di Adriano Romualdi
tratto da “Il Conciliatore”, marzo-aprile 1970. Ora su www.rigenerazionevola.it
Contestazione controluce
Il movimento studentesco è ormai divenuto il fenomeno caratteristico di questa fase senile della democrazia italiana. Vale perciò la pena di tentare alcune osservazioni generali su di esso, osservazioni politiche, culturali e sociologiche.
Le virgolette apposte a questa denominazione vogliono ricordare che il «movimento studentesco» raggruppa solo un’esigua parte di tutta la popolazione universitaria italiana. È un fatto però che la gran maggioranza è perfettamente apatica e passiva, sì che questa minoranza si pone come la punta avanzata della confusione, del traviamento e della mistificazione dilaganti in tutto il mondo giovanile.

Da questo punto di vista, il movimento studentesco è veramente rappresentativo della gioventù italiana: non perché ne incarni l’aspirazione a una scuola più funzionale e moderna (questa è, in fondo, una rivendicazione secondaria nella, fantasiosa, tematica del «movimento»), ma perché documenta la profondità a cui è penetrata in animi immaturi un tipo di retorica sinistrorsa diffusa dalla televisione, dal cinema, dalle grandi case editrici, da tutte le centrali ideologiche occulte accampate nel cuore del sistema.
Già qui emerge una caratteristica fondamentale del «movimento», la sua inautenticità – a parte l’autenticità della rabbia, dello scontento, delta violenza dei suoi elementi più validi. Poiché tutta questa protesta non è, in fondo, che la stessa «protesta» degli intellettuali foraggiati, degli editori miliardari, degli attori e delle attrici piene di vizi e di danaro.
Il problema che il movimento studentesco ci pone è quello d’una contestazione contro un sistema che, in ultima analisi, simpatizza col contestatore; e, insieme, quello del perché la «contestazione» si inserisca nella retorica democratica del sistema anziché urtarsi contra di essa.
Riforma universitaria o carnevale ideologico?
Il primo punto da stabilire è che la «contestazione» studentesca non mira a una semplice riforma universitaria, ma, piuttosto, a un certo tipo di agitazione politica e ideologica. Un esame, anche superficiale, della sua tematica, ce ne convincerà.
«Potere studentesco» é la parola d’ordine con cui i comunisti e i loro utili idioti hanno cominciato ad occupare le università italiane dal principio del ’68. Uno slogan chiaramente ricalcato su «potere negro», e, infatti, uno dei grotteschi «contro-corsi» verteva appunto sul black power, mentre altri ne seguivano sulla rivoluzione culturale cinese, sull’agricoltura cubana, sui benefici delta droga e sui rapporti tra «repressione sessuale e autoritarismo». All’interno delle facoltà grandi scritte assicuravano che «VietCong vince» o invitavano a nuotare can Mao. Le facce, le barbe, gli abiti, non lasciavano dubbi sulla sostanza dei «contestatori»: era la razza marxista, quale Malaparte l’ha descritta in alcune notevoli pagine di Mamma marcia, «la razza marxista che aveva ormai invaso l’Europa, venuta chissà da dove, col suo odore di carne sporca, di ascelle sudate, di capelli sporchi» .
«Potere studentesco» é una grossolana formula demagogica can cui i comunisti tentano di speculare sui gravi scompensi che affliggono le università italiane. Basti pensare che l’università di Roma, una delle più splendide opere del fascismo, fu costruita per 10.000 studenti nel 1936, e oggi, trent’anni dopo, ne vede pigiati più di 80.000. Che dappertutto in Italia mancano aule, biblioteche, laboratori, che il numero degli insegnanti é insufficiente, che molti professori – i «baroni delle cattedre», come li si é chiamati – si recano in facoltà un paio di volte l’anno, come i grandi papaveri della politica, con Moro in testa.
D’altronde, è evidente che la via della riforma universitaria non passa per l’università di massa richiesta dagli occupanti contro una ipotetica «scuola dei padroni». Il problema dell’università sta proprio nel fatto che essa é diventata di massa; di qui le attrezzature insufficienti, di qui anche «l’autoritarismo accademico», cioè l’impossibilità d’un contatto umano tra l’insegnante e il troppo grande numero d’allievi. I paesi esenti da questi mali, la cui organizzazione universitaria potrebbe servirci da modello, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, non hanno certo l’università di massa, ma un’università abbastanza qualificata e d’elite.
In Inghilterra, in America, prevale il tipo dell’università college, dove gli studenti abitano e vivono per il périodo degli studi in contatto con gli insegnanti. E’ chiaro che questa università é l’università d’una minoranza.
C’è però una gran quantità di scuole che danno una preparazione tecnica, professionale, linguistica e che mettono in grado di trovare subito un impiego senza inseguire per anni «il pezzo di carta». Un ammodernamento del sistema degli studi non va inteso nel senso d’una ulteriore massificazione dell’università – col relativo ingigantimento delle disfunzioni burocratiche – ma nel senso d’una qualificazione e d’un snellimento delle strutture universitarie. Costruire università veramente moderne – questo é importante – ma ancor più importante é creare una quantità di nuove scuole dove si insegnino cose utili e pratiche, dove si acquistino rapidamente quelle cognizioni professionali necessarie a una società che va ampliando le sue basi scientifiche e commerciali. I problemi della scuola e dell’università italiana non si [possono] risolvere con quella mentalità demagogica che vuole appianare, aprire tutte le porte a tutti.
Lo si é già visto nel caso della scuola media: si è rovinata la vecchia scuola media abbassandone la qualità, senza con questo creare qualcosa di nuovo. E’ vero che il nostro tipo di istruzione é essenzialmente d’élite, inadatto alla crescita vertiginosa della popolazione scolastica. Ma questo non significa che si debba appiattire il nostro ottimo sistema d’istruzione – capace di dare una vera cultura, e perciò anche una comprensione sintetica della complessa vita moderna – per creare organismi ibridi e elefantiaci. Non si ammoderna un elegante villino a due piani costruendoci sopra dieci piani di cemento, a rischio di farlo crollare, ma si costruisce lo stabile di cemento accanto.
Questo però presume una mentalità pratica e non demagogica. Presuppone la coscienza che un certo tipo di cultura superiore deve restare, proprio perché esista ancora qualcuno capace d’orientarsi nel crescente dedalo degli specialismi, qualcuno capace con una capacità di sguardo sintetico e attitudini direttive. Ma, accanto, si devono moltiplicare scuole, istituti, laboratori, da cui escano i tecnici di domani, perfettamente istruiti ed addestrati per i mille compiti particolari della vita moderna. In Inghilterra, che é sempre stata uno dei paesi più pratici del mondo, l’università é ancora istituto d’élite. Ma esiste tutta una quantità di istituzioni e indirizzi per chi voglia avviarsi a compiti tecnici, pratici e rapidamente retribuiti.
Ma tutto questo gli attivisti del « movimento studentesco» non lo vogliono. Essi sono contro l’università di «classe», cioè vogliono un’università ancora più opprimente, elefantiaca e massificata. Vogliono la soppressione dell’esame, cioè l’esautoramento di ogni controllo che possa portare a una selezione. Esattamente il contrario di quello che avviene nei paesi del blocco sovietico, dove la scuola è serissima e la selezione rigidissima. Vogliono una «nuova cultura », che all’esame dei fatti si rivela quella ormai vecchissima rigovernatura di marxismo, sessualismo, razzismo negro e giallo quotidianamente propinatoci dalla stampa e dalla televisione. Vogliono una «nuova sociologia», che é poi la vecchia sociologia francofortese degli ebrei Marcuse e Adorno, cacciati e ridicolizzati dai nazisti trentacinque anni or sono.
Vogliono il «potere studentesco», ossia la dittatura di quella esigua frangia di studenti rosi dal marxismo che introduce nelle università la demagogia permanente e impedisce quella selezione dei quadri, quell’approfondimento degli studi, che sono garanzia di maggior serietà nella vita pubblica e di una maggiore efficienza nazionale.