di Emilio Del Bel Belluz
Quando muore qualcuno che abbiamo amato si ha l’impressione che qualcosa si stacchi da noi, si sente il cuore che si impoverisce. La scomparsa del professore Marcello Battiston mi ha colto impreparato, come chi non immagina mai di subire una perdita così dolorosa, la morte di una persona di cultura che aveva passato la sua vita ad insegnare l’arte del vivere.
Ricordo che, in una mia visita che gli feci assieme a mio nipote Umberto, ci volle raccontare che nella vita di ogni giorno, nelle nostre letture dovevamo fermarci e sottolineare un brano che stavamo leggendo, se questo brano aveva il potere di stupirci. Quel giorno ci ricevette nel suo studio foderato di libri, seduto nella sua poltrona con un libro in mano. Più volte disse a mio nipote, che è uno studente di terza media, di sottolineare, di evidenziare una bella frase e di impararla. Questo lo considerava una cosa basilare nella vita. I libri che il professore aveva letto erano pieni di frasi che meritavano di essere amate ed evidenziate. Ogni momento della sua vita lo aveva usato per raccogliere dai libri la linfa per vivere.
Si è spento all’età di 102 anni che aveva compiuto il 3 maggio di quest’anno. Ogni volta che lo andavo a trovare nella sua dimora a Brische comprendevo che avevo davanti una persona che aveva vissuto anni durissimi, anni di fame e di miseria. I suoi ricordi lo portavano anche alla Grande Guerra, si trovava allora ad avere pochi anni, ma gli era rimasto dentro quel clima di disperazione che ogni guerra porta con sè. Spesso mi raccontava di un soldato tedesco che mentre gli stava offrendo un pezzetto di polenta e aveva allungato la mano per darglielo, si accorse che vicino a lui c’era suo cugino più piccolo e quel cibo lo diede e lui. La Grande Guerra e quel clima di morte lo aveva provato partecipando alla seconda guerra mondiale come ufficiale. Dopo l’otto settembre del 1943 fu fatto prigioniero e portato in Germania. In quel campo di concentramento conobbe la fame e la disperazione. In quello stesso campo ebbe la possibilità di conoscere uno degli scrittori più affermati del dopo guerra il grande Giovannino Guareschi, autore di grandi libri che hanno fatto la storia del Paese. Il professore mi parlava sempre della notte di Natale, in cui lo scrittore di Brescello aveva intrattenuto i suoi compagni di prigionia con una rappresentazione teatrale. Quella notte di Natale, lontano da casa, dai propri cari aveva provato per un attimo il tepore della festa natalizia. Negli anni ricordava quell’avvenimento come un momento particolare. Alla fine della rappresentazione i soldati non volevano lasciare il posto dove, per un attimo, avevano trovato una piccola gioia. Guareschi poi di quel Santo Natale scrisse nei suoi libri. Il professore aveva sempre letto le opere di questo maestro della letteratura. Nella sua biblioteca aveva queste opere e ne era fiero.
Mi capitò un giorno di trovarmi in sua compagnia assieme ad un soldato con cui aveva diviso la baracca in Germania. Un soldato che in quella baracca aveva, con abilità di maestro, disegnato quei momenti di vita. Quel giorno raccolsi il pensiero più intimo della vita di prigionia. Nella vita di una persona amata vengono in mente i momenti salienti, quelli che hanno dato spessore alla vita. Nel giorno in cui compiva cento anni, volle suonare in chiesa l’organo. Alla fine della messa volle pronunciare delle parole che provenivano dal cuore che hanno un peso rilevante. disse:
“Tutti i miei amici di adesso e di un tempo, vi voglio ringraziare per la vostra presenza. Guardate che io vengo da lontano, lontano quando nessuno di voi era nato e ho tutti i primi ricordi della nostra parrocchia e ricordo quel benedetto parroco che mi diede un giorno una grande sberla, ma dopo insegnò a noi tutti come camminare secondo gli insegnamenti della Chiesa. Comunque io ringrazio tutti e voglio ricordare una cosa: ho chiesto a Don Mario, il nostro amatissimo parroco, il permesso di fare una cerimonia un po’ all’antica, tant’è vero che abbiamo tirato fuori il Gregoriano. Sono rimasto io vecchio qui a parlare e siamo qui a pregare in questa chiesa che secondo la tradizione è stata costruita dopo Attila,sulle rovine di un tempio pagano con le pietre che venivano da Opitergium, l’attuale Oderzo che era stata distrutta da Attila e dai barbari. In un primo tempo era piccola e poi è stata ingrandita e quindi ha accolto tutti i nostri antenati qua a pregare. Ho voluto ricordare questo per indicare che qua ho le radici, qui le ho messe e qui voglio finire con i piedi sulla mia terra. Vi ringrazio tutti e ci vediamo tra un po’ scusate perché sono vecchio. Vedo che ci siete veramente tutti, grazie. Vedo voi i vostri nonni e bisnonni”.
Queste parole possono essere considerate il suo testamento spirituale, l’attaccamento alle proprie radici, mi fanno pensare agli alberi che sanno dove nascono e dove muoiono. Si dice che nel luogo dove si nasce c’è un pezzetto di cielo che ci appartiene. A Brische il professore ha vissuto la sua vita, davanti alla stupenda chiesa, alla canonica e con lo spettacolo degli alberi che in questo mese il professore ha visto cadere le foglie per l’ultima volta. Era molto attaccato alle sue radici e a quel posto che gli fu tanto caro nella sua vita. La vita di un uomo è fatta di avvenimenti, di sentieri che dobbiamo percorrere e che solo Dio conosce il nostro ultimo tratto. La mano del Signore e la fede lo hanno sempre guidato.
Nella sua casa il pianoforte ora è muto, ma la sua musica si sente ancora. In uno stupendo articolo, Luigi Tallarico in memoria del poeta Ugo Fasolo riporta una frase di La Rochefoucauld : “Due cose non si possono fissare a lungo: il sole e la morte”. Tallarico continua :”Eppure, quando la morte colpisce chi non è estraneo, a noi, fissarla non è solo per capacitarci che il suo morire è anche un nostro morire, ma per scoprire i disegni e la azioni che l’invisibile ha riservato anche per noi. Fissarla tanto più a lungo, per quanto più a lungo dura la paura per la nostra esistenza. Ma quando muore il Poeta, no. Il poeta non resta attaccato a se stesso, ha già negato se stesso per essere tutti noi, come dovremmo essere. Per lui morire è già un immortalarsi.” Queste parole mi sono venute in mente alla morte del professore, che ha tracciato una via, lasciato una scia nobile, e in questa scia ognuno di noi si deve ritrovare.
Un giorno il professore mi chiamò nel suo studio e mi raccontò l’essenza della vita. Questa massima di vita si raccoglieva in un racconto di uno scrittore russo. Due amici si incontrano dopo tanti anni in treno. Uno di loro è in compagnia della moglie e del figlio. Si abbracciano e ricordano i vecchi tempi, dandosi del tu. Ma nel momento in cui uno di loro si accorge che l’amico dovrà lavorare con lui a scuola, subito si stacca dalla profonda amicizia che li aveva legati, subito finiscono i loro discorsi. L’amico che è un superiore dell’altro lo rimprovera perché non è ancora giunto a scuola, perché è in ritardo. Cessa ogni gentilezza, perché questa è la vita. L’amico si riconosce invece dalla semplicità con cui tratta quelli che hanno un grado meno di lui. Ogni persona deve essere felice per quello che può dare agli altri. Un premio nobel John Steinbeck scrisse : “L’umanità ha attraversato un grigio e desolato periodo di confusione. Lo scrittore ha il compito di far conoscere e di celebrare la dimostrata capacità dell’uomo per la grandezza d’animo, per l’eroismo nella sconfitta, per il coraggio, per la pietà e per l’amore nell’incessante guerra contro la debolezza e la disperazione, queste sono le fulgide bandiere della speranza e dell’emulazione. Io sostengo che uno scrittore il quale non crede con fervore alla perfettibilità dell’uomo non ha vocazione né diritto di cittadinanza nella letteratura”.
La morte del professore lascia traccia per tutti quelli che lo hanno amato e quella traccia non è destinata a seccarsi mai. Come quella scia nobile che lasciano le persone grandi. Passando davanti alla sua casa, ho pensato a lui seduto con un libro in mano, cercando per l’ultima volta una frase da donare a chi ama la vita e la scopre anche attraverso i libri. Ora la morte lo unisce per sempre alla moglie e in quel paradiso troverà il suo amico di prigionia Giovannino Guareschi che lo ha preceduto…
Dal testamento di San Pietro I Vladika del Montenegro.
“Io mi avanzo pieno di speranza alle soglie del Tuo Divino Santuario la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato
dai miei passi mortali. Alla Tua chiamata io vengo tranquillo…”