(repubblica.it) – 20.02.2017 – Per la sua prima visita ufficiale in Iraq, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti James Mattis non poteva scegliere momento più delicato. Da ieri è partita la seconda fase dell’operazione militare per la riconquista definitiva di Mosul, ormai ex roccaforte dello Stato Islamico in Iraq, con i jihadisti trincerati nella zona ovest senza possibilità di fuga: i ponti sul fiume Tigri sono caduti e le forze di Bagdad hanno interrotto tutte le vie di comunicazione con la seconda città irachena. Il problema è come stanarli senza mettere a repentaglio la vita dei circa 750mila civili intrappolati tra le linee del fronte. L’assedio è portato dalla polizia federale e dall’esercito regolare iracheno, col sostegno dall’alto dell’aviazione statunitense e sul campo di consulenti e personale americano. Dopo il primo giorno di bombardamenti, il comando congiunto delle operazioni ha confermato le notizie fatte filtrare dal campo di battaglia da reporter embeddati: le forze irachene hanno assunto il controllo della collina che domina l’aeroporto e che costituiva per i jihadisti un’importante barriera difensiva naturale.
Ma la visita di Mattis a Bagdad si inquadra soprattutto da un’altra prospettiva. Il segretario alla Difesa ha tenuto a sottolineare come gli Usa non siano intenzionati a impossessarsi delle riserve petrolifere irachene. Dichiarazione che, come è già accaduto con quelle di altri membri della nuova amministrazione intervenuti su altri scenari – impegno Usa nella Nato, rapporti con la Ue, interferenze russe -, lima precedenti uscite del presidente Donald Trump per arginarne le conseguenze nelle relazioni internazionali. In questo caso, le critiche più volte lanciate da Trump a Obama per non aver preteso il petrolio iracheno prima di procedere nel 2011 al ritiro dei propri soldati dall’Iraq. Per Trump, gli Stati Uniti avrebbero dovuto prendersi quel petrolio a titolo di risarcimento per le spese militari sostenute e per sottrarre allo Stato Islamico una vitale fonte di finanziamento. Argomento sbandierato da Trump in campagna elettorale, ma ribadito ancora da presidente il mese scorso, durante una visita alla Cia chiusa con la frase che ha fatto tremare Bagdad: “Ma potremmo avere una seconda chance”.

Mattis si è presentato personalmente a Bagdad per smontare il castello di sospetti e sfiducia eretto dalle parole del presidente attorno agli interessi celati dietro l’impegno americano in Iraq, con conseguenti pressioni interne sul primo ministro iracheno Haider al-Abadi per la riduzione della cooperazione con Washington. “Noi in America generalmente paghiamo per il gas e per il petrolio – le parole del generale a riposo dei Marines assurto al vertice della Difesa -, sono certo che continueremo a farlo anche in futuro. Non siamo in Iraq per accaparrarci il suo petrolio”.
Le rassicurazioni di Mattis si legano inevitabilmente all’impegno che il segretario alla Difesa ha assunto con Trump il 28 gennaio scorso: presentare entro un mese un piano strategico per la sconfitta dello Stato Islamico in Iraq e Siria. Alla scadenza dei termini manca praticamente una settimana, mentre sul terreno si stringono i tempi per la caduta dell’Isis a Mosul e si prepara l’offensiva per cacciare i jihadisti anche dalla siriana Raqqa. Se, come sembra, il piano americano deve puntare ancora sul sostegno alle forze armate locali, evidentemente non può prescindere dalla rinnovata fiducia degli alleati iracheni.
A Bagdad, Mattis si è consultato il comandante in capo della missione americana in Iraq, generale Stephen Townsend. Tra i possibili scenari anche l’invio di truppe americane non solo in Iraq ma anche Siria, a sostegno dei combattenti curdi, nell’era Obama i più efficaci alleati sul terreno della coalizione guidata dagli Usa. Ma qui l’ostacolo è la volontà della Casa Bianca di ricucire il rapporto anche con la Turchia, Paese membro della Nato entrato in rotta di collisione con Obama sui curdo-siriani, per Ankara “terroristi” come i curdi del Pkk. Turchia che dallo scorso 24 agosto, varando l’operazione militare “Scudo dell’Eufrate”, ha inviato le proprie truppe nel nord della Siria per sostenere l’avanzata dei ribelli dell’Esercito libero siriano (Els) e offuscare il ruolo dei curdo-siriani. E che adesso vuole estrometterli da qualsiasi piano per la riconquista di Raqqa.
Dopo la “cordiale” telefonata intercorsa tra Trump ed Erdogan, la visita del direttore della Cia Mike Pompeo alla base aerea di Incirlik e il faccia a faccia tra il principale consigliere militare del presidente Usa, il generale dei Marines Joseph Dunford, e il capo dell’esercito turco Hulusi Akar, prosegue il pressing di Ankara sulla Casa Bianca. Il primo ministro turco Binali Yildirim ha ribadito: “Esigiamo che i curdi siriani del Pyd-Ypg abbandonino completamente la città di Manbij, in secondo luogo vogliamo la liberazione di Raqqa, ma con gli Usa al nostro fianco, i curdi devono starne fuori”. E su questi punti, ha aggiunto Yildirim, da Washington sono giunti “solo segnali positivi. Un nuova era è iniziata nei rapporti tra Turchia e Usa”.
(repubblica.it) – 20.02.2017 – Per la sua prima visita ufficiale in Iraq, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti James Mattis non poteva scegliere momento più delicato. Da ieri è partita la seconda fase dell’operazione militare per la riconquista definitiva di Mosul, ormai ex roccaforte dello Stato Islamico in Iraq, con i jihadisti trincerati nella zona ovest senza possibilità di fuga: i ponti sul fiume Tigri sono caduti e le forze di Bagdad hanno interrotto tutte le vie di comunicazione con la seconda città irachena. Il problema è come stanarli senza mettere a repentaglio la vita dei circa 750mila civili intrappolati tra le linee del fronte. L’assedio è portato dalla polizia federale e dall’esercito regolare iracheno, col sostegno dall’alto dell’aviazione statunitense e sul campo di consulenti e personale americano. Dopo il primo giorno di bombardamenti, il comando congiunto delle operazioni ha confermato le notizie fatte filtrare dal campo di battaglia da reporter embeddati: le forze irachene hanno assunto il controllo della collina che domina l’aeroporto e che costituiva per i jihadisti un’importante barriera difensiva naturale.
Ma la visita di Mattis a Bagdad si inquadra soprattutto da un’altra prospettiva. Il segretario alla Difesa ha tenuto a sottolineare come gli Usa non siano intenzionati a impossessarsi delle riserve petrolifere irachene. Dichiarazione che, come è già accaduto con quelle di altri membri della nuova amministrazione intervenuti su altri scenari – impegno Usa nella Nato, rapporti con la Ue, interferenze russe -, lima precedenti uscite del presidente Donald Trump per arginarne le conseguenze nelle relazioni internazionali. In questo caso, le critiche più volte lanciate da Trump a Obama per non aver preteso il petrolio iracheno prima di procedere nel 2011 al ritiro dei propri soldati dall’Iraq. Per Trump, gli Stati Uniti avrebbero dovuto prendersi quel petrolio a titolo di risarcimento per le spese militari sostenute e per sottrarre allo Stato Islamico una vitale fonte di finanziamento. Argomento sbandierato da Trump in campagna elettorale, ma ribadito ancora da presidente il mese scorso, durante una visita alla Cia chiusa con la frase che ha fatto tremare Bagdad: “Ma potremmo avere una seconda chance”.
Mattis si è presentato personalmente a Bagdad per smontare il castello di sospetti e sfiducia eretto dalle parole del presidente attorno agli interessi celati dietro l’impegno americano in Iraq, con conseguenti pressioni interne sul primo ministro iracheno Haider al-Abadi per la riduzione della cooperazione con Washington. “Noi in America generalmente paghiamo per il gas e per il petrolio – le parole del generale a riposo dei Marines assurto al vertice della Difesa -, sono certo che continueremo a farlo anche in futuro. Non siamo in Iraq per accaparrarci il suo petrolio”.
Le rassicurazioni di Mattis si legano inevitabilmente all’impegno che il segretario alla Difesa ha assunto con Trump il 28 gennaio scorso: presentare entro un mese un piano strategico per la sconfitta dello Stato Islamico in Iraq e Siria. Alla scadenza dei termini manca praticamente una settimana, mentre sul terreno si stringono i tempi per la caduta dell’Isis a Mosul e si prepara l’offensiva per cacciare i jihadisti anche dalla siriana Raqqa. Se, come sembra, il piano americano deve puntare ancora sul sostegno alle forze armate locali, evidentemente non può prescindere dalla rinnovata fiducia degli alleati iracheni.
A Bagdad, Mattis si è consultato il comandante in capo della missione americana in Iraq, generale Stephen Townsend. Tra i possibili scenari anche l’invio di truppe americane non solo in Iraq ma anche Siria, a sostegno dei combattenti curdi, nell’era Obama i più efficaci alleati sul terreno della coalizione guidata dagli Usa. Ma qui l’ostacolo è la volontà della Casa Bianca di ricucire il rapporto anche con la Turchia, Paese membro della Nato entrato in rotta di collisione con Obama sui curdo-siriani, per Ankara “terroristi” come i curdi del Pkk. Turchia che dallo scorso 24 agosto, varando l’operazione militare “Scudo dell’Eufrate”, ha inviato le proprie truppe nel nord della Siria per sostenere l’avanzata dei ribelli dell’Esercito libero siriano (Els) e offuscare il ruolo dei curdo-siriani. E che adesso vuole estrometterli da qualsiasi piano per la riconquista di Raqqa.
Dopo la “cordiale” telefonata intercorsa tra Trump ed Erdogan, la visita del direttore della Cia Mike Pompeo alla base aerea di Incirlik e il faccia a faccia tra il principale consigliere militare del presidente Usa, il generale dei Marines Joseph Dunford, e il capo dell’esercito turco Hulusi Akar, prosegue il pressing di Ankara sulla Casa Bianca. Il primo ministro turco Binali Yildirim ha ribadito: “Esigiamo che i curdi siriani del Pyd-Ypg abbandonino completamente la città di Manbij, in secondo luogo vogliamo la liberazione di Raqqa, ma con gli Usa al nostro fianco, i curdi devono starne fuori”. E su questi punti, ha aggiunto Yildirim, da Washington sono giunti “solo segnali positivi. Un nuova era è iniziata nei rapporti tra Turchia e Usa”.