“Sono di nuovo nelle nevi del terzo inverno di guerra al fronte russo.
Sono qui perché l’ideale che mi bruciava alla partenza mi rende tuttora assai insopportabile l’atmosfera soffocante, dall’odore di muffa, del vecchio universo borghese che muore.
La vita del soldato al fronte è la sola, a quest’ora, che sia veramente retta, disinteressata, senza sbavamento e senza mercanteggio. Qui, davanti alla morte, o quanto meno davanti al dolore quotidiano, l’anima si eleva al di sopra del pantano della decadenza.
Milioni di combattenti, induriti dall’esperienza, preparano le élite rivoluzionarie che imporranno domani ad un mondo stupido o ripugnante, la riconoscenza che già arbitra i loro cuori.
Siamo qui per le battaglie di oggi ma anche per quelle di domani.
Siamo qui perché nelle nostre trincee di ghiaccio si lotta, si vuole, si crede ci si dona.
Siamo qui perché qui, almeno, si respira!”
(Léon Degrelle)
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A cura della Redazione di RigenerAzione Evola – (www.rigenerazionevola.it) – 03/06/2018
Nel dicembre 1940 Julius Evola tenne a Roma, al Kaiser Wilhelm Institut presso Palazzo Zuccari, una conferenza pubblicata poi l’anno successivo dalla casa editrice viennese Scholl, col titolo di “Die arische Lehre von Kampf und Sieg”, vale a dire “La dottrina aria di lotta e di vittoria”.
Le edizioni Ar ne pubblicarono la prima traduzione in italiano soltanto nel 1970, e da allora il testo di questa conferenza è diventato un punto di riferimento essenziale per la formazione dei militanti sul Fronte della Tradizione, in quanto riassume e descrive con grande attenzione il significato e la funzione che la guerra ed il combattimento avevano nella tradizione indo-aria, e che potevano ancora avere durante l’ultima guerra mondiale.
L’esperienza della prima guerra mondiale era stata per molti versi tragica: in essa si era affacciato in modo prepotente un concetto di guerra molto diverso da quello più tradizionale che l’umanità aveva conosciuto per secoli; in questo “nuovo” modo di concepire l’evento bellico trovavano massimo risalto da una parte il potenziamento parossistico della componente distruttiva, connessa all’emergere di nuove tecnologie del tutto svincolate dalla capacità guerriera del singolo combattente, e dall’altra la massificazione. Negli eserciti non trovavano più posto, infatti, i guerrieri selezionati, preparati fin da ragazzi e spiritualmente predisposti alla battaglia, ma masse anonime e livellate di giovani e adulti tratti forzatamente dalle loro vite borghesi, impreparati spiritualmente al combattimento e “trasformati” in soldati sulla base dell’infarinatura iniziale del servizio militare e del successivo addestramento specifico all’evento bellico.
Nonostante tutto ciò, quell’esperienza non fu soltanto una carneficina di masse anonime di uomini gettati in pasto alla distruzione, ma una nuova, forse inattesa fucina, che aveva forgiato gli spiriti di quelle migliaia di giovani europei che non avevano subito gli influssi più negativi delle potenze scatenate dall’evento bellico, ma che da esse avevano trovato linfa per risvegliare in sé atavici istinti, personalità originarie sepolte e soffocate dallo stile di vita borghese. Ciò aveva portato alla nascita di tutte quelle formazioni paramilitari, come gli squadristi in Italia o i Freikorps in Germania, che, per parafrase Jünger, avrebbero dovuto garantire una Mobilitazione totale, rendendo permanente lo spirito del fronte, applicando le regole della più rigida condotta impersonale, asciutta e militare, alla vita quotidiana.
La seconda guerra mondiale riproponeva quelle tematiche, se possibile ulteriormente potenziate, in un contesto ancor più carico di suggestioni e tematiche forti, da conflitto di portata cosmica tra due visioni antitetiche del mondo: il grande scontro finale tra il sangue e l’oro, lo spirito e la materia, in cui fra le schiere degli ultimi difensori della Tradizione europea c’erano sia i combattenti già forgiati positivamente dalla prima guerra mondiale che i ragazzi formati dallo spirito di fede, obbedienza e battaglia trasmessi dai regimi fascisti europei negli anni Venti e Trenta.
Evola, nella sua conferenza-studio, analizzava strettamente la rottura di livello che nel singolo combattente l’evento bellico poteva comportare: in primo luogo le potenti forze elementari che la guerra rianimava dovevano essere dominate dal soldato, senza che esse lo trascinassero in stati pre-personali con derive sub-umane, tipiche di quelle che Evola definiva “razze di natura” (si pensi, al riguardo, all’emersione di tendenze sadiche o particolarmente violente – torture o stupri -, autolesionistiche, nonché al manifestarsi di patologie psichiche da stress post-belliche). A quel punto, dominate quelle forze ed adeguandosi allo status risultante, si poteva avere un primo effetto positivo, un effetto minimale (ma fondamentale) che potremmo definire di primo grado, costituito dalla messa in crisi e dalla distruzione della piccola personalità borghese del singolo, ridotta in poltiglia dalle forze spirituali rimesse in circolo attraverso l’eroismo, il sacrificio, la spersonalizzazione della propria azione, la riduzione all’essenziale, l’autocontrollo, la disciplina di sé, la riscoperta della propria dimensione più forte, più dura, più severa.
Il definitivo superamento della dimensione borghese, standardizzata, conformista, mediocre dell’esistenza umana, poteva consentire al singolo, in quel contesto critico ed estremo della trincea, di ritrovare uno stile asciutto, essenziale, metallico, scarno, spartano, ove tutto appariva semplificato e ridotto all’essenza più pura, dai comportamenti alla stessa esteriorità fisica, che poteva realmente modificarsi nello sguardo, nei connotati, nella muscolatura, nei comportamenti, nei movimenti stessi, ridotti allo stretto necessario. Potevano essere gettate le basi per l’avvento dell’Uomo Nuovo, che sarebbe stato di fatto la riproposizione dell’Uomo della Tradizione.
Ma l’irrompere dell’elementare in battaglia poteva comportare un effetto ulteriore, superiore, diventando, negli spiriti più forti e predisposti, e quindi in definitiva in poche, selezionate, eccezionali individualità, un mezzo di trasfigurazione, elevazione ed integrazione della personalità: un effetto superiore, di secondo grado, una vera e propria rottura di livello di tipo metafisico, in grado di far abbandonare al singolo l’individualità propria all’esistenza umana condizionata.
Nella sua analisi Evola partiva dall’osservazione che nella tradizione aria era ignota qualunque contrapposizione reale tra azione e contemplazione, che designavano due vie di pari dignità per la medesima realizzazione spirituale, per arrivare a superare i condizionamenti dell’esistenza individuale e consentire al singolo di partecipare, ancora in questa vita, alle realtà soprannaturali. Sicuramente è tipica della tradizione ario-occidentale la tradizione dell’azione: nel processo di progressiva decadenza dell’umanità, questa forma tradizionale doveva degenerare in un’azione secolarizzata e materializzata, sconsacrata, priva di contatto con la trascendenza, che doveva ingenerare l’attivismo febbrile, faustiano, fine a sé stesso, tipico di quest’epoca: un mero agire per l’agire, un fare legato solo a effetti contingenti e materiali.
Evola si sofferma su quella che era dunque una delle forme di azione in cui forse maggiormente si manifestava, nella tradizione ario-occidentale, la realizzazione spirituale sovraordinata di quel tipo di uomo, e cioè la guerra, che nella forma mentis dell’antico guerriero ario corrispondeva ad una lotta fra forze metafisiche, tra il principio olimpico della luce, la realtà uranica e solare, e l’elemento titanico-tellurico, la violenza bruta, la tenebra. Ogni lotta in senso materiale veniva vissuta come un episodio di quest’antitesi metafisica, che si riproduceva non solo esternamente, ma anche e soprattutto interiormente, nella perenne battaglia dell’uomo contro i nemici che porta in sé, dell’elemento soprannaturale che alberga nel corpo umano (lo spirito, frammento dell’Unità incarnatosi in ogni esistenza individuale e condizionata) contro tutto ciò che è istintivo e caotico, legato a passionalità e forze naturali. In tal senso Evola richiama, come già fatto in modo esteso in Rivolta, la nota distinzione propria alla tradizione islamica tra piccola e grande guerra santa.
Dopo aver passato in rassegna testimonianze proprie alle saghe mitologiche delle tradizioni nordico-germaniche, Evola osserva come anche in ambito cristiano, nello spirito delle Crociate si riverberava la concezione nordico-aria della guerra santa come guerra totalmente spirituale, con un effetto purificatorio ed espiatorio sui crociati combattenti identico a quello che si produrrà di fatto nel Purgatorio (lo Shéol), nel Mondo Intermedio, e quindi con un effetto di sovrumana spoliazione d’ogni superfluità e d’ogni macchia, raggiunto tramite il prodursi del massimo sacrificio umano in battaglia, a prescindere dall’esito vittorioso o meno della stessa. In ambito indo-ario, la Bhagavad-Gita è citata quale testo sacro ove meglio viene esposta la dottrina della battaglia in senso metafisico, il concetto dell’azione pura e svincolata da ogni fine materiale, la nozione di irrealtà metafisica di ciò che si può perdere in battaglia, e cioè la vita individuale come forma condizionata di esistenza: l’attivazione di tale negazione metafisica significa evocare le terribili potenze divine come forze metafisiche con cui confrontarsi, al fine di tentare la massima elevazione verso la realtà trascendente.

L’esposizione evoliana proseguiva con l’analisi di potenti e ricorrenti immagini e concetti simbolici propri alle tradizioni classiche e nordiche, legati ai principi sopra esposti: in primo luogo l’anima intesa come demone, genio o doppio, incarnante una forza superindividuale, strettamente legata con le forze mistiche della razza e del sangue, che si ritrova simbolicamente nelle walkirie e nelle fylgie nordiche, o nelle fravashi ario-iraniche; in stato di latenza, tale forza può risvegliarsi e irrompere nel singolo con l’esperienza attiva della morte sul campo di battaglia. Di qui, c’è spazio anche per qualche cenno sul concetto differenziato di immortalità nelle tradizioni arie.
E ancora, immagini di liberazione dionisiaca dell’elemento azione, di scatenamento di forze giacenti in profondità: in ascendenza gerarchica, dalle forme più basse, come la danza, ai ludi bellici sacrali, fino alla guerra vera e propria. E così le immagini delle Erinni, delle Furie, delle schiere selvagge, fino al trionfo finale, in cui le immagini delle dee della vittoria, spesso sotto forma di dee della battaglia, simboleggiano il trionfo finale del combattente, che passa indenne il trauma della rottura di livello ed i connessi rischi di distruzione sub-personale legati alla frenesia dell’azione dionisiaca ed eroica, ed approda “vincitore” verso stati spirituali superiori, realmente super-personali, acquisendo così la predisposizione all’immortalità e all’indistruttibilità ultime.
Per inquadrare ulteriormente le varie sfaccettature di questa “metafisica della guerra”, oltre che a rimandare a diversi altri scritti in materia che Evola pubblicò sul “Regime Fascista” diretto da Roberto Farinacci e che avremo modo di recuperare e presentare in futuro, nonché a romanzi e racconti di guerra molto noti come quelli di Sain-Paulien (I Leoni Morti), Saint Loup (la celebre triade i volontari, gli eretici, i nostalgici) ed altri, e ovviamente alla diaristica di Léon Degrelle, consigliamo ai nostri lettori:
a) l’approfondimento del primo Jünger, quello delle Tempeste d’Acciaio, il teorico dello scatenamento nella guerra moderna dell’elementare quale potenza non-umana profonda e trascendente, risvegliata dall’uomo e fusa a mezzi tecnici di estrema potenza distruttiva contro cui il soldato doveva confrontarsi fisicamente e spiritualmente, e da cui doveva uscire forgiato come un nuovo tipo umano, caratterizzato da un realismo eroico, da un’impersonalità, da un’essenzialità, da uno spirito asciutto e lineare, da una purezza originaria; un uomo temprato dal senso del sacrificio e del dovere, fermo, calmo ed imperturbabile, in cui doveva essere stata distrutta ogni componente borghese. Un’esperienza rigeneratrice e trasfigurante da rendere permanente anche al di fuori del tempo di guerra, come dicevamo (mobilitazione totale, guerra totale), e da traslare nel mondo e nell’epoca della tecnica e della meccanizzazione estrema, ove si ricreava analogicamente il medesimo scenario del conflitto bellico, ed in cui il nuovo tipo umano incarnava stavolta le vesti dell’Operaio, l’Arbeiter, chiamato a dominare le forze distruttrici scatenate in questo nuovo contesto. Al riguardo, oltre alle fondamentali opere specifiche (Nelle tempeste d’acciaio, l’Operaio, il celebre commentario evoliano L’Operaio nel pensiero di Ernst Jünger) consigliamo come lettura snella e riassuntiva l’opera curata da RigenerAzioneEvola “Ernst Jünger – il combattente, l’operaio, l’anarca”, Edizioni Passaggio al Bosco, una raccolta di scritti di Evola su Jünger introdotti da un’illuminante prefazione di Maurizio Rossi;
b) l’opera di Mario Polia, “Furor – Guerra poesia e profezia”, Il Cerchio – Il Corallo, Padova 1983, in cui, tra le altre cose, si analizza il rapporto tra l’attività guerriera e la poesia presso le culture tradizionali, osservando come ad esempio l’ódr dei Germani, al pari del Furor dei Latini, indicasse sia l’ardore guerriero che la forza dei poeti divinamente ispirati e dei profeti, evidenziando in ognuno di questi ambiti proprio quello stato di intensa esaltazione e di trascendimento della coscienza ordinaria, nel quale emergevano particolari facoltà quali la veggenza e l’invincibilità.
c) “Guerra e poesia” (Edizioni all’insegna del Veltro, 2003), opera di Béla Hamvas, scrittore e filosofo ungherese di formazione tradizionale, che per primo introdusse l’opera di René Guénon in Ungheria. In quest’opera l’autore, al pari del primo Jünger, contrappone la figura del civile borghese, da lui inquadrato quale “uomo del panico”, che riduce il destino umano a fabbisogno alimentare e cerca la propria sicurezza in una dispensa ben fornita (la cosiddetta “Weltanschauung della cambusa”), a quella del soldato, che realmente viene a contatto col sopraumano: “mentre il civile si tiene dal lato della materia, il soldato comincia a intravedere la realtà del mondo metafisico”.
Il civile è quindi prigioniero dell’irrealtà, della falsità, delle meschinità, delle paure del mondo materiale, mentre il combattente si trova nell’unica condizione reale dell’esistenza umana, intesa come vera libertà, come possibilità di decidere della propria vita: il combattente è il tipo stesso della decisione, che si manifesta come impegno totale dell’Io personale, poiché è solo la decisione, ossia la capacità di credere e di volere, a dare un senso alla vita. Ernst Von Salomon scrisse “ci eravamo buttati sulla sola virtù che quell’epoca esigesse: la decisione, perché come la nostra epoca anche noi avevamo sete di decisione”. E così Carl Schmitt in quegli anni elaborò la teoria del decisionismo sul piano giuridico e politico, e Oswald Spengler scrisse i suoi Jahre der Entscheidung, “anni della decisione”, a fine 1933, quando l’aspettativa dell’avvento di capi decisi e risoluti stava prendendo forma compiuta.
In linea con le osservazioni di Mario Polia, lo stesso Hamvas osserva che, al pari del soldato, anche il poeta intravede la realtà del mondo metafisico, come un veggente, un evocatore: l’esperienza poetica “vede la realtà trascendentale ultima” ed “il poeta vede il volto eterno del mondo”, sicché “la poesia è l’apparire sensibile dell’invisibile e dell’eterno nell’attimo”.
Il soldato, come il poeta, vedono la realtà nuda e cruda, nella sua essenza ultima, chiara e trasparente, senza veli, senza sovrastrutture, senza mistificazioni.
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Julius EVOLA, La Dottrina Aria di Lotta e Vittoria. Raido, 2015
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