“Abbattiamo i monumenti fascisti”. NewYorker comanda, Saviano esegue

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Il “New Yorker” comanda, Saviano esegue. Il leitmotiv dev’essere “Abbattiamo i monumenti fascisti”
Che Roberto Saviano non fosse dotato di capacità creative, ma solo di un’abile mente compilativa in grado di fare sintesi (di tesi altrui) già si sapeva. Tutto il filone di “Gomorra” lo dimostra. Ed anche quando si tratta di asservirsi alle richieste altrui, in particolar modo d’Oltreoceano, Saviano non è da meno. E’ il caso della richiesta di qualche giorno fa del New Yorker, ed in particolare di Ruth Ben-Ghiat, che a gran voce ha chiesto che si proceda alla rimozione di queste opere. Saviano non poteva non rispondere alle richieste del padrone. Ed ecco un suo corsivo dalle colonne de l’Espresso, che rilanciano l’allarme, se possibile enfatizzandolo nella sua essenza. I simboli ed i monumenti fascisti, secondo Saviano, incutono “paura” al cittadino che  di fronte ad essi diventa “un uomo piccolo, schiacciato” (cit.). Insomma, well done Mr. Saviano!

(www.espresso.repubblica.it) – 23/10/2017 – di Roberto Saviano – Quella paura dei simboli fascisti. La polemica sull’architettura  del ventennio dimostra come abbiamo smarrito il filo che ci lega al passato.
Sono nato nel 1979 quindi gli anni Ottanta, con i loro eccessi, hanno profondamente segnato il mio immaginario. Eccessi frivoli, talvolta, ma anche e soprattutto di impegno civile e politico, un impegno che non conosceva mezze misure. Negli anni Ottanta faceva il suo ingresso nel dibattito pubblico italiano una espressione che in realtà esisteva già da qualche decennio, quel “politicamente corretto” che aveva il compito di fissare regole per una civile discussione su alcuni temi delicati su cui lo scontro o talvolta l’offesa spesso incombeva. Al tempo era necessario darsi delle regole, anche regole che fossero semplicemente linguistiche. Se è vero, come è vero, che le forme del linguaggio modificano le forme del pensiero, allora l’operazione di “decontaminazione linguistica” iniziata negli anni Ottanta e definitivamente compiutasi negli anni Novanta ci ha aiutati a prendere coscienza piena dell’esistenza di condizioni umane che meritano non solo attenzione ma anche delicatezza nell’approccio. Nessun rimpianto sul ritardo, nessuna pretesa che questo passaggio avvenisse prima: tutto era troppo vicino, vicina era l’esperienza del fascismo, vicini e attuali gli anni di piombo. Non c’era spazio per le mezze misure, non c’era spazio per nulla che non fosse bianco o nero.

Eppure gli anni Ottanta sono stati un momento di crescita: forse il vero passaggio di secolo c’è stato proprio tra il 1989 e il 1990, nei mesi della riunificazione tedesca. L’anno che in qualche modo ha sancito la fine di una separazione dolorosa e la celebrazione dell’unità, coronata dalle “notti magiche” dei mondiali giocati in Italia nel 1990.

Ma unificazione significa anche attenzione ai motivi che hanno portato alla disgregazione, significa studio e ragionamento, significa approfondimento. Gli anni Novanta hanno progressivamente trasformato l’utopia del politicamente corretto nel compimento della falsità istituzionale. Oggi si ritiene che il politicamente corretto appartenga a chi non ama il parlar chiaro, a chi vuole gettare fumo negli occhi dell’interlocutore. Quindi dal rispetto delle minoranze si è tornati a pretendere rispetto per le maggioranze perché ciò che non appartiene a tutti e che non riguarda tutti è perdita di tempo.

Quasi una coazione a ripetere: più ci si allontana dal nucleo che genera sofferenza, più si perde la necessità di approfondire, di studiare e di ricordare le cause che quella sofferenza l’hanno prodotta. Più i testimoni oculari della sofferenza tacciono (alcuni muoiono, altri dimenticano, qualcuno cambia idea) più il simbolo perde significato e perde anche la funzione necessaria di monito. Dopo la Seconda guerra mondiale e durante tutto il periodo della Guerra fredda i simboli fascisti rimasti in Italia ci ricordavano un momento buio della nostra storia, un periodo che non dovevamo dimenticare. Pensando all’Eur ho spesso riflettuto su cosa significasse vivere in un quartiere di monoliti bianchi e giganteschi. L’uomo che cammina tra quelle strade è un uomo piccolo, schiacciato, che può fare la differenza solo se si unisce ad altri uomini, solo se crea un fascio. L’architettura fascista genera un forte senso di impotenza, quindi alla prepotenza dell’apparato statale corrispondeva in modo uguale e contrario l’impotenza del singolo uomo.

È importante non smettere mai di riflettere sulla stratificazione architettonica che ospita le nostre vite; è importante perché ci consente di vivere in continuità con ciò che siamo stati, con ciò che di buono abbiamo prodotto ma anche con ciò che di estremamente negativo si è sperimentato. Ruth Ben-Ghiat, storica statunitense profonda conoscitrice della storia italiana, dalle colonne del New Yorker pone una questione sulla quale ci interroghiamo poco: quanto condizionano la nostra vita i simboli che ci circondano? E quanto la condizionano quei simboli dei quali non siamo più in grado di cogliere il messaggio? Cosa rappresentano oggi i simboli fascisti rimasti in Italia, un monito o memoria da rispolverare? Le riflessioni di Ruth Ben-Ghiat hanno generato in Italia una polemica sul valore dell’architettura fascista e sulla necessità di stigmatizzarne la genesi, una polemica che forse nasce dalla paura di aver smarrito il filo, interrotto quel dialogo fondamentale con un passato vicinissimo e che invece appare remoto, un dialogo che genera consapevolezza.