(a cura della Redazione di AT)
Spesso in molti ambienti neo-spiritualisti si sente dire, in maniera molto polemica, che l’inginocchiarsi di fronte a Dio è una pratica tipicamente “semitica” e che al contrario si dovrebbe affermare un rapporto alla pari con (chissà quale) Dio, con gli Dei, con la Madre Terra, Madre Natura, ecc….
D’altra parte non è un caso neppure che la stessa pratica della genuflessione sia sempre meno “in voga” negli stessi ambienti cattolici – in particolare dal Concilio Vaticano II, prima del quale la Messa era scandita da continue genuflessioni -, pur essendo proprio questa religione, assieme all’Islam, quella verso la quale sono spesso malcelati gli attacchi quando si parla di genuflessione o comunque di gesti rituali che esprimono abbandono e sottomissione a Dio.
Lungi da “chierichettismi” di sorta, il metodo tradizionale ci insegna che il confronto, anche tra diverse forme tradizionali, purché legittime, è sempre costruttivo, soprattutto perché permette di intravedere i Princìpi comuni oltre le differenti forme. A litigare, si sa, si fa sempre il gioco dell’Avversario, soprattutto se il litigio è, come spesso accade in questo campo, mosso da vana volontà polemica. In tutte le tradizioni legittime (romana, greca, bramanica, cristiana, islamica, ecc.) la genuflessione e la prostrazione hanno sempre avuto un altissimo valore simbolico, anche se spesso non direttamente compreso, come in fondo è nella natura stessa del simbolo. Genuflettersi, prostrarsi, di fronte a Dio, non è banale servilismo, ma cosciente sottomissione, atto di umiltà necessario affinché possa farsi un lavoro su se stessi, affinché possa crearsi un’apertura verso l’Alto: come si può sconfiggere la propria finitezza se prima non la si riconosce?
Come atto esteriore la genuflessione (in particolare se di fronte ad un’immagine divina o a un simbolo sacro) riflette un atteggiamento interno di sottomissione del proprio Io al Sé, allo Spirito, ed anche quando non viene compiuto con questo tipo di consapevolezza, il genuflettersi in un determinato momento del rito permette di parteciparvi e quindi, in fondo, interiormente produce più o meno gli stessi effetti, o comunque instrada verso la stessa direzione. È forse proprio per il carattere estremamente non-duale che questo gesto possiede, che non viene capito.
Disprezzarla vuol dire avere invece una visione estremamente duale: è concepire un Dio o tanti déi esclusivamente fuori da sé, a cui consegue – tra l’altro – la presunzione di non piegarsi alla Sua, alla loro, Maestà e Volontà. È quindi l’incomprensione del fatto che la Realizzazione avviene solo ed esclusivamente in noi, nel nostro cuore, ma soprattutto che per conseguirla è necessario, come prima cosa, annullare il proprio arbitrio, annichilire l’ego: svuotare il cuore.
L’umiltà, la semplicità, è la condizione necessaria per incamminarsi su questa strada, senza tale qualità non è possibile andare da nessuna parte, se l’Io non si sottomette non conoscerà mai il Sé, non si riempirà mai di Lui. È Dio che deve interamente sostituirsi ad “Io” e questo ne è il presupposto.
Seppur non venga più compresa, se la forma non fosse messa in discussione, ma fosse ciecamente seguita, per lo meno condurrebbe lungo una strada che potrà poi portare, pian piano, ad aprire progressivamente gli occhi, quelli del Cuore.
Rifiutare la sottomissione è l’inganno luciferino per eccellenza, d’altronde non è un caso che i Padri del deserto raffiguravano il diavolo come un essere privo delle ginocchia.