(www.rigenerazionevola.it) – 13/07/2017 – Per preparare il viaggio sulle montagne di Evola 2017 siamo stati sul Monte Velino. Saliti per la “via del canalino”, in discesa abbiamo traversato per il Monte Cafornia e gli omonomi pratoni, fino a tornare a Fonte Canala ed al paese di Massa d’Albe. Un giro di 16 km, per circa 1500 metri di dislivello e complessive 6 ore e mezza di cammino. Insomma, un buon allenamento, in vista delle più impegnative vette alpine. Ma il punto non è questo: la gita, bella e solitaria come spesso accade della “nostre parti”, è stata accompagnata per tutto il tempo da un vento talmente forte che, a tratti, le raffiche ci hanno letteralmente fatto spostare. Tornati a valle, un po’ “storditi”, ci abbiamo sorriso su, senza dargli troppa importanza….
E’ giovedì 6 luglio, siamo in viaggio direzione Valle d’Aosta, quando ci fermiamo in territorio piemontese per la nostra sosta arrampicatoria. Siamo dalle parti di Quincinetto, nella falesia di Montestrutto che, oltre alle innumerevoli vie di arrampicata sportiva, è attrezzata con bar, tavolini, campo di volley, parco avventura, il tutto molto curato ed impreziosito da un praticello che arriva fin sotto le pareti. E’ il regno dello gneiss, ovvero dell’arrampicata in aderenza, del buon uso dei piedi, degli scarsi appigli per le mani…. e delle consequenziali imprecazioni. Insomma, qui la roccia non fa sconti: o vai su di tecnica o resti “inchiodato”. Per fortuna i locals ci confermano come i gradi da queste parti siano abbastanza strettini e così, rincuorati, per un paio di ore, e sotto un sole generoso, diamo sfogo alla nostra voglia di arrampicare.
Terminata la nostra visita al “parco giochi” di Montestrutto, meritevole di una visita e sicuramente di un ritorno, abbiamo ancora un’ora di strada verso Staffal, nell’alta valle del Lys, dopo Gressoney-la Trinitè. Alloggiamo qui per questa notte, in uno chalet dove le camere sono dedicate alle più belle ed importanti vette del Monte Rosa: il caso non esiste ed anche stavolta ne riceviamo la conferma…
E’ venerdì, sveglia tranquilla, non c’è fretta: si fa colazione ed un po’ di spesa per l’imminente salita giornaliera e via a prendere la funivia direzione Punta Indren. Dai 1700 metri circa di altitudine della partenza, in tre tronconi di funivia, si arriva a 3200 metri: purtroppo non è il massimo per l’acclimatamento, ma il tempo a disposizione non è molto e la meteo tiene bello fino a sabato. In poche parole, per effettuare l’ascesa sui quattromila abbiamo una finestra stretta. Da Indren saliamo senza ramponi lungo l’omonimo ghiacciaio, sempre più “asciutto” a causa del riscaldamento, verso il grande salto roccioso e, attraverso qualche divertente passaggio attrezzato, arriviamo sul soprastante ghiacciaio del Garstelet. Siamo a meno di 200 metri dal rifugio Capanna Gnifetti, la nostra dimora sul Monte Rosa. In meno di venti minuti, sotto un sole che picchia forte, un largo traverso ci conduce sulla panoramica terrazza del rifugio, vero nido d’aquila a 3650 metri. Sono le 12 e la nostra giornata da qui in poi sarà di acclimatamento e riposo.
Tra una lettura e qualche chiacchiera, il pomeriggio trascorre tranquillo, mentre osserviamo cordate che vanno e vengono e, soprattutto, avventori che salgono in direzione del rifugio: la sera, la sala da pranzo sarà stracolma di alpinisti di tutte le nazionalità. Si ha l’impressione che il rumore, le voci, le risate, le luci ed i movimenti del rifugio affollato stonino con il silenzio del ghiacciaio illuminato dalla luna piena, severo, freddo, inospitale e, nel contempo, affascinante e dalla potente carica attrattiva. Esci fuori a fumare una sigaretta e, nell’oscurità, vedi crepacci bianchi e grigi, rocce nere, vette proiettate nel cielo, ed ancora le luci lontane delle valli, quelle luci che riempiono il venerdì sera dei ristoranti e delle birrerie, luci che conosciamo bene perché fino alla sera prima ci hanno accompagnato. Oggi siamo qui, ad oltre 3600 metri e mentre guardiamo lontano non pensiamo a nulla o forse pensiamo troppo alla salita dell’indomani… di fatto ci godiamo l’inquietante e spettacolare paesaggio che ci circonda.
Sono le tre e mezza di sabato e dopo la solita notte di sofferenza, fatta di poco e disturbato sonno, suona la sveglia. D’ora in poi tutto deve essere preciso e puntuale, non c’è spazio per l’improvvisazione e la deconcentrazione. La colazione è veloce, un po’ meno la preparazione: il materiale alpinistico, le piccozze, i ramponi, il pile, il guscio, il cappello, il casco, i guanti ed i sottoguanti, ecc., compongono quel “rituale della vestizione” che non va trascurato perché ogni cosa, anche all’interno dello zaino, deve stare essenzialmente al suo posto, collocata in ordine di utilità. Sono le cinque di mattina di sabato e con le frontali accese, la nostra cordata si muove sul ghiacciaio. Nel corso della notte il vento è aumentato, fino ad ululare tra i seracchi e le crepacciate terminali. Già, i crepacci, la zona dietro la Capanna è pericolosa e quest’anno la poca neve caduta non aiuta: dopo neanche cinque minuti, ci ritroviamo quasi dentro un buco, invisibile ed inaspettato, che fa subito capire come ci sia poco da scherzare.
Saliamo di buon passo, nonostante il vento da nord non conceda tregua. Superiamo la prima rampa, siamo quasi a 4000 metri, una pausa, aggiriamo altri crepacci, passiamo accanto ai seracchi della Piramide Vincent. Ancora una rampa ripida ed alla destra spunta il Balmenhorn col Cristo delle Vette, poi il Corno Nero ed ancora più avanti la Ludwigshöhe. Alla sinistra la sinuosa e spettacolare cresta del Lyskamm orientale, la famigerata e sinistra “mangiauomini”, una lama aerea ed esposta che si staglia verso il cielo, separando la parete sud dalla parete nord. Quest’ultima, vertiginosa ed impressionante, fu scalata da Julius Evola e dalla guida di Gressoney Eugenio David nel lontano 1930, in quella che fu la quarta ripetizione in assoluto. Una grande prova di coraggio per l’alpinismo dell’epoca, a dimostrazione di come la visione del mondo tradizionale, propugnata ed approfondita da Evola nella sua versione guerriera ed eroica, possa trovare nell’alpinismo un efficace campo di applicazione: quel coraggio che, lontano da derive titaniche, trova forza nella paura, stabilità nella concentrazione, lucidità nella consapevolezza, sicurezza nella preparazione e nella conoscenza, vittoria nella sconfitta. Sempre che sia giusto distinguere vittoria e sconfitta di fronte ad esperienze di questo tipo, dove la prerogativa è il mettersi in gioco assumendosi determinati rischi e, conseguentemente, ogni situazione è sempre e comunque una vittoria in una prospettiva di crescita interiore.
Siamo al colle del Lys, a 4250 metri, facciamo una pausa sotto un sole tanto atteso ma che non scalda granché. Tante cordate proseguono in direzione Capanna Margherita, il rifugio più alto d’Europa adagiato su Punta Gnifetti, vetta che abbiamo già scalato come Geo nel 2007. Davanti a noi le montagne “fumano”, le nuvole corrono veloci lungo le creste, dove il forte vento crea piccole tormente di neve. Pieghiamo verso destra, in direzione Colle delle Piode, verso l’evidente affioramento roccioso della Punta Parrot, a 4340 metri. Già, la Parrot, la montagna che porta il nome della stanza di ieri sera….
Siamo all’attacco del ripido pendio, una quindicina di metri a circa 45° gradi di pendenza dove normalmente passa la traccia di salita. Quest’anno non va così, la traccia non sale su dritta, ma taglia verso sinistra, in direzione delle rocce. Con passo sicuro, intervallato da brevi pause, affrontiamo il breve traverso caratterizzato da un po’ di ghiaccio vivo, dove il rampone comunque tiene bene. La lunghezza di corda l’abbiamo accorciata al Colle del Lys: non più otto metri di distanza l’uno dall’altro ed un paio di nodi “a palla”, ma una lunghezza corta, un paio di metri, procedendo di conserva. Affrontiamo il breve e facile tratto di misto, avendo cura di verificare la tenuta degli appigli e la precisazione del rampone, e siamo in cresta. Il vento è costante, intorno ai 50/60 km orari, davanti a noi la linea affilata ed esposta della cresta ovest della Parrot. Lasciamo scendere un paio di cordate, lì dove lo spazio consente il passaggio incrociato tra chi sale e chi scende, ed eccoci soli: noi, il vento, la cresta. Procediamo a passi brevi e costanti, ogni tanto ci fermiamo, passiamo da un versante all’altro lunga la traccia ben definita ma che, in alcuni punti, non supera i trenta centimetri di larghezza. Un errore sarebbe fatale e bisogna starci con la testa, perché intorno a noi c’è solo vuoto, aria, infinito, assoluto. La cresta, dopo un primo tratto in decisa salita, si addolcisce nella pendenza, pur rimanendo sempre aerea e sospesa sulle nuvole.
Ci siamo, sono le 8.15 di sabato 8 luglio ed i 4.432 della vetta si intravedono: l’abbraccio, la stretta di mano, il sorriso provato dal vento, la faccia al sole, sono compresenti in questo momento di soddisfazione. L’obiettivo di scalare la Punta Parrot in onore di Julius Evola, dopo che lo scorso anno salimmo il Castore, è stato raggiunto. Una salita poco più difficile tecnicamente (valutata PD+), ma con dei rischi oggettivi maggiori, dato il passaggio di misto e la discreta lunghezza di una cresta elegante, affilata ed esposta. Ed il vento, costante compagno di ascesa. Tempo di qualche foto e di tirar fuori lo stendardo col quale celebriamo l’ascesa, che una raffica se lo porta via… vola il drappo rosso tra le nuvole, nel cielo, verso il sole. Probabilmente finirà in qualche crepaccio, meglio così.
Si prosegue, dobbiamo completare la traversata della Parrot scendendo in direzione est, lungo la seconda parte della cresta più semplice e larga della precedente. Arrivati a Colle Sesia, traversiamo verso sinistra, e senza perdere troppa quota, recuperiamo la traccia che sale in direzione Capanna Margherita, superando enormi seracchi. C’è traffico in direzione Punta Gnifetti, molto meno verso la speculare Punta Zumstein; la fatica si sente, il dislivello di oltre 1100 metri a questa quota non è quello abituale degli Appennini. Saliamo verso la Zumstein ed a circa trenta metri dalla vetta, a 4.530 metri, ci fermiamo: basta così, la stanchezza comincia a far venire meno la lucidità, il passo si fa più incerto, i rischi si moltiplicano. E’ vero, la vetta è lì, a due passi e meno di 10 minuti di salita, ma non importa, non siamo qui per cumulare cime o per dimostrare a noi stessi di essere forti. Siamo qui perché vogliamo vivere un’esperienza di crescita e formazione spirituale, nel dono dell’ascesa in onore di Evola e nella fatica, nella tensione e nel piacere di chi si mette alla prova. Oggi ci siamo messi in gioco abbastanza, siamo soddisfatti, ma non è ancora finita, manca la discesa che richiede anch’essa attenzione visto l’orario ed il pericolo crepacci.
In circa due ore e mezza riscendiamo al rifugio Mantova, a 3.400 metri, duecento sotto la Capanna Gnifetti. Il tempo comincia ad annuvolarsi, domenica danno temporali e precipitazioni intense, i nostri calcoli per fortuna sono stati azzeccati. Trovarsi in condizioni di maltempo a queste quote è molto pericoloso… in giornata apprenderemo di un alpinista disperso sul Breithorn, poco lontano da dove siamo. Sono le 13 e ci leviamo tutta l’attrezzatura alpinistica, rifacciamo la corda, agganciamo le picche allo zaino; con le facce rosse di fatica, di sole e di vento, sorseggiamo la birra, quella birra che anche stavolta, come lo scorso anno al rifugio Quintino Sella, è in onore di Julius Evola. In meno di quaranta minuti ritorniamo a Punta Indren per riprendere la funivia che ci riporterà a Staffal.
Siamo in valle, pronti al meritato riposo. Siamo in valle, con la certezza che lo spirito delle alte vette ce lo portiamo nel cuore, insegnamento per affrontare la vita, le sue prove, le sue difficoltà. Siamo in valle, ma in realtà non siamo mai scesi da lassù.
Anche quest’anno è andata. E’ stato fatto quel che doveva essere fatto.
In alto i cuori Geo, in alto i cuori Rigenerazione Evola!