Morte ai centri commerciali?

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The_Village,_Dubai_Mall
Prima ci hanno tolto dalle strade e dai corsi delle città, luoghi di ritrovo, per un caffè in piazza. Ci hanno tolto dalla socialità. E ci hanno rinchiuso nei centri commerciali: aria condizionata, luce artificiale, musica a palla e profumi standardizzati.
Ora ci tolgono anche i centri commerciali, perché costano troppo: meglio l’isolamento della stanzetta, con la connessione internet e il pacco di vestiti che ti arriva a casa.
Con le drammatiche ricadute a livello sociale (un mondo di individui sconosciuti) ed economiche (i posti di lavoro verranno soppressi). E ringraziamo ancora una volta gli americani, eh.

(www.it.businessinsider.com) – 25.06.2017 – Parafrasando una celebre frase di Woody Allen si può tranquillamente affermare che, oggi, «American Apparel è morto, Abercrombie & Fitch sta morendo e il retail in generale non si sente troppo bene»… e probabilmente pure “troppo bene”, in questo caso, è un mero eufemismo.

Negli Stati Uniti l’hanno definita una vera e propria Retail Apocalypse, e riflette lo stato di (assai poca) grazia in cui il settore si trova: negozi fisici, grandi o piccoli che siano, presenti o meno nei centri commerciali, stanno chiudendo senza soluzione di continuità. Tutte le grandi catene a stelle e strisce sono impegnate nel rivedere le loro strategie di azione, confrontandosi con la spietata concorrenza del commercio online e con nuovi consumatori – i Millennials – sempre meno presenti nei grandi malls e sempre più avvezzi a comprare in rete.

La slippery slope in cui sono incappati i brand sopracitati è destinata a non fermarsi, e si prevede che nei prossimi mesi almeno altri 3.500 store cesseranno la loro attività: tra le vittime, Bebe, specializzata in abbigliamento femminile, che rinuncerà ai suoi 170 punti vendita per passare direttamente all’online e J. C. Penney, popolare catena di grandi magazzini che sta già chiudendo i negozi ritenuti più costosi da mantenere e situati in posizioni sfavorevoli (circa il 14% del totale).

 

L’epidemia pare non risparmiare nessuno, partendo dalla storica catena di grande distribuzione Sears, che ha messo la parola fine a 150 negozi nella prima metà del 2017 – inclusi i 108 store in partnership con Kmart – e arrivando fino a Macy’s, almeno fino a inizio millennio sinonimo di shopping medio-alto e ora invece travolta da un significativo processo di ristrutturazione che porterà alla chiusura di 100 location (pari al 15% del totale), nonostante gli analisti siano convinti che, nel tentativo di dare nuova linfa a un business ormai in stato comatoso, si renderanno necessari ulteriori tagli.

Addio centri commerciali

Storie (e marchi) diversi, con un unico comun denominatore: la reticenza del pubblico a recarsi nei giganteschi agglomerati commerciali dove fino a pochi anni fa venivano principalmente effettuati gli acquisti.

Dal 2010 al 2013 l’afflusso è diminuito del 50%, e anche un’azienda come Gamestop, che ha sempre potuto contare su una clientela assai fidelizzata, ora si vede costretta a correre ai ripari e a rinunciare ad almeno 150 negozi, a causa delle preferenze dei consumatori che ora si orientano maggiormente sugli store online e sul supporto digitale.

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A non passarsela bene, però, sono anche brand medio-alti come J. Crew e catene pop come Gap o Banana Republic: nonostante gli sforzi intrapresi per uscire dalla pesante crisi che li ha investiti, nessuno di loro riesce a riemergere da trimestri che registrano dati sempre più negativi, a causa di una convergenza di fattori: la diminuzione del traffico nei malls, la minaccia di Amazon, le lunghe catene di fornitura e gli acquirenti sempre più consapevoli (e dunque esigenti) di un rapporto qualità-prezzo che – spesso – non va a loro vantaggio.

Sicuramente il modello Amazon, imponendosi in tutto il mondo, ha portato numerosi venditori a cambiare strategia per non annaspare nel nuovo mercato che è andato delineandosi, un mercato ove ogni azienda che si rispetti deve possedere un online store funzionante e ben fornito, all’interno del quale le esperienze del pre e post vendita vanno curate e seguite in egual misura, pena una consistente perdita a livello di volumi di vendite.

Ma, per quanto riguarda quei marchi che possono essere definiti “medi”, dove quindi l’equazione tra una buona fattura, uno stile riconoscibile e prezzi non spropositati è in perfetto equilibrio, c’è dell’altro.

«La risposta risiede in un punto critico, cioè che i consumatori sono alla ricerca di un loro stile personale», afferma Richard Passikoff, fondatore dell’istituto di ricerche di marketing Brand Keys: ciò che manca, secondo Passikoff, è un chiaro manifesto di quello che questi brand rappresentano, un design distintivo che li faccia fuoriuscire dal tunnel dell’assortimento indistinto e non impegnativo, che risulta quasi senz’anima. Parallelamente, essi non riuscivano a evolversi almeno quanto il loro consumatore ormai espertissimo di social media, e hanno commesso il peccato oggi mortale di “guidarlo” nelle sue scelte stilistiche, quando invece lui non voleva alcuna guida, trovandosi poi alla fine in una specie di vicolo cieco.

Senza contare che gli acquirenti adesso spendono meno sull’abbigliamento in generale, soprattutto i più giovani, preferendo investire nell’elettronica e nelle esperienze: secondo i dati del 2015 pubblicati dal Commerce Department americano, la quota della spesa totale consumata destinata all’apparel ha raggiunto livelli storicamente bassi, con i prezzi dei suddetti marchi “medi” in netta controtendenza rispetto a tale flessione.

Il successo di brand come COS e & Other Stories dimostra che la fascia media in realtà esiste ed è in buona salute; a essere cambiato è il consumatore che li acquista, i suoi gusti, le sue abitudini e le sue esigenze.

Come sottolineato da John Thorbeck del fondo di investimento Change Capital LLC, ai vari J Crew, Banana Republic, Gap etc. manca un driver fondamentale per sopravvivere nel moderno universo retail: una cultura di merchandising basata sulla velocità e sulla flessibilità di progettazione. Al fine di ridurre al minimo le perdite dovute alle riduzioni di prezzo sui prodotti invenduti e all’esaurimento dei classici “pezzi forti” delle collezioni, i retailer hanno quindi bisogno di risanare il loro approccio al rischio attraverso catene di fornitura rapide e flessibili. In un’analisi effettuata insieme al professore Warren H. Hausman della Stanford University, Thorbeck dimostra come esista uno “Zara Gap” che permette ai retailer di aumentare i profitti del 28% e la capitalizzazione di mercato del 43% se riducono i tempi di consegna e riescono ad appropriarsi della cosiddetta tecnica del postponement, ossia del trasformare un prodotto (qui un abito) nella sua forma definitiva all’ultimo momento possibile, per rispondere rapidamente alla mutevole domanda dei consumatori. Nessuno dei marchi attualmente difficoltà ha abbracciato la strategia, lasciando così a Zara e a pochi altri la possibilità di ottenere prodotti nuovi nei negozi in meno di un mese, contro i circa dieci mesi di norma per i rivenditori specializzati americani.

Disseminare il rischio

Una piena vittoria del fast fashion? No, secondo Thorbeck, contrario anche all’utilizzo di questo termine: il focus si deve spostare dalla velocità della moda a ciò che lui definisce una “disseminazione del rischio“: «La vera essenza del fast fashion risiede nella possibilità di consegnare il prodotto-moda più spesso, con un rischio più basso», e necessita di un cambiamento di fondo nella cultura aziendale, per poter competere con i retailer internazionali di abbigliamento.

Tutto sacrosanto, sia chiaro, ma è altrettanto vero che mai come oggi i consumatori sono imprevedibili, esigenti, quasi schizofrenici, alla ricerca di un compromesso sempre più difficile da trovare: da un lato i loro brand preferiti devono dimostrare una certa etica nella produzione, dall’altro la varietà di scelta deve essere pressoché infinita, unitamente alla sicurezza di ottenere anche prezzi competitivi, online store in grado di assicurare un’esperienza di acquisto gratificante sotto ogni aspetto, velocità di consegna ed efficienza nella gestione di eventuali problematiche nel pre e post vendita.

A complicare le cose ci pensa poi anche Amazon, che conta da solo per più della metà della crescita del retail online, secondo la società di ricerche di mercato Slice Intelligence: permettendo ai clienti di cercare nel suo sterminato catalogo virtuale composto da un’enorme vastità di brand, svaluta il branding stesso, livellando la specificità di ogni marchio e rendendo impossibile quella fidelizzazione che fino a poco tempo fa era ritenuta fondamentale. E dato che i guai non arrivano mai da soli, con l’introduzione di Prime, è stato imposto un benchmark pressoché irreplicabile per chiunque non sia Amazon.

In Italia sono i piccoli negozi a chiudere

Se intanto negli Stati Uniti gli analisti di Credit Suisse prevedono che circa il 25% dei centri commerciali – un numero compreso tra i 220 e i 275 malls – chiuderà nei prossimi cinque anni, è già nato un sito, Dead Malls, che ha una classifica aggiornata di tutti i centri commerciali “deceduti”, con tanto di fotografie pubblicate sui social e le loro storie complete.

In Italia non c’è (ancora) nessuna apocalisse in vista: nel 2016 si contavano 943 centri commerciali e pure nei primi mesi del 2017 ne sono stati inaugurati di nuovi. A subire maggiormente gli effetti della crisi, invece, sembrano essere i negozi più piccoli che chiudono al ritmo di uno su dieci, per un totale di oltre 90mila esercizi commerciali in meno dal 2016 al 2017, secondo il report Confesercenti – Elaborazione su dati Istat e Registro delle imprese. Al primo posto tra le categorie più colpite ci sono i negozi del tessile-abbigliamento, il cui numero si è ridotto di un quinto a poco più di 127mila negozi (-20% di boutique), che deve difendersi dall’avanzamento delle grandi catene di low price e fast fashion, seguito da ferramenta e costruzioni (-19,9%), macellerie (-17%), oreficerie, profumerie (-17,5%) e librerie (-17%).

Numeri e note folcloristiche a parte, l’equazione per la maggior parte dei player è ben lungi dall’essere risolta, e la risoluzione stessa fa apparire semplice un cubo di Rubik. A chi sostiene che sia l’e-commerce la panacea di ogni male, andrebbe forse risposto che lo è, ma soltanto in parte: la vera sfida, oltre a garantire un online store efficiente, risiede nell’assicurare il difficile equilibrio tra varietà, velocità e flessibilità, che le decisioni dei consumatori hanno dimostrato essere cruciale. L’arena competitiva è completamente cambiata rispetto a dieci o vent’anni fa, e il cambiamento – così come l’assunzione di un certo numero di rischi – è sia auspicabile, sia inevitabile: i retailer che nell’immediato futuro decideranno di optare per l’immobilismo hanno, purtroppo o per fortuna, i giorni contati.