Per la serie “i film (s)consigliati da AzioneTradizionale.com” parliamo oggi di “The Circle“, recente film del genere distopico con Tom Hanks ed Emma Watson. Che senso ha, dunque, leggere questa recensione? Perché con questo film assistiamo a un’inversione logica e di obiettivi del genere distopico, quel filone di pensiero cioè atto a presentare un futuro (futuribile e non fantascientifico) all’opposto dell’utopia e che, da sempre, è servito come strumento di denuncia e suggestione rispetto ai rischi della modernità iper-tecnologizzata ed imbarbarita. Infatti, pregevoli e pieni di spunti sono film e libri su questo genere come “Il mondo nuovo”, “1984”, “Fahrenheit 451”, “Fight Club” o “Blade Runner” (l’elenco è infinito). Dunque, merita attenzione il fatto che, con questo film, il genere distopico divenga “cane da guardia” dell’attuale evoluzione tecnologica e sociale descritta nel film. Vediamo perché…
La trama è abbastanza semplice: una giovane informatica viene assunta presso una potente azienda di telecomunicazioni (The Circle, appunto), che ha le sembianze di Facebook, Google ed Apple messi insieme. In breve tempo, col suo diligente lavoro, arriva sempre più ad identificarsi con l’azienda, sacrificando tutta la sua vita e mettendola perennemente online, trovandosi ad un certo momento a dover prendere atto che il mondo dei social non è tutto rose e fiori, ma che vi sono pesanti implicazioni sociali, affettive e legali (privacy, sorveglianza e della libertà degli individui). In qualche modo la protagonista, entra nel mondo dei social come una spensierata “Dorothy 2.0″ (la bimba protagonista del Mago di Oz) che, bisognosa di riscatto sociale e di un lavoro ben retribuito, vive la follia cosciente di entrare a far parte di un contesto di lavoro giovanile e sempre iper-entusiasta, sempre a cento all’ora, dove non conta lavorare 24 ore al giorno ed il confine fra pubblico e privato non deve esistere più. Tutto diventa condivisione, anche le videotelefonate col padre gravemente malato o la morte in diretta per incidente stradale del suo miglior amico. Tutto.
Ci si potrebbe aspettare, dunque, seguendo le logiche di una trama un po’ già vista che la nostra “Dorothy” (Emma Watson), raggiunta una consapevolezza pagata a caro prezzo, sviluppi la classica evoluzione dell’eroe-protagonista (la giovane informatica) che va redimendosi e opponendosi mediante una ribellione sempre più dichiarata all’antagonista di turno (i social network e sistemi annessi, incarnati da Tom Hanks nel ruolo dello Mark Zuckerberg/Steve Jobs di turno). Invece no, tutto questo non succede perché in questo film i social non sono i nemici, ma semmai degli utili e imprescindibili strumenti il cui uso “sbagliato” può far del male. La logica della condivisione viene esaltata, decantata e idolatrata come se non fosse in grado di condizionare negativamente le vite degli uomini, ma semmai, fosse l’imperfettibilità dell’uomo a poter condizionare negativamente i social.
La retorica, ed il messaggio subdolo, che ne esce fuori è che solo attraverso i social l’uomo può raggiungere questa perfettibilità, perché solo mediante una condivisione totale della propria vita, che azzeri tutto ciò che è segreto e privato (nel film presentato come sinonimo di “bugiardo” e “falso”), si potrà obbligare l’uomo entro le maglie della verità, dell’onestà e della trasparenza. La pervasività della logica della “condivisione” (sharing) non solo non viene contestata, ma anzi, si sottolinea come la perfettibilità dell’uomo passi solo attraverso una sempre maggiore attitudine social, 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno.
Nello sviluppo del film ci si aspetterebbe che, ad un certo punto, queste vite inflazionate dallo sharing si ribellino al sistema per una reazione di autodifesa, cioè che le contraddizioni di un’esistenza senza momenti di solitudine e segreti da custodire vengano a galla. Ed in qualche modo il film è disseminato di apparenti svolte narrative in questa direzione ma, alla fine, la svolta non arriva mai, ed ai tanti bivi narrativi posti ai protagonisti, questi imboccano sempre e comunque la strada che fa prevalere questi tentacolari e ultrapotenti social network sulla vita reale.
Il vincolo (quasi religioso) della trasparenza viene esaltato in senso egualitario ed orizzontale: tutti, ma proprio tutti, devono essere trasparenti al 100% e mettere online tutte le loro vite. Ma, come direbbe Geroge Orwell, qualcuno “è più uguale degli altri” e, infatti, i capi di “The Circle” hanno molti scheletri nell’armadio e non si sottopongono ai medesimi principi di trasparenza. Questo ricorda un po’ le dinamiche interne del Movimento 5 Stelle: il famoso leitmotiv del “1 vale 1” si scontra continuamente con i ruoli di Grillo, Casaleggio e del Direttorio pentastellato, mentre la trasparenza (opaca) del Movimento sembra più un’abile strumento di propaganda che non una consuetudine reale e fattiva.
L’uomo è per sua natura cattivo ed i social buoni: se l’uomo si piega ai social, diventerà buono altrimenti – come illustra il film – l’uomo sarà naturalmente portato a compiere azioni negative: si ruba perché non c’è una telecamera a riprenderci, si mente perché non c’è un microfono ad ascoltarci, si è introspettivi e si cercano momenti di (naturale) solitudine perché non c’è un monitoraggio costante del grado di socialità degli individui, i bambini vengono stuprati dai pedofili perché non c’è un chip che consenta di monitorarli dovunque essi siano, ecc. Sono tutti esempi tratti dalle scene del film.
Non è dunque di un brutto film che si dovrebbe parlare, ma di un “manifesto”. Un “manifesto” che forse non sortirà effetti immediati, né di riprovazione sociale né di esaltazione, visto che il film sta incassando pochissimo. Tuttavia, è un’utile cartina tornasole che, lungi da ogni complottismo, deve far riflettere in merito al fatto che lanciare certi messaggi non è mai casuale. In qualche modo, film come questi preparano il terreno ad innovazioni che sono già nel cassetto dei tecno-illuminati e che attendono solo una base di consenso sociale e legale per essere diffuse. Non crediate, infatti, che se non abbiamo tutti un chip nel cervello o una telecamera invisibile tutto intorno a noi, sia perché il livello tecnologico non lo consente: è semmai la resistenza “socio-culturale” ad impedire che simili aggeggi abbiano già diffusione.
Il vincolo, dunque, non è tecnologico ma sociale. Ed è, dunque, per questo che simili film sono importanti: perché agiscono sull’unico fronte i cui le armi della tecnologia possono fino ad un certo punto se non mixate dalla propaganda e dalla suggestione collettiva.
Sul genere distopico più acuto ed intelligente, atto cioè a suscitare delle reazioni e delle riflessioni ci sentiamo, invece, di consigliare la visione di “Black Mirror”, una serie in tre stagioni realizzata dalla britannica BBC. Vi salutiamo, dunque, con un consiglio ed uno (s)consiglio per la visione… A voi la scelta!