Un terribile presagio. Il precipitare in un incubo senza fine. Una esortazione ad opporsi all’invasione immigratoria e alla fine dell’Europa.
di Maurizio Rossi
«Il tempo dei mille anni giunge alla fine. Ecco, escono le nazioni che sono ai quattro angoli della terra, il cui numero eguaglia la sabbia del mare. Esse partiranno in spedizione sulla faccia della terra, assalteranno il Campo dei Santi e la Città diletta.»
(Libera citazione di Raspail del Capitolo XX dell’Apocalisse di San Giovanni.)
Un monumento di cinque metri di altezza e di tre metri di larghezza, realizzato in ceramica refrattaria e ferro zincato ed inaugurato il 28 giugno 2008. Ecco lo sciagurato simbolo della complice sottomissione alla propagandata inevitabilità dell’invasione immigratoria di popolamento e alla consequenziale sostituzione dei popoli: La Porta dell’Europa a Lampedusa.
Affacciata sul Mediterraneo, di fronte al continente africano, come per dire: venite pure, le nostre porte sono spalancate, non chiediamo che di accogliervi. Fateci parte integrante di voi. Ovunque voi siate, venite. Non aspettiamo altro! Liberateci dal fardello di essere europei. Lo siamo stati per troppo tempo.
Il nervo scoperto di una cupa disperazione propria di chi ha volontariamente deciso di divorziare, recidere, allontanare violentemente da sé radici remote, identità, appartenenze, eredità e sentimenti, con la pretesa di voler «redimere» gli europei rimasti tali sussurrandogli parole di carità dovuta, di incontro necessario, di accoglienza indiscriminata, di ibridazione delle culture, di «sottomissione» all’altro da noi; al fine di avvelenargli l’anima.
Eccoli i predicatori di un ipotetico mondo «senza frontiere», senza limiti, privato della ricchezza della molteplicità delle differenze. Sono i No Borders, i malriusciti che si oppongono violentemente ad ogni intervento restrittivo e di controllo dei flussi immigratori, i difensori di quella che è stata la Giungla di Calais e della sua babele di urla.
I fanatici negatori delle preziose specificità della plurimillenaria Civiltà europea.
Proprio nel XXV° Rapporto Immigrazione 2015, redatto da Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, intitolato ipocritamente «La cultura dell’incontro» presentato ufficialmente il 5 Luglio 2016 a Roma, si parla esplicitamente della nostra nazione nei seguenti termini: «L’Italia, un paese plasmato dall’Immigrazione»
D’altronde, un certo prof. Stefano Zamagni, dal 2013 membro della prestigiosa Pontificia Accademia delle Scienze, scrisse in proposito: «E’ un fatto, ormai ampiamente riconosciuto, che nell’epoca della globalizzazione il fenomeno migratorio è destinato ad acquistare sempre più i caratteri della normalità, à perdere cioè i caratteri dell’evento eccezionale o transitorio.»
Chiamano l’invasione «normalità» sperando così di renderla anche fatalmente «accettabile» all’opinione pubblica, giustificando le sue continue ondate in crescita esponenziale come inevitabili.
Ci troviamo quindi di fronte al piano inclinato di società sfaldate in ogni loro aspetto e alla rassegnazione avvilente di una porzione di umanità alla totale deriva.

Una situazione, emergenziale ma anche foriera di inaspettate prospettive, che gli europei dovranno affrontare con coraggio pur di salvare le loro preziose specificità, quell’intima sostanza che da sempre da il giusto valore al flusso vitale delle generazioni, quelle passate – presenti – future, per non diventare stranieri nella propria patria. Una situazione da affrontare quindi con spengleriana decisione: «Qui, forse già in questo secolo, le decisioni finali attendono il loro uomo. Di fronte a esse, i minuscoli obiettivi e le modeste concezioni della politica odierna sprofondano nel nulla. Qui, signore dell’universo diverrà colui che con la propria spada riporta la vittoria. Il gioco è immenso: eccone i dadi. Chi ardisce gettarli?»
A questi ultimi europei, uomini e donne rimasti fedeli al proprio popolo e quindi a se stessi è rivolto Il Campo dei Santi di Jean Raspail, a loro spetterà gettare i dadi.
***
Allo stato attuale dei fatti, due sono le principali manifestazioni delle trasformazioni destabilizzanti in corso d’opera che investono complessivamente il pianeta e soprattutto l’emisfero europeo: la crescente invasione immigratoria proveniente dall’Africa, dall’Asia e dal Sud-America verso l’Europa e contemporaneamente l’espansione tentacolare della globalizzazione capitalistica e cosmopolita a livello planetario con i conflitti annessi che essa genera e con il suo pervasivo pensiero unico liberale/libertario/liberista, di natura appunto globale e cosmopolita e corruttore della natura umana.
Il mondialismo finanziario rappresenta infatti l’apoteosi dello stravolgimento di tutte le barriere che potevano arginare la formazione di un unico mercato mondiale spalancando così le porte all’invasione immigratoria delle genti straniere, la testa d’ariete del mondialismo, una logica derivata che è strettamente correlata e funzionale al processo di disintegrazione delle identità dei popoli europei e al loro amalgama indifferenziato – anzi viepiù necessaria per il conseguimento dell’obiettivo finale: la loro «sostituzione» come venne più volte denunciato da Dominique Venner.
Anche lui sodale di Jean Raspail.
Appare evidente che una seria critica fondata sui processi in atto non poteva che abbracciare simultaneamente ambedue le sue espressioni, come sottolineò efficacemente Alain De Benoist in questa sua polemica sintesi: «L’Immigrazione è un fenomeno padronale. Chi critica il Capitalismo approvando l’Immigrazione, di cui la classe operaia è la prima vittima, farebbe meglio a tacere. Chi critica l’Immigrazione restando muto sul Capitalismo dovrebbe fare altrettanto.»
A sua volta, Franco Giorgio Freda, nel corso della sua milizia politico-editoriale di denuncia della globalizzazione mondialista e della minaccia dell’immigrazione, volle insistere sulla possibilità operativa di invertire la rotta al fine di contrastare efficacemente la minacciosa deriva del dissolvimento etno-culturale delle stirpi europee, un dissolvimento promosso dai potentati oligarchici dell’alta finanza internazionale: «Uno dei presupposti falsi del mondialismo è l’aspirazione (o la convinzione o la rassegnazione) degli esseri umani al meticciato etnico e culturale, meglio: all’ibridazione generale delle nature e alla confusione completa delle culture. Questo meticciato costituirebbe l’alvo biologico e ideologico di quella uniformazione del mondo e della vita, attraverso la pace generale, che una unica Amministrazione mondiale garantirebbe. E per propagandare il suo progetto di indistinzione planetaria, il mondialismo ripete ossessivamente il tema della necessità, della ineluttabilità, dunque(?) della «dignità» del fenomeno. Ci troviamo di fronte alla propaganda maligna di una fede ideologica, che diffonde un virus letale per l’integrità di tutte le comunità etniche.»
Sono trascorsi 43 anni dalla prima edizione francese de Il Campo dei Santi di Jean Raspail e siamo già alla seconda edizione italiana curata dalle Edizioni di Ar per la collana Il Cavallo Alato. E non sono stati certo anni tranquilli.
Grazie al suo terribile romanzo l’autore si guadagnò l’infamante etichetta di «scrittore maledetto» da parte del sinedrio progressista dell’intellighènzia benpensante di potere. Scaltri manipolatori della pubblica e ingenua opinione che, avendo maldigerito le acute visioni del Raspail e il loro pericoloso tono profetico, preferirono pilatescamente lavarsene le mani, e anche la coscienza, bollando lo scrittore di ogni nefandezza espellendolo dal consesso degli scrittori «perbene», cioè quelli graditi alla nomenclatura del potere politico e intellettuale.
Quale infamante colpa aveva commesso il Raspail per meritarsi tanto? Aveva, semplicemente preannunciato, un terribile futuro, neanche tanto lontano nel tempo, dipinto a tinte fosche e violente, dove la società francese avrebbe conosciuto, per sua definitiva disgrazia, una sanguinosa ecatombe interna dovuta ad una sintesi esplosiva tra l’effetto scatenante di una invasione straniera, apparentemente pacifica, di una massa immensa di boat-people provenienti dal quarto mondo più miserabile del sub-continente indiano e una rivolta anarchica ancor più violenta che si svilupperà all’interno delle città francesi ad opera dei numerosi africani e maghrebini da tempo residenti, più o meno lecitamente, sul suolo francese.
L’armata dell’ultima Chance, così Raspail chiama l’immensa flotta degli stranieri provenienti dal sub-continente indiano. Sono i Chandala, i reietti, i senza casta guidati da una paradossale figura segnata da ripugnanti deformazioni genetiche chiamata il Coprofago che, partendo da Calcutta e sbarcando a milioni sulle coste della Francia, si salderà spontaneamente con altrettanti milioni di rancorosi stranieri interni eccitati di violenza e bramosi di rivincita e di vendetta.
Una morsa a tenaglia che inevitabilmente e brutalmente – la vigliaccheria, la complicità e la rassegnazione dei francesi faranno il resto – strangolerà la Francia preannunciando la rapida capitolazione dell’intera Europa, poiché le sanguinose rivolte esplose nell’esagono si diffonderanno a macchia d’olio investendo l’intero continente, dilagando poi nell’intero emisfero delle nazioni bianche.
In pochi giorni si consumerà l’apocalisse dell’Europa, scivolata all’improvviso nell’incubo di un girone dantesco di devastazioni, di sangue copiosamente sparso, di stupri.
E’ il tramonto dell’Occidente di Spengler nella sua veste più cruda e violenta.
Raspail non si appella però alla speranza, anacronistica al momento che pietà l’è morta e un ciclo sta volgendo al termine. Cerca piuttosto gli ultimi Uomini, nonostante tutto, ancora virilmente in piedi. Uomini che non si fanno illusioni, tantomeno le cercano, manifestazioni elementari e differenziate di un tragico realismo eroico. Proprio nei momenti di esasperata drammaticità, quando tutto appare perduto e privo di significato, si vedono emergere figure inaspettate che scelgono di battersi per puro rispetto verso se stessi, verso il proprio libero codice d’Onore, capaci di slanci di grande nobiltà d’animo e di coraggio.
Senza guardare al risultato. Senza cercare vie di fuga. Senza rimpianti. Allora, Non Je ne regrette rien, la canzone della Piaf dedicata ai paras d’Algeria, torna ad essere la loro ultima canzone.
***
Questa in sintesi la trama del tanto esecrato romanzo di Jean Raspail che generò sconcerto e scandalo nella società francese oltre ad un incredibile successo di vendite che continua tuttora.
Non soltanto, le lucide visioni di Raspail, anche se contenute in un romanzo, turbarono i lettori; fecero paura. Furono un pugno alla bocca dello stomaco, di quelli che ti spezzano il fiato piegandoti in due. Alimentarono profonde e inconsce inquietudini, crearono malessere, disturbavano e incrinavano le fragili certezze del «pensiero debole», del buonista e arrendevole integrazionismo e dell’accoglienza tanto predicata.
Costringevano ad aprire gli occhi e a posare lo sguardo smarrito sul nuovo «vicino di casa».
L’immigrazione si presentava con un altro volto, e non era piacevole vederlo.
L’anno successivo alla pubblicazione in Francia del romanzo di Raspail, il presidente algerino Houari Boumedienne dal podio dell’ONU, rivolto ai delegati europei, pronunciò parole profetiche dal tono minaccioso: «Presto irromperemo nell’emisfero del nord. E non vi irromperemo da amici, no. Vi irromperemo per conquistarvi. E vi conquisteremo popolando i vostri territori coi nostri figli. Sarà il ventre delle nostre donne a darci la vittoria.»
Eccola la terribile minaccia della sostituzione dei popoli europei, preannunciata anche dal Raspail.
Era il 10 Aprile 1974. Sarebbe stato meglio per tutti riflettere con attenzione sul significato di quelle parole e prenderle in maggiore considerazione, ma l’opulenta Europa mercantilistica stretta nella morsa di USA e URSS aveva allora altro a cui pensare.
Quel giorno, purtroppo, è arrivato!
«La marcia dei popoli europei verso il precipizio sta accelerando. Il grande suicidio è di fronte a noi. Troppi Europei sembrano esserne ancora inconsapevoli. Se qualcuno tra loro spera in una morte dolce, piangerà lacrime di sangue. Prima che sia troppo tardi gli Europei che vogliono sopravvivere (sì, sopravvivere, perché ci siamo) devono raggrupparsi e prepararsi al combattimento. Sapendo che la Resistenza esige coraggio, sacrifici, una lucida visione della realtà, rigettare le illusioni e le false speranze: non possiamo contare che su noi stessi e sui nostri camerati. Ma lì dove c’è una volontà c’è una strada …»
Attraverso le parole di Pierre Vial contenute in questa esortazione volta al risveglio delle coscienze e alla riconquista della piena sovranità nelle nostre terre rivivono i dialoghi dei protagonisti del libro di Jean Raspail. Attraverso loro, l’autore volle parlare agli europei indicandogli quello che probabilmente sarebbe accaduto qualora avessero rinunciato ad essere fedeli a se stessi e a combattere.
Da Il Campo dei Santi, una virile esortazione alla lotta e alla vittoria per la sopravvivenza dell’Europa. Consci che nessuno ci verrà in aiuto.