Verità scomode svelate dai diari segreti di Arafat. Ma perché nessuno commenta?

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E’ di questi giorni la notizia dell’esistenza di un numero significativo di diari di Yasser Arafat, l’ex leader indiscusso della resistenza palestinese, che molto potrebbero svelare sulle trame che hanno interessato il Mediterraneo (e non solo) fra gli anni ’80 e ’90. Tuttavia, ben poca attenzione è stata rivelata dai media nostrani, nonostante alcuni contenuti “esplosivi” di questi.
Al netto di una serie di notizie fatte trapelare per chiari intenti politico-elettorali (es. i fondi neri di Berlusconi), e che non ci interessano, sono ben altre le notizie che colpiscono. Non solo la riconferma dell’amicizia con Craxi, ma una rilettura completa degli eventi e della gestione dell’affare Sigonella, con un inedito ruolo di Giulio Andreotti. Più di tutti, però, sta la conferma da parte di Arafat dell’esistenza – seppur non nominata palesemente, per ora – di un accordo con l’Italia: il cosidetto “Lodo moro“. Ovvero quell’accordo che tutelò il nostro Paese, anche dopo la morte dello statista democristiano, mettendolo a riparo dagli attentati palestinesi e che, secondo molti, fu poi stralciato de facto con la strage di Bologna, rispetto alla quale il ruolo dei palestinesi resta ad oggi un mistero.
Eppure nessuno in Italia sembra interessato a quelle vicende: troppo “fredde” o ancora troppo “calde” per meritare un commento?

Arafat e i fondi neri di Berlusconi: ecco i diari segreti

(espresso.repubblica.it) – 22/02/2018 – Le bugie per salvare l’ex Cav dai processi. La verità sul caso Sigonella. L’incontro con Di Pietro. Gli appunti riservati 
del capo palestinese. Diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. E che l’Espresso ha letto in esclusiva

Yasser Arafat , il guerrigliero più famoso del Medio Oriente, il più celebre e misterioso protagonista della causa palestinese, ha riversato per diciannove anni i suoi pensieri più segreti nelle pagine di diciannove volumi, di cui solo adesso si è appresa l’esistenza. Li ha scritti in arabo, iniziando nel 1985. Ha continuato fino all’ottobre del 2004, un mese prima della morte. I diari rivelano tutto quello che in vita Arafat non ha detto pubblicamente. Chi ha già letto ciò che ha scritto Arafat ne ha raccontato un’ampia parte all’Espresso.

I diciannove volumi sono una miniera di informazioni che raccontano intese politiche, azioni di guerra e affari che fino adesso erano rimasti oscuri. Sono appunti che rivelano ciò che faceva e pensava uno dei protagonisti del XX secolo, prima leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e poi presidente dell’Autorità nazionale palestinese, primo abbozzo di uno Stato che non è mai nato.

Nei diari di Arafat si parla anche del nostro Paese. Ci sono molti riferimenti a Giulio Andreotti, Bettino Craxi e a Silvio Berlusconi, e soprattutto al dirottamento della nave da crociera “Achille Lauro” e alla conseguente crisi di Sigonella (1985), il più grave incidente diplomatico mai avvenuto tra Italia e Usa. Si parla poi del famoso (e fino a ieri solo ipotizzato) accordo per evitare che ci fossero attentati terroristici in Italia.

Ma soprattutto nei diari si racconta del rapporto tra il leader palestinese e Berlusconi. C’è anche la rivelazione di un incontro segreto fra i due, avvenuto in una capitale europea nello stesso periodo in cui a Milano era in corso il processo nel quale il Cavaliere era imputato di aver gestito, attraverso la società offshore All Iberian, i miliardi in nero destinati dalla Fininvest al Partito socialista di Bettino Craxi.

Sono fatti poi dichiarati prescritti dal tribunale, ma di cui ora si apprendono retroscena sconosciuti.
Il Cavaliere, per difendersi durante il processo, aveva indicato come beneficiario finale dei suoi dieci miliardi di lire l’Olp, a cui avrebbe fatto pervenire il denaro – come sostegno alla causa palestinese, su richiesta di Craxi – usando come mediatore Tarak Ben Ammar: produttore televisivo tunisino amico e socio di Berlusconi, oggi nel cda di Mediaset ma anche in quelli di Generali, Mediobanca, Telecom Italia e Vivendi.

Tarak Ben Ammar aveva confermato questa versione, sostenendo che quei soldi erano andati a lui, legalmente, per poi essere destinati all’Olp. Quindi non erano, secondo Berlusconi e Ben Ammar, finanziamenti illeciti a Craxi.
Arafat nei suoi diari racconta però una storia molto diversa. Scrive infatti di essere rimasto estremamente sorpreso nell’apprendere dai giornali che Berlusconi lo aveva finanziato: di quei dieci miliardi all’Olp non era mai arrivata nemmeno una lira.

Per chiarire la vicenda, lo stesso Arafat organizza allora un incontro con Berlusconi, in un luogo segreto fuori dall’Italia, nella primavera del 1998. Il Cavaliere accetta. Sul diario si legge: «Berlusconi mi parla di Tarak Ben Hammar, ma io non lo conosco». Arafat ribadisce quindi di non aver mai ricevuto i dieci miliardi e lo dice chiaramente anche a Berlusconi. Ma il leader palestinese, contemporaneamente, apre una porta al Cavaliere: gli dice che se avesse voluto una sua dichiarazione di conferma di aver ricevuto quei soldi, da utilizzare ai fini processuali, l’avrebbe fatta. Naturalmente, in cambio di un versamento. E così è stato: la dichiarazione di Arafat in favore di Berlusconi (che quindi conferma la sua tesi difensiva) viene resa nota e pubblicata su un giornale israeliano.

L’incontro segreto rivelato da Arafat è confermato all’Espresso da personalità che erano presenti.
A questa storia nel diario del leader palestinese vengono riservate dieci pagine, dove si trovano annotati i dettagli con i numeri di conto e i trasferimenti del denaro ottenuto da Arafat.

L’incontro con Di Pietro

Negli appunti c’è anche la notizia di un incontro tra Arafat e Antonio Di Pietro, nel 1998. L’ex magistrato arriva a Gaza nello stesso periodo in cui è in corso il processo All Iberian a Milano. E Arafat scrive nel suo diario: «Non ho potuto dire nulla a Di Pietro perché avevo già un accordo personale con Berlusconi». Contattato dall’Espresso, Di Pietro oggi dice: «Non era una rogatoria e non ero lì per All Iberian. In quel periodo avevo già lasciato la magistratura. È vero, ho incontrato Arafat, ma il motivo lo tengo per me». E poi aggiunge: «In quel periodo ero sotto attacco dall’area di Berlusconi». Facendo riferimento a quello che scrive il leader palestinese l’ex magistrato spiega: «So bene a cosa si riferisce Arafat negli appunti. Ripeto, l’ho visto e ci ho pure parlato a lungo. Abbiamo anche pranzato insieme e con noi c’erano altre quattro persone».

Il caso Sigonella

I diari rivelano poi la trattativa tra Arafat e l’Italia avvenuta nel 1985, quando Craxi era presidente del Consiglio, durante e dopo la vicenda dell’Achille Lauro, la nave da crociera dirottata da quattro terroristi palestinesi.

Durante il sequestro della nave il governo italiano cerca di risolvere la vicenda contattando Arafat. Il quale invia sull’Achille Lauro un suo uomo, Abu Abbas, indicandolo come mediatore. Dopo pochi giorni i quattro dirottatori e Abu Abbas portano la nave in Egitto e rilasciano i passeggeri: ma uno di loro – l’americano Leon Klinghoffer, di origini ebraiche – era stato ucciso e gettato in mare. Secondo gli accordi, i terroristi sarebbero dovuti andare in Tunisia, con un aereo e un salvacondotto, sempre in compagnia di Abu Abbas. Venuti a conoscenza della morte di Klinghoffer, però, gli americani fanno alzare in volo i loro caccia e costringono l’aereo in cui i cinque si trovano ad atterrare nella base Nato di Sigonella, in Sicilia. Qui, dopo una lunga trattativa, i quattro terroristi si consegnano alle autorità italiane. Ma gli americani vogliono anche l’arresto di Abu Abbas, considerandolo un terrorista al pari dei quattro. Gli italiani si rifiutano di consegnarlo, al punto da circondare l’aereo con i carabinieri. E consentono così ad Abu Abbas di scappare in Bulgaria e di lì rifugiarsi prima in Tunisia poi a Gaza.
Chi ha letto gli appunti di Arafat rivela che la linea dura del governo italiano verso le pretese americane sarebbe stata decisa non da Craxi – come si è sempre creduto – ma da Andreotti, che era in contatto diretto con Arafat. Sarebbe stato Andreotti a imporre di fatto a Craxi di fermare gli americani e di rispettare gli accordi presi con Arafat.

Del resto Andreotti, secondo quanto emerge dai diari del leader palestinese, aveva sempre avuto un ruolo importante nelle mediazioni internazionali che hanno riguardato la Palestina e sarebbe stato spesso una sorta di “mediatore nascosto” tra l’Olp e gli americani.

Nei diari il leader palestinese non si assume mai la responsabilità di aver commissionato un attentato o un omicidio. Prende atto delle stragi compiute dai palestinesi e le commenta. Chi lo ha conosciuto e gli è stato al fianco per diversi anni conferma all’Espresso che Arafat «non ha mai ordinato un attentato. A lui venivano proposti e lui si limitava a rispondere: “Fate voi”. Poi quando scoppiavano le bombe che gli erano state annunciate, il comandante sorrideva e diceva: “bene, bene”». Ma nessun attentato dell’Olp coinvolse il nostro Paese. «L’Italia è la sponda palestinese del Mediterraneo», scrive Arafat. E per questo doveva essere preservata da attacchi.

Il triangolo Gelli, Berlusconi, Craxi

Parlando di Craxi, Berlusconi e Licio Gelli, il capo dell’Olp racconta nei suoi appunti una storia che li vede tutti e tre collegati tra loro. Si tratta di una vicenda dei primissimi anni Ottanta, quando Roberto Calvi – allora presidente del Banco Ambrosiano e uomo di Licio Gelli – ha bisogno di un passaporto nicaraguense. Per procurarglielo, Gelli si sarebbe rivolto a Berlusconi (membro della sua loggia, la P2) e il Cavaliere a sua volta avrebbe chiesto aiuto all’amico Bettino Craxi. Il quale avrebbe investito della questione Arafat, ritenuto in grado di procurare un passaporto del Nicaragua.

Ci sono anche alcuni aneddoti che Arafat riporta nei suoi appunti e collegati alle visite ufficiali in Italia. Ad esempio, il 5 aprile 1990 il capo dell’Olp arriva a Roma con un volo proveniente da Parigi. Deve incontrare, tra gli altri, il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Arafat scrive nel diario che quando arriva al Quirinale il capo del protocollo gli fa togliere il cinturone con la pistola, quello che lui portava sempre con sé. Arafat racconta che a quel punto i pantaloni erano troppo larghi e gli cadevano. Per questo si presentò davanti a Cossiga tenendoli stretti con le mani, evitando una brutta figura istituzionale. Al Capo dello Stato disse: «Mi scusi signor Presidente, non è colpa mia ma del suo ambasciatore…», quello che gli aveva fatto togliere il cinturone.
Anche il giorno della consegna del Premio Nobel per la Pace, il comandante palestinese scrive che il programma della cerimonia ha avuto un ritardo a causa della sua divisa militare che comprendeva la pistola.
Il 17 luglio 1990 Arafat, che per lungo tempo era stato single (e mai erano apparse donne nella sua vita) sposa Suha Tawil. Lui confida sul diario: «Come faccio a sposarmi con Suha? Io sono già sposato con la Palestina ed il suo popolo».

L’amicizia con Fidel

Arafat dedica poi molto spazio a raccontare i suoi rapporti con il dittatore cubano Fidel Castro, fino all’ultimo incontro avvenuto all’Avana.
Quasi coetanei, i due avevano in comune anche la militanza guerrigliera e i principali nemici, cioè Stati Uniti e Israele. Entrambi, inoltre, amavano le uniformi, portavano la barba e avevano il carisma del leader capace di suscitare grandi speranze e aspettative nei propri popoli. Oltre che a Cuba, Castro e Arafat si erano incontrati spesso alle riunioni dei Paesi non allineati e ai funerali dei vecchi leader sovietici, dai quali entrambi avevano ricevuto sostegno politico e un fiume di rubli negli anni della Guerra Fredda.

Le pagine dei diari raccolgono poi il disagio e lo sfogo del capo palestinese quando deve appoggiare Saddam Hussein, durante la prima guerra del Golfo (1990-1991). Così scrive Arafat: «Devo schierarmi con lui: il mio popolo me lo impone. Ma ho cercato con più telefonate di farlo desistere dalla follia che sta facendo».
Arafat racconta quindi di negoziazioni di pace, segrete, con l’allora premier Yitzhak Rabin, mentre dell’ex presidente israeliano Shimon Peres scrive: «Una bravissima persona: un bel soprammobile».
I diciannove volumi sono stati affidati a due fiduciari lussemburghesi, che dopo una lunga negoziazione hanno terminato la cessione dei documenti a una fondazione francese con la clausola che il contenuto dei diari debba essere usato solo come “documentazione di studio” e non per pubblicare libri o girare film.
Il carico di testimonianza che lascia Arafat è pesante. E non sarà facile, per molti, accettare le conseguenze delle rivelazioni contenute nelle pagine di questo diario.

I diari di Arafat, ecco i nuovi dettagli segreti

I diari di Arafat, ecco i nuovi dettagli segreti

(espresso.repubblica.it) – 22/02/2018 – I diari che il leader dell’Olp Yasser Arafat ha lasciato in eredità alla storia, i cui primi stralci sono stati pubblicati in esclusiva mondiale  sull’ultimo numero dell’Epresso, ci mostrano il volto di un comandante temuto da molti ma innamorato del suo popolo. Nelle pagine dei diciannove volumi che solcano i fatti dal 1985 all’ottobre del 2004 c’è la storia di una tragedia, quella palestinese, vista con gli occhi di un uomo che scrive di vivere e resistere per la sua gente. E negli appunti ricorre spesso una frase: «Il mio più grande amore è la Palestina».

Aver rivelato l’esistenza di questi diari e una parte del loro contenuto (stralci che L’Espresso ha pubblicato dopo averli riscontrati) ha mandato su tutte le furie il nipote del defunto leader palestinese, Nasser al-Kidwa, oggi presidente della Yasser Arafat Foundation (Yaf). Al-Kidwa ha scritto in un nota che Arafat «effettivamente ha lasciato dei diari nei quali ha segnato le sue osservazioni sugli eventi politici incorsi durante la sua lunga lotta, ma questi diari sono in possesso della Yaf e nulla di essi è stato ceduto». Kidwa ha assicurato che la fondazione «farà presto una revisione di tutti i contenuti dei diari e, dopo aver preso una decisione politica in merito, li svelerà al pubblico». Ma una parte delle memorie del leader palestinese sono, evidentemente, sfuggite al controllo del nipote. Tanto che l’Autorità palestinese ha deciso di aprire un’inchiesta per scoprire come sia avvenuta la fuga di notizie.

I fiduciari che hanno in custodia gli appunti del leader dell’Olp rivelano anche altri punti del manoscritto. In particolare sui rapporti con Papa Giovanni Paolo II e alcune delle loro conversazioni private, durante gli incontri in Vaticano.

Chi è stato accanto al leader palestinese conferma che Arafat «scriveva i suoi pensieri e quel che gli dicevano i suoi interlocutori su un quadernetto grande come il palmo d’una mano, da cui non si separava mai». E in questi lunghi anni c’è stato qualcuno vicino al leader che si è preso cura di conservare questi quadernetti.

Dagli appunti, come ha rivelato L’Espresso, emergono incontri segreti, fra cui quello con Silvio Berlusconi, e il versamento di somme di denaro per ottenere una dichiarazione che avrebbe dovuto proteggere il Cavaliere dal processo per i fondi neri della società off shore All Iberian, in cui era imputato insieme a Bettino Craxi. Un favore a Berlusconi? Di sicuro, negli effetti. Ma nelle intenzioni «potrebbe essere stato anche un tentativo di salvare Craxi, che si era speso tanto per la Palestina», dice Luisa Morgantini, ex vice presidente del Parlamento europeo, impegnata per la difesa della Palestina e tra le fondatrici della rete internazionale delle “Donne in nero contro la guerra e la violenza”, che conosceva bene il capo dell’Olp e ne era amica. «La falsa dichiarazione di Arafat (aveva confermato la versione del Cavaliere, secondo la quale i fondi al centro del processo erano una donazione all’Olp e non un finanziamento illecito al Psi, Ndr) può essere quindi stato un atto di amicizia e di riconoscenza», aggiunge Morgantini.

L’ex europarlamentare sostiene che «questi gesti di generosità facevano parte della personalità di Arafat», quindi «non credo che alla base ci sia stato uno scambio di favori. In fondo Craxi aveva fatto tanto per Arafat». Morgantini aggiunge che il suo amico Arafat invece «non aveva rispetto per Berlusconi. Ma se l’obiettivo era quello di salvare Craxi, allora potrebbe essersi reso disponibile a risolvere il problema». Ricevendo in cambio versamenti dal Cavaliere o no? «Non lo so. Ma non ho mai visto Arafat circondato dal lusso o dalla ricchezza. Conduceva una vita parca e i soldi li usava per la politica o per donarli a chi ne aveva di bisogno. Per se non teneva nulla e viveva in abitazioni modeste». Eppure era considerato uno degli uomini più ricchi del mondo… «Non so se nascondesse il denaro. Certo viveva in maniera molto sobria», risponde Morgantini.

La celebrità mondiale di Yasser Arafat è durata a lungo. Sono stati pochi gli uomini politici a riuscire ad occupare, come ha fatto lui fino alla sua morte avvenuta nel novembre 2004 a Parigi, le prime pagine dei giornali e gli schermi televisivi. Occorre partire da lontano, nel dicembre 1968 quando il settimanale americano “Time” gli ha dedicato la copertina: allora, per la maggior parte dell’opinione pubblica occidentale Arafat era solo un capo terrorista e il portavoce d’una oscura organizzazione, Al Fatah, che aveva giurato la distruzione di Israele. L’aspetto esteriore dell’uomo contribuiva a questa immagine: con la “kefiah” araba o un berretto militare, mal rasato, gli occhi nascosti dietro lenti scure, un abito cachi pieno di tasche, portava sempre una pistola alla cintura o un mitra a tracolla. Tuttavia chi lo conosceva nell’intimità sostiene che queste apparenze erano ingannevoli. Lontano dai media, senza niente in capo e vestito normalmente, quell’ometto grassottello e calvo – dicono i suoi amici di un tempo – era un conversatore gioviale e un capo generoso.

Paradossalmente, il comandante conosceva solo superficialmente le questioni militari e non era abile con la pistola. I suoi aggiungono anche che era un uomo sensibile al punto da singhiozzare quando fu proiettato per lui un documentario sul massacro di Sabra e Chatila del settembre 1982. E, secondo i testimoni che gli sono stati accanto, le lacrime gli spuntavano anche quando parlava delle sventure del suo popolo.

Ad ascoltare i suoi amici , Arafat non era né un estremista né un sognatore. Sapeva, come del resto emerge anche dai diari, che bisognava trovare un modus vivendi con gli israeliani. Già nel 1968 diceva: «Se gli ebrei e i palestinesi potessero unirsi, il Medio Oriente entrerebbe nell’età dell’oro. Il genio, le risorse naturali e intellettuali dei nostri due popoli basterebbero a vincere l’egoismo, la corruzione e la doppiezza della maggior parte dei regimi arabi».

Arafat aveva accumulato sconfitte senza mai disperare e anche nei momentipiù difficili mostrava fiducia. Leggeva con attenzione i giornali e le sintesi della stampa internazionale che gli veniva fornita dai suoi collaboratori. E approfittava dei pochi momenti liberi per giocare a scacchi o guardare cartoni animati su videocassette.

Il poeta palestinese Mahmoud Darwish ha sintetizzato così la figura di Arafat: «La sua politica non sempre è stata giusta. Lo critichiamo e talvolta lo giudichiamo con severità. Ma lui è il simbolo della nostra identità, della nostra unità e delle nostre aspirazioni nazionali».