tratto da www.dagobertobellucci.wordpress.com
di Carlo Terracciano
Assieme allo scritto in cui Carlo Terracciano ha rappresentato il punto di vista del gruppo di Ar sulla rivoluzione islamica iraniana, ci è pervenuto un ‘manifesto’ composto da un gruppo di giovani Lettori che si firmano Jamshid (dal nome di un eroe civilizzatore dell’antico Iran, assimilato dalla tradizione islamica aire-profeta Sulaymàn). Lo pubblichiamo in fronte all’articolo di Terracciano perché, secondo noi, qui svolge con maggior efficacia la sua funzione: di proemio ispirato che introduce a una scrittura entusiasta per suscitare una lettura ‘appassionata’. Secondo noi… Infatti, non abbiamo perduto né il pelo (incanutito, se mai), né il vizio: di preferire il fervore (per non dire il ‘fanatismo’) all’entropìa dei sentimenti.
«Ho pregato Dio di illuminarmi ed Egli, nella sua infinita bontà, mi ha fatto ricordare le carovane verso la Città Santa… Ti ho visto popolo mio, mentre preparavi al mio comando il tuo pellegrinaggio» (Da Cittadella, CXCIX, di A. De Saint-Exupéry).
«In nome di Dio Clemente e Misericordioso»… e parole ripetute da ben oltre un millennio dall’alto dei minareti o nel chiuso delle moschee acquistano nuova vita, corrono lievi su montagne aspre e riarse pianure, oltrepassano continenti ed oceani, varcano le inutili frontiere segnate dalla cupidigia dei potenti, come un vento dapprima quasi furtivo, impercettibile che poi cresce e si rafforza e prorompe alfine; vento furioso dei deserti che solleva i milioni di granelli di sabbia da tanto tempo immoti nell’ardore incandescente del giorno, nel gelo lunare di una notte troppo lunga. Un gigante si ridesta dal sonno secolare e l’urlo liberatore di tutto un popolo, di milioni e milioni di uomini e donne si fonde con quello furioso del deserto ed erompe negli immensi viali di Teheran, per gridare al mondo intero, sorpreso ed attonito, la lieta novella del più grande evento storico di questa seconda metà del XX secolo che già prepara l’imminente avvento del Terzo Millennio degli altri popoli del mondo: l’Islam è risorto!
«Allah akbar» si inneggia oramai dal Marocco all’Indonesia, da un capo all’altro del globo. E scandendo questo grido di battaglia che è anche professione di fede e rivendicazione di una ritrovata identità totale con la propria tradizione, milioni e milioni di combattenti si pongono in marcia, pronti ad affrontare con gioia il martirio, per attuare quella Rivoluzione Tradizionale, quella restaurazione di Valori eterni per i quali altri milioni di soldati d’Europa e d’Asia immolarono la vita nel più grande olocausto bellico di tutti i tempi.
Stessa la mèta finale, stesso lo spirito di sacrificio che animò ed anima popoli tanto lontano e differenti tra loro.
«O voi che professate la religione ebraica, se pretendete di essere gli amici di Dio a esclusione di tutti gli altri, invocate la morte: vedremo se siete sinceri! » (Corano, Giorno di riunione religiosa, LXII, 6).
E stessi infine i nemici di sempre, quelli plurimillenari di tutte le genti. Dietro il materialismo ateo e consumista, il modernismo disgregatore delle naturali differenziazioni e specificità etno-culturali, dietro il Grande Satana dell’imperialismo monopolistico d’oltre oceano, il razzismo dei figli d’Israele, il Sionismo cosmopolita e mondialista regge le fila del complotto mondiale dell’oro contro il sangue, dei padroni della terra contro i popoli schiavi del vitello d’oro. Di esso il fanatico nazionalismo militar-religioso dello ‘stato’ israeliano non rappresenta che la minacciosa punta di un iceberg affiorata nel mare di sabbia di una terra che non gli appartiene.
Ma come è stato possibile tutto questo rinnovamento? Chi ha potuto scuotere dalle fondamenta l’arrogante tracotanza dei padroni, rovesciare troni apparentemente invincibili, spargere il terrore tra i falsi profeti della sventura e della sottomissione incondizionata, strappare la maschera ai vili e ai satrapi che, prezzolati agenti delle banche e trusts internazionali, comandano le rispettive masse abbrutite da secolare miseria e modernis-simo lusso?
«Abbiamo mandato i nostri messaggeri con la prova e abbiamo fatto scendere con loro il libro e la bilancia, di modo che essi possano instaurare la giustizia tra il popolo» (Corano, II ferro, CLVII, 25).
A scorno dei «dotti» sociologi e politologi che discettano sull’universo mondo eternamente sbugiardati dagli accadimenti del giorno dopo, a dispetto degli intellettuali impotenti e ipercritici che vendono i loro servigi al potente di turno per avallare lo sfruttamento interno e internazionale dei propri paesi, ancora una volta nella storia un uomo si è fatto voce del proprio popolo intero, dell’ Umma, della comunità dei credenti e della tradizione degli avi. «È il capo che fa la differenza tra un popolo e un branco». Una Volontà si è imposta dopo anni e anni dì carcere, di esilio, di persecuzioni, per guidare la sua gente sulla via del riscatto virile, della presa di coscienza, della mobilitazione totale nella lotta alla corruzione in terra; corruzione occidentalista che era stato il cavallo di Troia per penetrare nel paese, sfibrarlo, incatenarlo al carro trionfante dell’«american way of life». Egli invece l’ha lanciato nella Jìhàd, nella Santa guerra dei Giusti contro gli oppressori del mondo. Guerra esteriore ed interiore, guerra dell’Uomo Nuovo, rinnovato nello spirito e «iniziato» nel sangue, guerra terrena che si combatte anche in Cielo; guerra aperta, totale, assoluta, senza tregua o armistizio fino alla definitiva distruzione del Nemico fisico e metafisico dell’uomo. Guerra di popolo, quindi, guerra di Dio. Chi ha reso possibile tutto questo ed ha aperto i cuori alla speranza in tutto il mondo è Rùhollàh al Musavi al Khomeini, l’Ayatollah Khomeini, l’Imam del nuovo Iran che preannuncia con il suo avvento la fine di un ciclo di profezie e l’inverarsi dei testi sacri delle diverse religioni e della Tradizione Una.
Quando il 30 gennaio del 1979 e.v., dopo la fuga ignominiosa di uno scià che non seppe cadere in piedi ma abbandonò gli uomini che volevano salvargli il trono dall’ira popolare, il governo fantoccio del rinnegato Bakhtiyàr cedeva alla volontà della nazione e riapriva l’aeroporto di Teheran al ritorno di Khomeini, iniziava per l’Iran, l’antica «terra degli Arii», una esaltante avventura.
Questo popolo che si differenzia dagli arabi confinanti e per la specificità sciita della sua religione e per l’appartenenza etno-storica alla grande famiglia indo-europea, si incamminava verso il suo destino di sacrificio. Proprio come un 30 gennaio di tanti anni prima altri uomini avevano preso nelle proprie mani il destino della patria oppressa e dell’intera Europa. Una comunione storica che appare ancor più evidente se solo si pensi che cosa rappresentò quella rivoluzione nazionale anche per il mondo islamico di allora, rappresentato dal Gran Muftì di Gerusalemme e nelle divisioni S.S. mussulmane come nell’attesa dei liberatori antinglesi nel nordafrica. E non a caso già allora le potenze occidentali colonialiste, Gran Bretagna e U.S.A. in testa, imposero alla recalcitrante Persia lo scià Reza Pahlavi per stroncare i sentimenti filo-Asse della popolazione, come avevano abbattuto il governo iracheno di Raschid Ali.
Non a caso, ancora, gli stessi nemici e i loro servi prezzolati nel mondo lanciano al governo islamico di Teheran l’«accusa» di fascismo, di sterminare le minoranze, di antisemitismo ecc… ecc… Anche la guerra delle parole ha i suoi fronti, le sue vittorie e le sue sconfitte; accettare, da parte iraniana, la terminologia e le interpretazioni storielle dell’avversario sarebbe non solo autolesionistico ma oggettivamente una forma di collaborazionismo con il nemico.
«Non sono morti quelli che furono uccisi nel sentiero di Dio, questo dev’essere il tuo pensiero. Al contrario: essi vivono nel seno del loro Signore, non mancano di nulla» (Corano, La gente di Imràn, III, 169).
Quando il 1° febbraio del ’79 l’Ayatollà Khomeini scese dal ciclo di Teheran tra i milioni di seguaci in delirio, i quali avevano sfidato l’ennesimo coprifuoco per accoglierlo dopo quindici anni di esilio, si concluse una lunga fase rivoluzionaria, di persecuzioni e di massacri del regime, cominciata nel lontano giugno del ’63 con 15.000 vittime(!) quando il regime tàghuti dello scià imprigionò e poi costrinse all’esilio Khomeini, dapprima in Turchia e quindi in Iraq e Francia. Passò un decennio e mezzo di silenzio, di preparazione in patria e fuori, di studi e meditazioni, per giungere ai giorni gloriosi del ’78. Le prime vittime si erano avute nella città santa di Qom dove l’allora ventenne Khomeini aveva seguito l’Ayatollah Haieri, poi a Tabriz, Esfahan e quindi in tutto l’Iran. Dopo tanti anni un nuovo bagno di sangue (anche con la misteriosa morte in Iraq dell’amato figlio Mustafà), fino ad arrivare al «venerdì nero» di Teheran, quell’8 settembre (potenza dei ricorsi storici!) quando il mondo inorridito assistè al massacro premeditato di migliaia e migliaia di cittadini inermi falciati dal piombo di soldati, poliziotti, membri della famigerata Savak. I corpi insanguinati di uomini, donne, bambini ricoprirono letteralmente a strati la piazza Zàle, oggi ribattezzata in loro memoria Meidsn-e-Shohada (Piazza dei Martiri). Ma quando la rivoluzione è radicata nel popolo neanche le armi più sofisticate e la più aperta bestialità possono fermarla e già l’il novembre dello stesso anno nel giorno di Ashurà del mese di Moharram — giorno sacro agli sciiti che ricordano con processioni e pubbliche autoflagellazioni il lutto per la morte del terzo Imam Husayn nipote del Profeta, caduto a Karbela sull’Eufrate nel 680 e.v. (10 Moharram del 61 dell’Egira) — venti milioni di iraniani sfidavano il regime filo-americano al grido di «Allah akbar» occupando le strade e le piazze del paese intero.
Ad ottobre c’era stata la profanazione della moschea di Karman e l’insurrezione popolare di Hamedàn con il rogo della sede del partito di governo, il Rastàkhiz. A dicembre ci sarà l’occupazione dell’università, centro della resistenza islamica. Ma oramai sono gli ultimi colpi di coda di un regime morente: le feroci dittature plutocratiche affondano le mani nel sangue innocente quando sentono prossima la fine.
Oramai l’Iran sembrava un immenso carnaio: da Shiraz a Tabriz, a Mashad, Sanandag, Qazvin e in cento altre città e villaggi i combattenti della fede cadevano a centinaia. Ma ormai il giorno della liberazione era vicino e neanche l’estremo tentativo del rinnegato Shapur Bakhtiyàr poteva arrestare il corso della storia. Dal ritorno il 1° febbraio della Guida dei Credenti in seno al suo popolo, fino agli scontri e occupazioni dell’11 febbraio, la rivoluzione islamica trionfava (21-22 Bahman del 1357 dell’Egira). Era la «Decina di Fajr» (il passaggio dalle tenebre alla luce), la cesura di due epoche, i dieci giorni che sconvolgeranno il mondo futuro.
Ma non cessava per questo il martirio sia individuale che collettivo tra attentati e aggressioni imperialiste, fino ad arrivare all’invasione militare del regime ba’asista ateo di Bagdad nella «guerra imposta» che dura oramai da quattro anni. Tra i primi martiri ricordiamo le morti violente del presidente della Repubblica Rajai, del primo ministro Bahonar, degli Ayatollah Dastgheib, Madani e Mutaharri. Fino ad arrivare al 28 giugno 1981, quando nell’esplosione della sede del Partito della Repubblica Islamica furono martirizzati 72 fra i più alti dirigenti dell’Iran. Tutti questi delitti direttamente o indirettamente portavano la firma dei sedicenti Mojaheddin del popolo, l’organizzazione terroristica marxista agli ordini dell’imperialismo internazionale. Né si dimentichino quegli uomini di pensiero che già hanno sacrificato la vita in Iraq come l’Ayatollah M. S. Bagher e sua sorella, o gli esecutori di Sadat in Egitto, assassinati dopo un processo sommario e varie torture: Khaled Islamboli e i suoi quattro compagni.
La lotta contro il terrorismo interno, contro i nemici della rivoluzione talvolta camuffati da sostenitori e capi (è il caso di Bani-Sadr) è stata dura e ancor prosegue. Dai succitati Mojaheddin che sparavano alla gente per le vie di Teheran alla setta religiosa Bahài (i cui stretti legami con il neo-colonialismo e con il sionismo internazionale sono ampiamente documentati), fino all’eliminazione del partito comunista filo-russo Tudeh, senza seguito popolare ma pericolosissimo.
La propaganda occidentale e filo-americana che nei giorni della rivoluzione accusa Khomeini di fare il gioco dei comunisti e della Russia, per ingannare le credule destre reazionarie e conservatrici d’Europa e d’America, ha taciuto ancora una volta sbugiardata quando il nuovo Iran nazionale e rivoluzionario ha smascherato la congiura comunista del Tudeh sul proprio territorio. Ha taciuto di fronte alle schiaccianti confessioni autocritiche di colpevolezza spontaneamente fatte dal segretario stesso del partito comunista Nuroddin Kianuri, da Beh Azin e dalla dirigenza tutta: spionaggio e connivenza con l’Urss fin dall’origine, introduzione di armi, cospirazione segreta, infiltrazione nell’esercito ecc.
Nel frattempo si svolgeva la lotta per la liquidazione delle strutture del vecchio regime e, in particolare, l’occupazione dell’ambasciata americana, il «covo di spie» da cui partivano tutti i fili cospirativi per la controrivoluzione capitalista. Dal 4 novembre ’79 i giovani studenti rivoluzionari dell’Iran appoggiati dalle masse popolari tennero in scacco per ben 444 giorni l’arroganza della più armata potenza del mondo, nonostante il fallito blitz nel deserto di Tabas voluto da Carter e nel quale sembrò veramente che un intervento non umano avesse confuso e disperso gli invasori che si uccidevano tra loro.
Né la lotta dell’Iran in tutte le sue componenti etnico-religiose si arresta qui. Il nuovo Iran ha creato le strutture rivoluzionarie del Nuovo Ordine. Esse, pur nella specificità di una repubblica islamica sciita di espressione duodecimane (i Dodici Imam), sono oggi d’esempio a tutti quei paesi (islamici e non) che vorranno seguire l’esempio della via iraniana alla liberazione nazionale. La Costituzione stessa della Repubblica Islamica dell’Iran varata il 30-31 marzo 1979 riconosce a tutti i popoli il diritto all’indipendenza, alla libertà, ad un governo di giustizia. All’ari. 154, l’Iran «mentre si astiene dall’intervento interno nelle questioni degli altri popoli, appoggia le lotte degli sfruttati di tutto il mondo». E non è stato forse lo stesso Imam a dire: «La democrazia è l’occidente. Noi non vogliamo saperne dell’occidente e della sua anarchia»? E l’occidente è contro l’Europa come contro l’Islàm e il mondo intero. L’Iran rivoluzionario ha costituito l’Assemblea Nazionale e il Sistema dei Consigli (di villaggio, di circoscrizione, di città, di provincia, di regione); una repubblica dei consigli nella fede in Dio. Ma soprattutto la figura del Capo della rivoluzione, di un Faqih o, in mancanza, di un Consiglio di Vigilanza e di Faqih, sempre in attesa dell’avvento del Mahdi che segna la fine del ciclo e l’avvento di una nuova età dell’oro, nell’interpretazione islamica del termine. Una «reggenza» insomma in attesa del Sovrano Universale. Attraverso i vari organismi la partecipazione diretta del popolo è assicurata al di fuori della democrazia partitocratica e contro di essa espressamente.
È dunque l’istituzionalizzazione dell’unica rivoluzione tradizionale della seconda metà del XX secolo, condotta (per usare le categorie weberiane) da una figura carismatica; questo per mettere in pace anche i pappagalli dei mass-media internazionali che spiano la salute di Khomeini nella speranza che la sua scomparsa ripiombi l’Iran post-komeinista nel caos e nell’abiezione del passato. Perché quello che più temono gli imperialisti americani, i neo-colonialisti russi, il sionismo internazionale e israeliano, i governi corrotti e succubi dei vari paesi arabi e tutti i servi dell’imperialismo delle multinazionali, di Wall-Street e della City, è l’esempio che l’Iran può rappresentare per tutti i popoli. Perché questo paese sta dimostrando giorno per giorno con la sua sola esistenza che si può vivere liberi, senza la «protezione» americana per non cadere nelle braccia dell’orso moscovita, anzi combattendoli entrambi ovunque. L’esempio iraniano come quello della resistenza afghana sono un quotidiano affronto alle due superpotenze che ricattano il pianeta con il terrore atomico. Già l’esempio di una religione che impugna le armi e si fa etimologicamente rivoluzione, per re-volvere alle proprie origini andando avanti nella lotta alla conservazione dello status quo è per esse sconvolgente. Il Verbo komeinista dilaga oramai in Medio Oriente, in Libano, in Egitto, in nord-Africa e nell’intero continente nero. Deborda dagli stessi confini islamici com’è esempio la coraggiosa rivolta dei Sikh nell’India modernizzante e dittatoriale della Gandhi, mette in fermento popoli che sembravano scomparsi dalla storia dell’umanità: Armeni, Curdi’ di Iraq e Turchia, i 55 milioni di mussulmani sottoposti a Mosca nel centro dell’Asia. Queste sono le vere bombe e mine islamiche! L’esempio creativo dell’Iran d’oggi è anche ben visibile da quelle istituzioni che assicurano la continuità rivoluzionaria contro ogni riflusso moderato: ci riferiamo a organismi quali l’esercito dei «Guardiani della Rivoluzione Islamica», la «Mobilitazione dei Diseredati», la «Fondazione dei Martiri», la «Jìhàd della Ricostruzione» ecc.
«Quelli che credono e che alla fede fanno seguire le opere, li faremo andare hi compagnia dei Giusti» (Corano, Al ‘Ankabutu, XXIX, 9).
Gli oramai mitici Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione che anche nel nome evocano l’ideale di Platone (Maestro conosciuto e stimato da Khomeini), sono la milizia armata che, agli ordini della Guida dei Credenti e delle autorità, più direttamente rappresentano gli ideali rivoluzionari, difendendoli con le armi in pugno da ogni aggressione interna o esterna e diffondendoli con l’insegnamento e l’esempio del loro stile di vita. Il contributo di sangue che per esempio hanno pagato per arrestare con i loro corpi l’invasione irachena del settembre 1980 è altissimo. Pupilla della rivoluzione, di loro l’Imam ha detto: «Se non vi fosse stato l’esercito dei Guardiani, il paese così com’è oggi non sarebbe esistito». Il futuro del paese è nelle mani di questo corpo d’elite militare e politico, di questi giovani soldati rivoluzionari la cui unica divisa è la fascia alla fronte che fa di loro, come dei kamikaze giapponesi della II guerra mondiale, i votati al martirio. Mano sul cuore nel giuramento, mitra in spalla, occhi fissi oramai ad una mèta che è «oltre l’umano», l’esercito della rivoluzione avanza verso il suo Destino. Dietro di loro la «Mobilitazione dei Diseredati». Con questo organismo di 20 milioni di combattenti e lavoratori la dirigenza iraniana ha messo in campo il più grande esercito popolare del mondo. Ma non è il suo unico compito. Dopo le distruzioni della guerra e la dittatura il paese è sconvolto, sradicato dalle proprie tradizioni, da ricostruire materialmente e moralmente. Non dimentichiamo che l’Iran è ancora un paese fondamentalmente agricolo. La «Jfhad-e-Sazandegi», la Guerra Santa della Ricostruzione deve quindi partire dalla terra, dalle campagne. Miliziani rivoluzionari affiancano i contadini nel lavoro dei campi, nell’irrigazione, negli ospedali, nelle scuole per l’alfabetizzazione dei piccoli attraverso il Corano e gli scritti della rivoluzione. Tutto il mondo islamico ha gli occhi puntati su questi uomini. Sempre l’esempio è più valido di tanti discorsi: non diceva Josè Marti che «il miglior modo di dire è fare»?
Se il popolo non abbandona la Rivoluzione ma la difende e la vive giorno per giorno con il lavoro e il sacrificio, se la figura del martire è l’ideale supremo della nazione, il governo islamico non abbandona i suoi figli migliori e i loro cari a se stessi. La «Fondazione dei Martiri» aiuta moralmente e materialmente quelle famiglie rimaste prive di sostentamento per la scomparsa dei combattenti o per l’invalidità permanente che fa di loro «martiri viventi». Questi quindi possono esser certi che la loro morte non ridurrà in miseria genitori, mogli, figli. Certe volte d’altra parte si deve far forza sui familiari per far loro accettare questi aiuti; come dimostra l’esempio di quella madre che, pur nella povertà di una famiglia operaia e nel dolore del figlio morto in guerra, voleva a tutti i costi donare il bracialetto, una delle poche cose rimastele, a Khomeini (il cui ascetismo di vita è forse caso unico di un capo di stato vivente).
«I credenti maschi e femmine sono amici vicendevoli. Comandano il bene che si conviene e proibiscono il male, pregano e fanno l’elemosina e obbediscono al Dio e al suo Profeta. Ecco: a quelli farà Dio ben presto misericordia, poiché il Dio è potente e giusto» (Corano, Immunità o pentimento, IX, 71).
Una madre, una donna iraniana che avrebbe onorato le donne di Sparta antica. Perché uno dei maggiori successi del governo iraniano è stato proprio quello della liberazione della donna. Quelle donne che hanno contribuito non poco alla rivoluzione stessa seguendo e talvolta precedendo i loro uomini contro le bocche dei fucili della dittatura, spesso con in braccio i bambini piccoli. Giovani o anziane, colte o analfabete, donne dei villaggi o delle città, magnifiche donne dell’Iran moderno che con la loro quotidiana abnegazione, con l’educazione impartita ai figli, smentiscono nei fatti la vergognosa campagna propagandistica degli occidentali. Molto si è ironizzato (e ben si comprende a quali fini) sul chador come sulle sanzioni islamiche nei confronti del libertinaggio. Per le donne iraniane allora il chador è divenuto una bandiera di lotta rivoluzionaria, una vera bandiera di libertà nella tradizione. Sono ben lontani i giorni delle «bambole occidentalizzate», delle puttane di lusso dei quartieri alti di Teheran, della ricchissima borghesia compradora asservita agli interessi stranieri che aveva come esempio le mogli e le concubine dello scià e dei suoi dignitari. Donne imbellettate come ridicole meretrici di strada, vestite di sete preziose, di gioielli ogni cui goccia era stata cavata a forza dal sudore e dal sangue di donne e uomini dell’Iran. Le pupattole moderniste avevano come esempi le varie Soraya e Fara-Diba o Ashraf, trafficante internazionale di droga, la potente gemella di uno scià più noto alle cronache mondane dei rotocalchi che non alle pagine di una storia plurimillenaria che proprio lui ha contribuito ad affossare. La nuova iraniana di oggi ha gettato nell’immondizia (se mai poi li avesse posseduti e usati) i rossetti, le creme, i vestiti alla moda. Ha indossato il chador nazionale come una divisa militare, è scesa nelle strade, spesso mitra a tracolla, a fianco degli uomini (e chi non ricorda le immagini della rivolta sciita di Beirut con le stesse donne in chador e mitra?); è corsa nelle fabbriche, negli ospedali, negli uffici, nelle ambasciate, nelle scuole, nei campi, ovunque ci fosse bisogno di lei. La nuova iraniana ha sputato sulle false libertà offertele dal modello societario straniero: la libertà di droga, la libertà di aborto, la libertà di prostituirsi nel corpo e nell’anima, la libertà di dover scegliere per sfamarsi tra la catena di montaggio e il postribolo. I suoi modelli ideali sono Khadigè, Fatìma, Samiye la prima martire dell’Islàm, il suo carattere è quello duro delle antiche romane o della madre dell’ultimo califfo di Granada che apostrofò il figlio piagnucolante per la perdita della città: «Fai bene a piangere come una donna per quello che non hai saputo difendere da uomo!». Chador, mitra e computer: tradizione e vero progresso, rivoluzione e restaurazione dei valori della vita degni di esser vissuti. Solo una plurisecolare disinformazione e la menzogna possono aver fatto credere a noi europei che non sia questa la soluzione per il futuro del mondo. Ed oggi la famiglia iraniana è la più unita e felice del mondo perché cementata dalla prassi rivoluzionaria quotidiana, da un solo ideale di vita e di lotta, da una fede univoca e totale nell’Islàm rivoluzionano e nella sua Guida.
Intanto i capitalisti mondiali sbavano di rabbia impotente e temono per il futuro. Hanno perso infatti un grosso mercato potenziale per i loro prodotti consumistici e di lusso, per la loro pubblicità selvaggia, per spingere le donne prima e poi tutta la famiglia all’acquisto dei prodotti che hanno reso schiavi volontari miliardi di esseri. E se l’esempio delle donne dell’Iran dovesse diffondersi? Sarebbe la fine per loro! La guerra rivoluzionaria si combatte anche gettando nella pattumiera i rossetti e la Coca-Cola. Ma anche rifiutando ben altri e più direttamente mortali allettamenti. Dalla droga all’alcool, dal gioco d’azzardo nei casinò per miliardari annoiati che gettano in una notte sul tavolo verde la vita di centinaia di lavoratori, alla diffusione di una pseudo cultura fatta di musica negroide americanizzata, di moda americanizzata, di film e spettacoli televisivi americanizzati, di pornografia e depravazioni d’ogni sorta, tutto imposto dal Grande Satana d’oltre oceano per svilire e svirilizzare i popoli da dominare. Di tutto ciò il governo islamico dell’Imam Khomeini ha fatto un ricordo, un museo degli orrori per diletto e insegnamento alle generazioni future. I piani previsti ne I Protocolli dei Savi Anziani di Sion sembravano oramai completamente realizzati, ma la rivolta di un sol popolo ha sconvolto i figli d’Israele e ha rimesso tutto in causa.
Allora se denaro, corruzione, empietà nulla possono , l’imperialismo e il sionismo, come già nel 1939-40, passano alle vie di fatto dirette. Essi utilizzano intere nazioni come pezzi di una scacchiera e governanti folli d’ambizione come burattini tirati da fili invisibili. Ed è guerra!
«I Credenti combattono nel sentiero di Dio, e gli infedeli nel cammino di Tagut. Combatti dunque i partigiani di Satana e i suoi strattagemmi saranno impotenti» (Corano, Donne, IV, 78).
Il pomeriggio del 22 settembre 1980 il regime ba’asista dell’Iraq invade con dodici divisioni il territorio della Repubblica dell’Iran dopo che bombardamenti terroristici a tappeto hanno seminato la morte in molte città iraniane. Saddam Hossein crede di fare una passeggiata militare fino a Teheran e chiama l’invasione la propria «battaglia di Qadsiye», in ricordo di quella del 636 che, con Bassora nel 656, aprì all’invasione araba le porte della Persia. Ma si sbaglia.
Nonostante l’accordo politico-militare che lega Hossein all’Unione Sovietica, e l’appoggio americano, nonostante le armi francesi e il denaro e il petrolio di tutti i paesi arabi, nonostante i piani sionisti per fermare l’avanzata islamica verso Gerusalemme, nonostante l’ipocrisia dell’ONU e lo strapotere delle multinazionali, nonostante tutto e tutti, contro tutto e tutti, l’esercito e il popolo dell’Iran, guidati dalle avanguardie rivoluzionarie e dall’esempio dei martiri, hanno saputo fermare l’invasione, ribaltare la situazione e a quattro anni da quel giorno si combatte oggi sul suolo iracheno, non più la guerra d’aggressione di Hossein e della sua cricca di Takrit per conto degli egemonisti mondiali, ma la guerra di liberazione del popolo mussulmano dell’Iraq (la cui maggioranza è di espressione sciita), oltre che per la liberazione dei luoghi santi dello sciismo in quel paese arabo. La via per Gerusalemme passa per Bagdad.
A nulla sono serviti agli iracheni i ritrovati più sofisticati della guerra moderna: dalle armi chimiche usate contro ogni convenzione internazionale, ai missili francesi Exocet, ai Super-Etendard, ai bombardamenti di petroliere nel Golfo Persico per giustificare il coinvolgimento mondiale nella guerra e nel salvataggio del regime di Bagdad. Un popolo che ha saputo esprimere giovani che si lanciano attraverso i campi minati con al collo la chiave simbolica che apre le porte del Paradiso non poteva perdere. «Che si uccida o che si venga uccisi, in ogni caso noi vinceremo», ha detto Khomeini; «Alla nostra arma, ‘Allah akbar’, nessun altra arma del mondo si può opporre».
Un simile popolo non può essere sconfitto: anzi ha già vinto, dimostrando ancora una volta nella storia che una piccola nazione unita riesce a tener in scacco le nazioni più potenti della Terra. I padroni del mondo, i governi imperialisti e i loro scherani conoscono bene questa lezione, ma mai abbastanza da non riprovarci. «L’infezione iraniana» — dicono — «non deve diffondersi!». C’è ben altro in gioco che non il regime di un Saddam Hossein. Ed è infatti la prima volta, dalla sconfitta della Germania nazionalsocialista nel ’45, che tutte le superpotenze mondiali, i plutocrati e i marxisti di tutto il mondo, re e presidenti, dittature e democrazie si trovano d’accordo nell’arrestare la marcia trionfale dell’Iran di Khomeini. I sionisti e gli ebrei di New York e Tel Aviv, di Londra e di Mosca ben sanno che l’Imam ha proclamato l’ultimo venerdì del mese di Ramadan, «giornata mondiale di Ghods», di Gerusalemme finalmente libera. Del resto «fin da principio il movimento islamico venne tormentato dagli ebrei, i quali diedero inizio alla loro attività reattiva inventando falsità circa l’Islàm, attaccandolo e combattendolo. Ciò è continuato fino ai nostri giorni» (Khomeini).
I capitalisti yankee hanno già sperimentato sulla loro pelle l’ira del popolo islamico dell’Iran e del resto dei paesi mussulmani. L’avventura libanese costò cara al popolo americano che dovrebbe oramai rendersi conto che l’epoca del colonialismo delle cannoniere, comunque mascherato, è finita per sempre. Gli autisti suicidi di Beirut che si immolarono sui carri-bomba, il sorriso sulle labbra come novelli kamikaze, si affiancano idealmente ai giovani immolatisi sul fronte iracheno. Per questo ora gli americani preferiscono utilizzare anche le loro truppe coloniali europee, a Beirut come a Suez. In questo tristo mercato di carne umana il governo collaborazionista dell’Italia è in prima fila per fornire carne da cannone alla politica estera USA, garantendosi con tale moneta di scambio la sopravvivenza politica e fisica all’ombra delle baionette americane.
Ancora: se Washington piange, Mosca non ride! Dal Caucaso all’Asia Centrale già 55 milioni di Mussulmani (con un tasso di natalità del 2,8% contro lo 0,8 del resto della popolazione) guardano verso Teheran, a cui li legano vincoli religiosi e storici. Il tempo lavora per loro e contro i nuovi zar rossi del Kremlino. Ma dove lo scontro è già in atto da anni, in Afghanistan, i russi assaggiano l’anticipo di una guerra religiosa e di liberazione nazionale. I Mujaeddin afghani, armati di poco, talvolta solo di vecchi fucili arabescati dell’800, ma di una fede incredibile, tengono in scacco l’esercito più numeroso e agguerrito e i pochi soldati che ancor non hanno disertato dai vari governi fantoccio marxisti tenuti in piedi da Mosca. Un milione di afghani hanno trovato rifugio e protezione nei confini dell’Iran. Impegno questo su cui la stampa internazionale tace accuratamente (come già tacque i primi rovesci iracheni). E tutto ciò, si tenga conto, in un paese già povero di suo e in guerra sul fronte occidentale. La solidarietà islamica ha preso a funzionare e darà ben presto i suoi frutti: frutti amari per i colonialisti vecchi e nuovi.
Troppo a lungo il marxismo mondiale ha strumentalizzato a prò suo la giustissima ambizione all’indipendenza e libertà nazionale del cosiddetto Terzo Mondo e solo per imporre a quelle genti una dittatura ancor più brutale di quella appena scrollatasi di dosso. È l’ora della resa dei conti! L’appoggio moscovita alla guerra di Saddam Hossein può procrastinarla solo di poco. L’impero russo, vero gigante dai piedi d’argilla, sente scricchiolare sempre più le mura di quel carcere dei popoli creato in quasi 70 anni. Solo la connivenza-concorrenza con l’imperialismo fratello dei selvaggi civilizzati, dei bovari americani, può ancora dare qualche freccia alla propaganda guerrafondaia camuffata di ideologismi.
Ancora una volta i due vampiri che si sono spartiti le spoglie d’Europa e del mondo a Yalta, si sostengono a vicenda e si autogiustificano in un ben concertato gioco delle parti.
Ma è proprio in considerazione di ciò che l’esperienza accumulata dalla rivoluzione islamica dell’Iran può rivelarsi preziosa per noi europei, italiani in particolare, e per tutti i popoli amanti della libertà e della pace, e della libertà più della pace. Per tutti coloro insomma che hanno capito come USA e URSS, banche e multinazionali, partiti e sindacati con la benedizione papale, stiano trascinando il mondo sull’orlo del baratro pur di salvar se stessi. L’Iran, questo Stato di Platone del XX secolo, rappresenta sempre più un punto di riferimento obbligato. Anche il ricatto nucleare non «rende» più come una volta; al contrario, spinge i popoli a sottrarsi al ruolo di carne da macello a cui le due superpotenze li hanno destinati. I viaggi propagandistici dei vari papi poi e gli appelli alla moderazione (cioè alla conservazione) di tutte le chiese cristiane fanno sempre meno presa, mentre sempre più chiaro si delinea il cinismo che li sottende. «La moderazione è un’altra di quelle parole che amano usare gli agenti del colonialismo, i quali sono moderati come tutti coloro che hanno paura o che pensano di tradire in qualche modo. Il popolo non è affatto moderato», diceva Ernesto Che Guevara. E se certi moderati «pastori di anime» invece di intervenire in difesa degli interessi americani in Iran avessero agito nel proprio paese d’origine con la stessa determinazione dell’Imam Khomeini nel suo, oggi un’altro popolo sarebbe in grado di raccogliere dal fango la bandiera nazionale della crociata contro l’ateismo marxista e l’occupazione straniera.
Può allora l’esperienza iraniana essere esportata?
«Combattano dunque la buona battaglia nel sentiero del Dio, coloro che scambiano la vita in questo mondo contro quella dell’aldilà. A chiunque avrà combattuto la buona battaglia nel sentiero di Dio — che sia stato ucciso o che abbia ottenuto la vittoria — daremo ben presto una grandissima ricompensa» (Corano, Donne, IV, 74).
L’eterno quesito della storia si ripete. Che fare? Certo, non ci facciamo illusioni sul fatto che un paese non mussulmano (e neanche… ‘cristiano’) come il nostro, possa seguire l’insegnamento di Khomeini e l’esempio dei martiri della fede. Altre latitudini, altre fedi e soprattutto, hainoi, altri popoli…! Eppure se si sfronda l’insegnamento di quella rivoluzione dalle contingenze e dalle specificità sue proprie, rimane quanto basta per indirizzare nella giusta direzione gli sforzi delle avanguardie rivoluzionarie. L’Iran ha aperto il terzo fronte; il fronte di quei popoli che, lanciati alla riscoperta delle proprie specifiche radici etniche e culturali, hanno saputo fondere tradizione e rivoluzione, hanno ri-scoperto la sostanziale unità di queste in una Rivoluzione Tradizionale planetaria che ha ben pochi termini di paragone nella storia dell’uomo.
Altrove abbiamo tracciato le linee essenziali, tattiche e strategiche, di politica interna ed internazionale che ci proponiamo a modello.[*] Qui basterà sottolineare quale importanza rivesta per noi il superamento dei vuoti ideologismi che gli stranieri dell’est e dell’ovest ci hanno imposto per dividerci e meglio asservirci. Il materialismo, sia esso marxista o consumista americano, è una stessa moneta con due facce: se la moneta è falsa una delle facce vale quanto l’altra, e tutte e due servon solo ad ingannare la buona fède di chi spende in loro nome per arricchire i falsificatori e truffatori di tutto il mondo.
Ma prima ancora la guerra rivoluzionaria va combattuta all’interno, fra il popolo, mobilitandolo attorno ai temi reali e vitali — e non come accondiscendente retroguardia ma come avanguardia cosciente. Né indietro né troppo avanti per non perdere il contatto con le masse popolari e la realtà. Ancor prima la Grande Guerra Santa è da combattersi, con l’esempio quotidiano, in se stessi. «L’autentico individualismo significa tutto l’individualismo al servizio assoluto di una comunità». È sempre Che Guevara a ricordarcelo. E non è forse questo l’ideale dell’uomo integrale già lodato da Platone per bocca di Socrate? «La più grande lotta» insegna il platonico Khomeini «è quella di cercare di spezzare le catene che ci legano al mondo, uccidendo in noi l’amore per le cose terrene… Gli agenti dell’imperialismo hanno paura dell’Uomo, nella vera accezione della parola».
E allora per combattere l’imperialismo bisogna farsi prima di tutto uomini; uomini totali, uomini cioè che pur agendo in questo mondo, ne sono già oltre con il desiderio e la volontà. Solo chi avrà saputo veramente uccidere il mondo in se stesso potrà conquistare la Terra intera.
Se il «potere è l’obiettivo strategico sine qua non delle forze rivoluzionarie e tutto va subordinato a questo grande compito», Guevara aggiunge che «il soldato guerrigliero dev’essere un asceta». E non è solo singolare coincidenza che quello che uno dei più grandi asceti-guerriglieri della storia moderna ha teorizzato e personalmente vissuto, la rivoluzione iraniana lo viva e lo pratichi quotidianamente. Ciò è valido sempre e sotto tutti i cicli. Chi non ha più desideri personalistici, ambizioni materiali e mondane, chi non teme né la morte né, peggio, la vita cosa può perdere, nella lotta se non le proprie e altrui catene? Come fare? Ce lo dice ancora Che Guevara: «La nostra libertà e l’azione quotidiana che la sostiene hanno il colore del sangue e sono sature di sacrificio. Il nostro sacrificio è cosciente, è la quota per pagare la libertà che costruiamo. Il cammino è lungo e in parte sconosciuto; conosciamo i nostri limiti. Faremo l’uomo del XX secolo: noi stessi. Ci forgeremo nell’azione quotidiana, creando un uomo nuovo con una nuova tecnica. La personalità ha il ruolo di mobilitazione e direzione, poiché incarna le più alte virtù ed aspirazioni del popolo e non si allontana dalla giusta rotta. Chi apre la colonna è il gruppo d’avanguardia, i migliori tra i buoni, il partito. L’argilla fondamentale della nostra opera è la gioventù; in essa è riposta la nostra speranza e la prepariamo a prendere dalle nostre mani la bandiera».
La nostra lotta sarà certo lunga come fu lunga la preparazione e l’attesa dell’Imam Khomeini. Quella vendetta che è Giustizia dei popoli è un piatto da servirsi freddo: «O Segnor mio, quando sarò lieto/ a veder la vendetta che, ascosa,/ fa dolce l’ira tua del tuo segreto?» (Dante, Purgatorio XXXIII, 43-45). Foss’anche tutto il tempo che passò perché la casa di Francia pagasse il fio del rogo dei Templari da parte di Filippo il Bello, noi realizzeremo il giuramento di Joaquin Murieta sotto la sferza degli americani che gli martoriava le carni: «Dieci di voi per ogni colpo di frusta ricevuto»!
La guerra dei diseredati della Terra è stata dichiarata; essa è totale e senza remissione. Essa sarà continentale o non sarà. A chi ci obiettasse che nulla abbiamo a che spartire come europei con quelle genti e i loro problemi, potremmo rispondere con U. Marti che «ogni vero uomo deve sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato sulla guancia di un altro uomo». Del resto a chi non avesse ancora compreso, dopo tanto tempo, che nella società planetaria della civilizzazione materialista, del capitalismo cosmopolita e dell’internazionalismo marxista, del sionismo mondialista non si può combattere con l’ottica miope del piede in casa, che il rivoluzionario di domani sarà in patria ovunque ci si batta per la sua idea del mondo, che nulla accade nel più remoto angolo agli antipodi della Terra che non abbia più o meno immediata conseguenza da noi — a chi non realizzasse tutto ciò non varrebbe nemmeno la pena di rispondere. La viltà attendista conosce i più contorti ragionamenti ed autoconvincimenti per restare attendista e vile.
Per noi la lotta del popolo iraniano oggi è la nostra stessa lotta, l’Iran la pattuglia avanzata del fronte comune; come la nostra lotta politica dovrà essere la sua un giorno, fino a fondere i due tricolori uguali nel segno del loto dei martiri. Oggi noi siamo tutti iraniani!
«I Giusti saranno nel soggiorno di delizie, ma gli empi nell’inferno» (Corano, Lo schianto del cielo, LXXXII, 13-14).
Gli intellettuali «clientes» della borghesia al potere, parlando e scrivendo per difendere con gli interessi dei loro padroni i loro stessi interessi (la pagnotta quotidiana e l’esistenza e individuale e di ‘casta’), ci hanno sempre detto che chi voleva creare il paradiso sulla Terra finiva per ridurla ad un inferno. Noi che abbiamo conosciuto l’inferno di questo mondo, il regno della democrazia e l’abbrutimento del materialismo e la persecuzione nelle varie sue forme, possiamo finalmente sperare di batterci, qui ed ora, per conquistarci il nostro paradiso. E se riusciremo ad essere soldati degni della Grande come della Piccola Guerra Santa, allora soltanto potremo entrare nei «Giardini di Allah». Ma i Giardini di Allah, è notorio, fioriscono solo all’ombra delle spade… Allah Akbar.
tratto da “RISGUARDO” – rassegna periodica di cultura – IV (1984). Numero speciale per il 20° anniversario delle edizioni AR
( Fonte: www.thule-italia.net )