungeva: «Se mio figlio non combatte, chi difenderà l’onore della casata?». Il borghese pensava, e continua a farlo: «Se mio figlio va a combattere, chi gestirà la mia roba?». Non più eredi di un retaggio e di un sangue, ma proiezioni confuse di narcisistiche e oggetti di riempimento di patologiche mancanze.
È proprio sulla «roba» che si gioca il crollo demografico. Sulla questione del superfluo che tutti pretendono e che nessuno è più disposto a rinunciare. È sulla limitazione delle voglie vegetative e mercantili, che il capitalismo continua a sostenere e ad incentivare, che si gioca la rivincita in termini di natalità e di destino. Altro che politiche della famiglia. Questa depravazione politica esige proprio il disfacimento della famiglia, del nucleo fondante di ogni comunità umana e di destino che abbia, sola, il diritto di definirsi tale. Inginocchiamo, allora, alle istanze del capitale, alle sue corruzioni, alle sue perverse futilità, ma ricordiamoci di un pensiero del filosofo di Rticken: «Il male. Mette alla prova la vita degli uomini e dei popoli migliori e più fecondi, e domandatevi se un albero che deve crescere superbo in altezza, possa fare a meno del maltempo e della bufera. [ …]. Il veleno, che fa perire la natura più fragile, rinvigorisce il vigoroso – per costui non ha neppure il nome di veleno». Sottovalutiamo il veleno che ci sfibra e ci isterilisce, ma lo riteniamo un’innocua pozione, e questo non è assassinio, ma un suicidio.