Una società al di là di ogni senso

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tasgressione perversione

Oggi, come non mai, viviamo con netta chiarezza i segnali di deriva esistenziale dell’uomo moderno, quasi fossero come quei sassolini che cadono giù dalla montagna prima della grande valanga. Le rappresentazioni giornaliere a cui siamo oramai abituati,  come la volgarità del linguaggio e del sesso, la moda del tatuaggio e del selfie all’ultima moda, il farsi “rappresentare” in ogni luogo e modo per rimarcare egoisticamente il proprio esistere sono tutte manifestazioni moderne, contrarie al senso tradizionale, basate sulle sabbie mobili del’Io. Segnali inequivocabili dello stato di decadenza del mondo contemporaneo.

di Adriano Segatori

(tratto dalla rivista Il Borghese – Maggio 2017) – Quando in anni di burrasca ma di effervescenza intellettuale si ragionava sulla prospettiva del Kali Yuga, splendidamente commentata da Julius Evola, i più aperti ci consideravano dei bizzarri animali mitologici, per i più cattivi eravamo empi maestri e organizzatori di eversione e di contaminazione antidemocratica.

In fondo, su cosa si basava realisticamente questa concezione della realtà?

Sull’esame delle progressive condizioni storiche, politiche, sociali e culturali del momento (per i miei coetanei il momento era cinquant’anni fa) confrontate con la profezia presente nei Veda, una scrittura sacra induista, che prevede questa era oscura caratterizzata dalla materializzazione del mondo, dalla desacralizzazione della vita, dalla prevaricazione del denaro (oro) sulla nobiltà (sangue), dalla degradazione dell’uomo, dalla perversione del significato delle parole, dalla generale depravazione e immoralità.

C’è forse qualcuno che in tutta onestà, intelligenza, capacità critica e rigore morale possa negare questa realtà e questo degrado odierno?

I figli vengono strappati dai genitori perché ritenuti anziani, ma gli stessi giudici sentenziano sull’adozione dei bambini alle coppie omosessuali. Gli insegnanti vengono denunciati dai genitori e i figli ricattano entrambi. I clandestini diventano migranti, chi si difende dalle aggressioni assassino, chi applica la legge persecutore, chi trasgredisce la regola alternativo. Si invocano gli invasori per incentivare la presenza dei bambini, e si compiono sei milioni di aborti per egoismo personale. Si potrebbe continuare nell’elenco dei travisamenti concettuali e linguistici, in una sempre più approfondita e specifica puntualizzazione dell’attuale degenerazione. Tutto ci riconduce sempre all’assenza del limite, alla scomparsa di ogni tabù, alla sovversione di ogni principio, anche quello della semplice regola di natura.

All’inizio del secolo imperversava la nevrosi, simbolicamente rappresentata dalla curiosità attraverso il buco della serratura, dalla caviglia seduttiva delle donne, dal fascinoso baciamano degli uomini. Poi, con il sessantotto, la liberazione sessuale, la fantasia al potere, il vietato vietare si è instaurata la perversione, cioè la pulsione trasgressiva, la volontà ribellistica contro la legge: perché «il perverso ama la Legge», come giustamente sostiene lo psicoanalista Jean-Pierre Lebrun, perché senza una legge da violare non c’è nessuna perversione da sostenere.

Conclusa questa ubriacatura, si è arrivati negli ultimi decenni all’ultimo stadio dell’organizzazione psichica individuale e sociale: la follia. Quando ogni trasgressione è diventata norma, la perversione fornisce e lascia il posto alla disintegrazione psicotica. Siamo immersi, nei fatti, in una condizione alienata, dove non c’è distanza, non c’è tempo, non c’è identità definita, non c’è funzione naturale, non c’è confine tra il dentro e il fuori, non c’è principio al quale riferirsi, non c’è gerarchia dei valori né valore della gerarchia, non c’è competenza che qualifichi né responsabilità che la definisca.

La fluidità regna sovrana e, con essa, l’irrealtà, perché «dove tutto è possibile, allora niente è reale» (Benasayag/Schmit).

L’ultima trovata in ordine cronologico per documentare questa diffusa alienazione è l’inaugurazione dei Adult Ba-by Nurseries, centri che si occupano dell’accudimento per adulti bambini. Luoghi in cui uomini cronologicamente adulti e socialmente inseriti danno sfogo alle proprie regressioni infantili mettendo in atto una rappresentazione di sé neonatale, con tanto di pannolini, biberon, enuresi e premure materne. Insomma, un servizio pediatrico per uomini cresciuti.

A fronte di questa ennesima dimostrazione della fluidità e dell’inconsistenza della nostra realtà post-moderna, di per sé falsamente ritenuta innocente, erompe un’altra realtà, più brutale e concreta, quella della violenza e del sangue. Donne massacrate, branchi giovanili che si accaniscono contro inermi, padri che trucidano i propri bambini e donne che si offrono in parte o in toto per soddisfare pretese eco-nomiche. La parola, primo dispositivo con il quale ha inizio il percorso di soggettivizzazione, ha lasciato il posto al corpo come oggettivizzazione della persona. In altri termini, si parla di meno e si agisce di più, in un pericoloso cortocircuito tra pulsione e azione, dal quale è escluso necessariamente il pensiero. Al progresso tecnologico, che ha raggiunto livelli impensabili non molti anni fa, non soltanto non ha corrisposto un simmetrico progresso spirituale, ma anzi lo ha escluso. La comunicomania di Hillman si è inflazionata fino a non trasmettere nulla, tranne che suoni e segni, ed è stata sostituita dalla grafica primitiva: writers e tatooisti lo dimostrano. Il proprio corpo viene segnato per definire una propria identità non sufficientemente interiorizzata, e anche l’altro è degradato ad oggetto da comperare, da vendere, da incidere e da uccidere.

Sembra paradossale, e naturalmente pericoloso e non condivisibile, ma è rimasta soltanto la criminalità organizzata a mantenere un codice significativo di comportamento, un impianto gerarchico da rispettare e da punire se trasgredito. È il carcere a definire stili, limiti e regole inderogabili. Il resto, il fuori, è una melassa informe defmita da voglie, egoismi e capricciose compulsioni. Per questi motivi si può dire di trovarsi di fronte ad un vuoto radicale e cronico oltre ogni senso.

Non è soltanto una fisima linguistica questa definizione. Se ciò che accade nella cronaca fosse un controsenso rispetto ad un principio significherebbe che c’è un senso ed un principio contro i quali c’è un agire non condiviso. Mentre tutto quello che avviene è oltre ad ogni senso, non essendoci alcuna direttiva né linea guida alla quale riferirsi, e tutto può essere condivisibile, o quanto meno tollerabile.

Dice Lebrun: «La regolazione del nostro rapporto con il mondo e con noi stessi non è sottomessa all’arbitrio, né al capriccio, né al contratto, né alla semplice buona volontà. […] non abbiamo la facoltà di fare qualunque cosa».

Queste parole confermano che stiamo vivendo il Kali Yuga, dove tutto è ritenuto possibile e ogni senso è stato irreversibilmente annullato.