di Paolo G., collaboratore della Redazione di AT
L’insegnamento di Rutilio – Adempiere i propri doveri, anziché rivendicare diritti.
Prosegue Rutilio: “Voglio (…) aggiungervi un paio di consigli, che ritengo possano essere utili per la vostra continuazione della lotta.
Il primo è di adottare un ordinamento (e una formazione) fondato sui doveri e non sui diritti.
Sul piano meramente logico, sembrerebbe la stessa cosa. Se Tizio ha un diritto, ci dev’essere un Caio che ha il corrispondente dovere verso di lui. Se quindi io dico: “Tizio ha diritto di avere X da Caio”, è sinonimo del dire “Caio ha il dovere di dare X a Tizio”. Che differenza c’è?
C’è, la differenza. E sta nel fatto che, mentre il proprio dovere si può fare, il proprio diritto si può soltanto reclamare. Ne consegue che, se tutti fanno il loro dovere, e tale è la maggior cura dello Stato, automaticamente anche tutti i diritti vengono soddisfatti, mentre, se si proclamano diritti a piene mani, e tutti li reclamano, si fanno solo cortei con cartelli e una gran confusione e intralcio al traffico (protetto da stuoli di vigili urbani), ma il popolo resta a bocca asciutta, eccettuati i sindacalisti”.
Un semplice, ma fondamentale concetto: se tutti adempiono i propri obblighi ed i propri doveri, di qualunque tipologia siano (giuridici, morali, sociali, ecc.) in silenzio e con un’azione impersonale, precisa, chirurgica, efficace, ogni aspetto ed ogni dominio della comunità trova un proprio ordine, un proprio equilibrio, in un contesto organico e gerarchico, dove ognuno, conformemente alla propria natura, compie ciò che dev’essere fatto, ad ogni livello. E tutti i diritti, leciti, giusti (iustum, “secondo ius”, secondo diritto, cioè conformemente alla legge umana come derivata, in origine, dall’impronta divina del fas), trovano soddisfazione, senza inutili sbandieramenti né scomposte grida, senza disordini né egoismi.
Se invece tutti si limitano a rivendicare diritti e pseudo-diritti, com’è tipico delle odierne società, e tra l’altro a prescindere dalla liceità e dal grado di effettiva “giustizia” degli stessi (si pensi alle odierne “rivendicazioni” in salsa gender, LGBT, omosessualistiche, ecc.), non ci può essere che confusione e caos, disordine ed individualismi, sterili lotte di classe o di categoria che dividono e frammentano, fino alla sovversione vera e propria, quando si pretende che lo Stato conceda ciò che è “contra ius”. Si pretende, si alza la voce, ma nessuno è realmente pronto a sacrificare sé stesso per qualcosa di più grande del proprio gretto, misero orizzonte egoistico.
E ricordiamo sempre che tale adempimento dei propri obblighi, per essere il più efficace possibile, necessita di un’azione come si diceva impersonale: è la legge del wei wu wei”, dell’“agire senza agire”, concetto cardine della tradizione taoista e, più in generale di tutte le civiltà facenti capo al mondo della Tradizione: l’azione impersonale per antonomasia, l’agire senza desiderio, senza una spinta proveniente da moti individualistici o passionali in senso stretto: fare ciò che deve esser fatto, eseguire il proprio dovere senza guardare egoisticamente al proprio tornaconto, sganciando quindi l’azione dai frutti soggettivi o dai voleri personali legati alla medesima. Agire semplicemente perché è “giusto” (secondo quanto si diceva), facendo dono di sé in modo oggettivo. Rutilio scriveva infatti, come già osservato nel punto 1), che “l’eroe è quindi portato a fare il proprio dovere, senza bisogno di alcuna costrizione”. Celeberrima è la massima con cui Julius Evola sintetizzò questa tipologia di agire: “agire senza guardare ai frutti, senza che sia determinante la prospettiva del successo o dell’insuccesso, della vittoria o della sconfitta, del guadagno o della perdita, e nemmeno quella del piacere e del dolore, dell’approvazione e della disapprovazione altrui”.