“Il Signore terribile” – recensione

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Il Signore terribile. Vita del barone von Ungern-Sternberg

Mehmet Frugis

Edizioni di Ar, 2016

Pagine 106


(recensione a cura della Redazione di AT)

È singolare come certe personalità e determinati eventi, seppur quasi ininfluenti da un punto di vista storico, abbiano in sé la forza e l’ardore per stravolgere potenzialmente un’epoca, per segnare irrimediabilmente i cuori di coloro che, nell’avvenire, si sarebbero riferiti ad uno stesso e comune universo di simboli. Personalità che, incendiate da un incredibile ardore metafisico, irrompono irrimediabilmente nel panorama delle idee. Così Spengler ci dice che in certi istanti straordinari della storia vi irrompe, in forme prima non sperimentate, la possibilità dell’impossibile.

È il mito che s’incarna.

Layout 1Oggi parliamo del Barone Nikolaj Roman von Ungern-Sternberg, ce lo racconta Mehmet Frugis ne Il Signore terribile. Vita del barone von Ungern Sternberg.

L’affascinante alone che si è costituito nei decenni attorno alla sua figura gli ha regalato le più disparate identità, i più diversi epiteti: ‘Il Barone pazzo’, ‘Il Barone sanguinario’, agente segreto al servizio del Giappone, ‘Il piccolo Padre severo’, ‘Il Nonno severo’, l’incarnazione di Mahakala – la distruttiva divinità protettrice del Dharma – come fu riconosciuto dalle gerarchie lamaiste mongole.

Proprio per questo la produzione letteraria sul Barone, seppur rimasta di nicchia – poiché di nicchia è d’altronde il personaggio, profondamente incompatibile con ogni forma di democrazia -, conosce al suo interno una discreta varietà, il cui ampio spettro è anche l’espressione dei personaggi che l’hanno raccontato: una figura così eroica, fatta di luci ed ombre, controversa ed allo stesso momento esplicita, distruttiva e costruttiva, di un guerriero pio e spietato, non può lasciare indifferente chi la incontra. Non stiamo parlando di qualche ‘personaggio’ sciapo e grigio delle democrazie, non stiamo parlando di qualche banchiere, viscido, non è un burocrate o un ministro donna – ci rifiutiamo di scrivere ‘ministra’ – della Repubblica Italiana o di qualche paese nord-europeo evoluto e progressista. Stiamo parlando di un asceta brutale, in cui la violenza tellurica si unisce agli elevati picchi che la sua anima riusciva a sfiorare con l’ascesi e la meditazione.

Forse per questo egli era insensibile e glaciale. Come un’aurora boreale.

Di lui hanno parlato tutti: militanti comunisti, di quelli che il Barone stesso non avrebbe risparmiato, come Vladimir Pozner, nel suo Il Barone Sanguinario (titolo originario Le Mors aux dents), o ancora personalità come Jean Mabire nel suo Il dio della guerra (ed. di Ar), già autore di titoli come La division Charlemagne o SS en France o ancora Mourir a Berlin e La panzer division SS Viking, per intenderci. Ma anche Evola e Guénon gli hanno dedicato degli articoli (oggi raccolti in Contributi per il Fronte della Tradizione, Fascicolo n° 39 – Ungern Kahn. Storia e mito del Barone Von Ungern Sternberg).

Ungern-khan-barone-sanguinarioProprio per questo il motivo per cui non si può non apprezzare l’opera di Mehmet Frugis: un libro agile, che si divora, in cui è continua la ricerca dell’oggettività, della figura storica del barone von Ungern. Con continui riferimenti alle fonti a lui contemporanee e tramite le testimonianze di chi lo ha conosciuto, l’Autore ne scatta una fotografia fedele: tutti gli aspetti con cui questa personalità enigmatica fu identificato, taluni messi in risalto da un autore, talaltri da un altro, convivono nel Barone di Frugis, rendendo la sua figura ancor più enigmatica. Ancor più affascinante. Estremamente ospitale con i visitatori, si ispirava alle terrificanti scene dell’inferno buddhista per escogitare le più singolari torture per nemici, disertori o indisciplinati. Il suo focoso carattere giovanile, che gli costò il servizio nel centro Asia, ai margini dell’Impero dello Zar, venne sublimato nella rigida ascesi di stampo buddhista, che lo rese ancor più glaciale: «Era inesorabile come un asceta», così ce ne parla il maggiore Alexandrowicz, che lo conobbe molto bene personalmente.

Tanto conservatore, strenuamente fedele allo Zar, quanto rivoluzionario, sognante un grande Impero nel centro dell’Asia da cui sarebbe partito l’attacco finale alle depravazioni rosse, era febbrilmente convinto della necessità di redenzione di questo mondo, «la dinamica teologica dell’impero russo doveva essere espansiva e universalistica, capace di comprendere nel suo nocciolo tutti i semi, da quello musulmano a quello buddhista fino a quello russo-ortodosso». Uccidere un comunista per lui non era peccato, ma era in sé un’espiazione: in ogni comunista, per lui, albergava un demone che attentava all’ordine cosmico; «il barone giunse a sostenere che i rivoluzionari erano veri e propri demòni, “entità diaboliche in forma umana che distruggono i re, mettono i fratelli l’uno contro l’altro, il figlio contro il padre, e sono portatori di tutte le sciagure della vita”».

«Alle reclute del nuovo esercito… venivano poste solo tre, basilari domande: “Credi in Dio? Ti rifiuti di riconoscere i bolscevichi? Ti batterai contro di loro?».

Ungern_figuAllo stesso modo detestava la molle voluttà di alcune delle figure di spicco della controrivoluzione, con cui la collaborazione politico-militare non poteva avere vita facile. Ai festini dell’Atamano Semenov preferiva di gran lunga lo schietto sudiciume delle sue truppe mongole, buriate e tibetane. Non il lusso del primo, ma il pasto comunitario, sul pavimento, con i secondi. Le meditazioni di fronte alla statua del Buddha.

Evidentemente, delineare storicamente il barone Roman Feodorovich von Ungern Sternberg risulta ancor più avvincente che farne un ritratto romanzato: bruciato da grandi passioni agiva al di là del bene e del male. Su certe figure il giudizio storico è sospeso, si prendono per quello che sono.

Chissà cosa fu a muoverlo nella sua ultima spedizione in cui tentò di raggiungere il Tibet, il 14 agosto 1921, seguito da cinquecento uomini che «avrebbero dovuto attraversare il deserto del Gobi senza cibo né acqua, percorrendo una regione ormai occupata dai rossi, e infine superare le montagne del Tibet durante l’inverno»…

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