Curato e tratto da www.rigenerazionevola.it
In quest’articolo che uscì sul “Roma” alla fine del 1958, Evola rievocò la sua esperienza artistica giovanile in seno al Dadaismo. A 35 anni di distanza, il barone osservava come “il ricorrere di uguali temi e orientamenti” in termini di rottura, contestazione, ribellione, evasione, assunse nel secondo dopoguerra, rispetto al primo, caratteri ben precisi: le aperture erano ormai unicamente verso il basso, nel segno di “una sensibile caduta di livello”.
Ci siamo abbondantemente soffermati sul significato che Evola attribuì in gioventù all’arte astratta e, in particolare, al Dadaismo, e su come tale interpretazione, estremamente sofisticata ed elitaria, dovette cozzare inevitabilmente con una realtà molto diversa, di fatto anche nel primo dopoguerra. Su certe posizioni estreme “non era possibile sostare a lungo” senza che vi fosse un immediato sviluppo successivo, funzionale ad aperture verso l’alto: in mancanza di esso, la negazione radicale della forma (e, ancor prima, del contenuto) avrebbe spalancato le porte del baratro, verso ciò che sta al di sotto della forma stessa, e non verso ciò che la trascende. “Il dadaismo si bruciò, e si dovette passare a qualcosa d’altro. Il cosiddetto «surrealismo» derivò in buona misura dal dadaismo, prendendo però una via problematica: s’interessò alla psicanalisi, si volse verso l’inconscio e scambiò per delle aperture verso l’alto, forme regressive (…)” scriveva Evola. Forse con un pizzico di “malinconia” (per come poteva percepirla uno spirito come quello del barone) per quegli anni di sincera, giovanile “sperimentazione”; sicuramente con una buona dose di prezioso realismo.
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di Julius Evola
Tratto dal “Roma”, 29 novembre 1958

A chi faccia un confronto fra il primo e il secondo dopoguerra non può non sfuggire il ricorrere di uguali temi e orientamenti, però presso ad una sensibile caduta di livello. In fenomeni tipici che han fatto séguito alla seconda guerra mondiale nel senso di crisi, di confusi impulsi alla ribellione e all’evasione, la tensione spirituale e il radicalismo sono molto minori. Le corrispondenze si presentano in termini assai più grigi e sfaldati. Inoltre, al luogo di espressioni genuine si hanno spesso forme compiaciute e esibizionistiche, quand’anche, nel dominio artistico, non si sia passati addirittura al mestiere. Un caso tipico è, a tale riguardo, quello della attuale arte astratta.
Fra le correnti che nel primo dopoguerra anticiparono atteggiamenti sul genere dell’esistenzialismo di oggi e di tendenze affini, anticonformiste e antirazionalistiche, portando però a fondo l’esperienza, una delle più interessanti è stata indubbiamente il dadaismo. Il dadaismo viene raramente menzionato. Si è, in un certo modo, autoconsumato, perchè non era possibile sostare a lungo, sinceramente, sulle posizioni di negazioni radicali, di una libertà affermata attraverso la dissoluzione aggressiva di ogni limite e di ogni ordine, di ogni valore convenuto e di ogni razionalità, non solo nell’arte ma, secondo l’istanza originaria, nella stessa esistenza individuale.
Nato a Zurigo, nel Cabaret Voltaire, il dadaismo si definì con un primo manifesto nel 1918 e prese subito la forma di un movimento, al quale aderirono vari scrittori e artisti, specialmente francesi. Il creatore del dadaismo fu però un romeno, Tristan Tzara, figura interessante e singolare che noi stessi conoscemmo personalmente. Quanto alla designazione – «Dada» – veniva dichiarato che essa non voleva dire nulla – oppure tutto. Doppia affermazione in russo e in romeno, era il simbolo di uno sguardo pel quale tutto è simile e tutto è senza simile, della assolutezza irrazionale della vita allo stato puro, da attivare in forme che, attraverso la contraddizione, l’incoerenza e l’assurdo, facessero saltare ogni sovrastruttura. «Dada è un microbo vergine» – è una espressione di Tzara. Nato «in chi ha conosciuto i brividi del risveglio», esso «è la semplice attività, l’impossibilità di discernere tra i gradi della luce».
«Vi è un grande lavoro distruttivo da compiere – dichiarava il manifesto Dada del 1918 – spazzar via, ripulire. La purezza dell’individuo si afferma dopo lo stato di follia, di una follia aggressiva, completa, senza scopo, né disegno, senza organizzazione…»

«Demoralizzare dappertutto, è gettare la mano del cielo nell’inferno, gli occhi dell’inferno nel cielo, ristabilire la ruota feconda di un circolo universale nelle potenze reali e nella fantasia di ogni individuo». «Ciò che vi è di divino in noi, è il risveglio dell’azione antiumana», per umano qui intendendosi ogni sentimentalismo, ogni debolezza, ogni costruzione intellettualistica o sociale. «Noi cerchiamo la forza dritta, pura, salda, unica, non cerchiamo nulla, affermiamo la vitalità di ogni istante» – si soggiungeva. La dissoluzione, l’anarchia, la contraddizione qui valevano, dunque, sia come pietra di prova («i forti della parola e dell’azione sopravviveranno»), sia come un metodo.
La caratteristica del dadaismo era tuttavia di lasciar cadere le forme romantiche della ribellione, di passare a forme drastiche, paradossali e fredde di negazione. Così non ci si peritava di proclamare: «Dada lavora con tutte le forze alla instaurazione dell’idiota dappertutto, ma coscientemente. Dada è terribile: non si intenerisce sulle disfatte dell’intelligenza». E se si chiedeva perchè, alla fine, ci si dava da fare, si scriveva, si affermava qualcosa, la risposta era: «Per mostrare che si possono fare le cose opposte insieme, in un fresco respiro. Sono contro l’azione, per la continua contraddizione, ma anche per l’affermazione, non sono né per una cosa né per l’altra, e non spiego nulla». Ci si portava, su tale linea, sino in fondo. «Se vi è un sistema nella mancanza di sistema – scrive Tzara – io non lo applico mai. Il che vuol dire che io mentisco. Mentisco applicandolo, mentisco non applicandolo, mentisco scrivendo che mentisco perchè non mentisco». Così si era coerenti nel dire che «i veri Dada sono contro Dada», che tutto è Dada, e che proprio nell’identificarsi a ciò che vi è di più banale e di più geniale sta la eccezionalità e la genialità. La libertà, «l’urlo dei colori contratti, l’abbraccio dei contrari e di tutte le contraddizioni, dei grotteschi, delle inconseguenze – la Vita» – era ciò che il dadaismo annunciava.

Così non si trattava di lanciare un’arte nuova in senso proprio: futurismo, cubismo e simili, dai dadaisti venivano considerati come delle accademie,e derisi. L’arte valeva ai dadaisti come uno strumento per ironizzare, sconvolgere, turbare o evocare un elemento caotico o astratto. Donde espressioni in poesia e in pittura, che se per un verso anticiparono l’arte astratta, dall’altro mettevano in atto il metodo dell’assurdo. Come un quadro dadaista Picabia espose una riproduzione della Gioconda con un paio di baffetti aggiunti. Una demonia dell’elementare e del caotico pervadeva le xilografie in bianco e nero di Hans Arp. Un poema dadaista consistette nella semplice ripetizione, in tutta una pagina, della parola:«Urla». Un altro, in parole mescolate ad operazioni aritmetiche. Ecco la ricetta per fare un poema dadaista:«Prendete un giornale, delle forbici e scegliete un’articolo avente la lunghezza che intendete dare al vostro poema. Ritagliate l’articolo e poi, accuratamente, tutte le parole che lo compongono. Mettete i ritagli in un sacchetto. Agitate dolcemente. Estraete ogni parola l’una dopo l’altra. Copiatele coscienziosamente, nell’ordine in cui sono uscite dal sacchetto. Il poema vi rassomiglierà – ed eccovi uno scrittore infinitamente originale e di una sensibilità squisita, benchè non ancora compresa dall’uomo comune». In ciò vi era, naturalmente, una presa in giro – ma anche qualcosa in più. Paradossalmente, si voleva dire che, nella libertà assoluta, ci si può ritrovare dappertutto, e sul piano estetico si può esser in grado di animare perfino le associazioni più casuali e caotiche, portando al limite ciò che i simbolisti francesi avevan chiamato la «alchimia del verbo». Ma anche strani momenti di illuminazione non esularono da alcune composizioni dadaiste.
Come dicemmo, su posizioni simili non era possibile sostare a lungo. Esse, di rigore, non ammettevano un «poi», ma o un far la fine di Nietzsche, o un gettarsi allo sbaraglio, smettendo di scrivere, vivendo semplicemente, come fece un Rimbaud. Il dadaismo si bruciò, e si dovette passare a qualcosa d’altro. Il cosiddetto «surrealismo» derivò in buona misura dal dadaismo, prendendo però una via problematica: s’interessò alla psicanalisi, si volse verso l’inconscio e scambiò per delle aperture verso l’alto, forme regressive di mero associazionismo mentale e sensazioni confuse dello strano e dell’inquietante destate con la tecnica dell’incoerente. Poeti, come l’Aragon, il Soupault, il Bréton, che avevano già aderito al dadaismo, oggi si sono fatti un nome e sono rientrati più o meno nella normalità. Tristan Tzara si è ritirato dalle scene. Quanto nel secondo dopoguerra è apparso di analogo al dadaismo, in quadri diversi, è un fenomeno assai più di superficie, attesta più una rinuncia e un collasso che non una forza eruttiva e quel radicalismo che in certi casi, dopo la dissoluzione, potrebbe perfino avviare verso una trasformazione positiva dell’essere.