Oggi presentiamo uno scritto in onore di Julius Evola a firma del grande egittologo, archeologo e studioso di esoterismo Boris De Rachelwitz (1926-1997), di antiche origini longobarde, genero di Ezra Pound, amico di Evola. Il ritratto offerto da De Rachelwitz è incentrato sulla figura di Kshatriya di Evola, sulla sua coerenza, intransigenza, sul suo essere punto di riferimento ed esempio, come «uno dei continuatori più validi della Tradizione dei ‘Figli di Ermete’, un modello di quella dignità adamantina necessariamente connessa a chi è portatore di un messaggio sacro, la cui immanenza trascende il tempo per proiettarsi verso le generazioni future, verso i nuovi ‘portatori della Fiaccola’ ».
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di Boris de Rachelwitz
Tratto da “Testimonianze su Evola”, Edizioni Mediterranee.
Nelle tenebre che avviluppano il mare in tempesta sono i fari, queste isolate sorgenti di luce, a costituire gli unici punti di riferimento per il navigante che voglia evitare il naufragio. Abbarbicati su promontori scoscesi o su isolette appena affioranti, indifferenti al maestrale o alle onde gigantesche, continuano ad inviare il loro silente ma luminoso messaggio, a chi è in grado di recepirlo.
Le strutture sociali odierne, disgregate e putrefatte, galeggiano sulle acque inquinate di una società in disfacimento, mentre i necrofili, esperti in mummiologia politica, sono al lavoro tentando di fare apparire vivi i cadaveri: Kali-Yuga, l’«Età del Lupo» dei carmini norreni, regna sovrana.
Eppure, a dispetto dei necrofili e del lezzo, il navigatore solitario «in piccol legno» prosegue la sua rotta. Alzando gli occhi al cielo ritrova la Polare e, con essa, la via. A cielo oscuro i fari, al di sopra delle onde, gli trasmettono un messaggio, immanente, evitandogli il rischio degli scogli. Fuori dalla metafora, uno di questi fari, da mezzo secolo, è – a nostro avviso – Julius Evola.
Difficile «misurare» la sua figura: al pari di un faro, per riprendere l’esempio, egli giganteggia nel suo aristocratico isolamento. Egli «è» nel mondo dell’essere, rispetto al mondo del «divenire». Inoltre la sua stessa natura intrinseca di Kshatriya, di guerriero nell’accezione induista, che lo oppone al Brahmâna, il religioso-sacerdote dedito alla vita contemplativa, lo accosta ai custodi del sacro Graal, in una tradizione a lui particolarmente cara. Quel Graal che, per Evola, si collega direttamente alle tradizioni celtiche ed al ciclo arturiano, prescindendo dalle interpolazioni posteriori (1). Il simbolo, cioè – come lo stesso Evola tende a sottolineare – «del principio di una forza trascendente e immortalante connessa con lo stadio primordiale e rimasta presente nello stesso periodo di “caduta”, dell’involuzione e della decadenza». A fortiori quindi, nell’epoca odierna. E i custodi del Graal sono appunto cavalieri e non sacerdoti, né il luogo ove il Graal si trova è un tempio, bensì un castello o una reggia. Con questo spirito «ghibellino» ci si appalesa uno dei parametri evoliani. Inoltre la sua poca condiscendenza verso la «dottrina dell’amore, del sacrificio divino e della grazia, teismo e creaturalismo», unita ai suoi interessi verso il mondo dell’«occulto» e, in particolare, ad alcuni aspetti del «tantrismo» gli hanno valso una facile etichetta di «stregone» e di entità luciferica che parrebbe contrastare con la natura solare di un custode del Graal.
C’è infatti chi lo vede come un satanista operante nella sua stanza, dall’atmosfera «ténébreuse et vénéneuse» (2), e chi d’altro canto lo qualifica tout-court come «pseudo-filosofo» con l’aggiunta delle qualificazioni politiche di «fascista» e «razzista». Attribuzioni che in genere promanano da persone che disonestamente e ignorando nella realtà il pensiero e l’opera di Evola, si soffermano su materiale di seconda mano, spesso partigianamente rielaborato. Evola, in cui è presente una forte dose di cinica ironia, stigmatizza tutte queste etichette con semplici battute che demoliscono in uno le etichette e i loro autori. Del resto, egli è un personaggio di fronte al quale non si può restare indifferenti: o gli si è amico (e, anche in questo caso, egli non si «concede» mai totalmente) o nemico. Anche qui rivive la sua natura di Kshatriya che rifugge da ogni compromesso, nonché la totale sua indifferenza nei confronti di qualsiasi giudizio umano. A lui possono applicarsi le parole del Secondo Manifesto dei Rosacroce: «Se a qualcuno viene il desiderio di vederci solo per curiosità, egli non comunicherà mai con noi» (3). Ove, per «comunicare» s’intende ovviamente una presa di contatto ad un livello alquanto più profondo di un semplice incontro sociale.

Dall’ultima parte della guerra, Evola, questo appassionato scalatore di vette alpine, è rimasto inchiodato nella sua stanza da una paralisi agli arti inferiori, quale conseguenza di un bombardamento aereo a Vienna. Due sole foto sono presenti nella sua stanza a fianco dei quadri giovanili; una raffigura la vetta di un monte che rifrange i raggi solari, nell’altra compare lo stesso Evola, ventenne, su un camminamento nei pressi di Asiago, nel corso della prima guerra mondiale mentre, con aristocratica nonchalance, domina la vallata nella sua impeccabile uniforme di ufficiale di artiglieria, guanti bianchi e piega perfetta dei pantaloni alla cavallerizza. Vanità? Non credo, date anche le granate austro-ungariche che battevano la cima. Stile, piuttosto, e, come è noto, «le style c’est l’homme».
Il rispetto verso l’individuo cresce quando si pensa che da oltre un quarto di secolo – da quella notte viennese – Evola non ha mai tediato il visitatore con il benché minimo accenno alle sue condizioni fisiche, sviando, anzi, con abilità e discrezione, ogni domanda riferentesi alla sua salute. Questa attitudine, di stoica indifferenza, è uno degli aspetti salienti della coerenza evoliana, coerenza cioè con il modello di uomo che si è prescelto e nel quale s’identifica «fino al punto da non fare gran caso se qualche colpo di rimbalzo, scendendo da lassù, giunge ad alterare la più o meno felice vicenda della sua esistenza terrena, tanto da determinare talvolta lo spettacolo di una vita che forse ben pochi desidererebbero». “Voi non siete qui per combattere con cose, ma con dèi”, fu già detto da Böhme». Così scriveva Evola nel lontano 1931, quasi prevedendo eventi della sua stessa esistenza (4). E’ ben vero che ne Il Cammino del Cinabro (5) egli, sottolineando come tale evento, «a parte dei fastidi pratici e certe limitazioni della vita profana», non lo toccasse in nulla, non essendo in alcun modo pregiudicata la sua attività spirituale ed intellettuale, precisava il suo punto di vista in merito: «La dottrina tradizionale che nei miei scritti ho spesso avuto modo di esporre – quella, secondo la quale non vi è avvenimento rilevante dell’esistenza che non sia stato da noi stesso voluto in sede prenatale – è anche quella di cui sono intimamente convinto, e tale dottrina non posso non applicarla alla contingenza ora riferita». Aggiungendo: «Vi è qualcuno che ha fatto circolare la diceria, che la contingenza occorsami, sarebbe stata la conseguenza di chissà quale mia “prometeica” impresa. Questa è, naturalmente, fantasia pura». Evola parimenti rigetta l’opinione espressagli in merito da Renè Guénon, secondo il quale l’avvenimento poteva derivare da un’azione occulta di un eventuale nemico. Tuttavia, altrove, Evola fa cenno alla «mano degli dèi» che si sarebbe posata un po’ troppo pesantemente su di lui.
In un’epoca, come la nostra, nella quale le scienze occulte sono divenute preda golosa della ciarlataneria, le opere di Evola si distaccano nettamente dalla più parte dei testi che svolgono l’argomento. Non è qui luogo di una analisi bibliografica, essendo tanto più stato fatto da altri. La Tradizione Ermetica (6) a nostro parere, comunque, costituisce un «classico» in questo campo ed è un’opera indispensabile per chiunque voglia penetrare nei meandri dell’«Arte Regia» alchemica. Naturalmente anche in quest’opera, la coerenza evoliana verso una particolare scelta in quanto a strada da seguire per la realizzazione (quella «magica» nei confronti di quella «mistica») viene evidenziata, particolarmente là ove si tratta di «via secca» e «via umida».
Delle sue esperienze personali, Evola parla raramente. Un raro episodio lo mostra nel suo aspetto di «ricercatore» attivo nel mondo dell’occulto. Nel 1948 fui ospite nel Castello di Taufers (Campo Tures) in val Pusteria e la figlia della proprietaria del maniera, Eva K., mi raccontò come, prima della guerra, Evola fosse stato invitato per investigare gli strani fenomeni che avevano luogo in una sala del castello, ove, in certe epoche, un filatoio si metteva a filare da solo, mosso – secondo la leggenda – dalla mano invisibile di una fanciulla morta tragicamente secoli prima. La presenza di Evola, quella notte a Taufers, sembra aver agito da catalizzatore e i fenomeni come quello accennato, con l’aggiunta di spostamento di quadri e di altri oggetti, si produssero con un’intensità mai verificatasi in precedenza. Evola, al quale ricordai questo episodio, me lo confermò in pieno. Dell’episodio, comunque, come di altri, egli non tratta nelle sue opere per non dare adito, probabilmente, alla formulazione di «concetto teatrale del mago e dell’iniziato», totalmente estraneo dalla sua natura. Infatti, riferendosi appunto al mago e all’ermetista, egli ebbe a scrivere: «Ogni esibizione ed ogni personalismo, da questi è trovato puerile. Egli non esiste, non parla… in lui è sopravvenuto uno stato che distrugge categoricamente ogni possibilità nei confronti dei giudizi umani» (7).
Non si tratta di falsa modestia, ma di qualcosa di assai più profondo. In occasione di una mostra dei suoi quadri d’epoca dadaista, egli mi scriveva nel 1963: «per i famosi “quadri” ora è venuta fuori la proposta di qualcuno di scrivere addirittura una monografia illustrata in connessione con la progettata esposizione. Ma anche ciò l’ho lasciato in sospeso. Lei sa già qual’è il mio punto di vista e il nessuno interesse personale di un mio venire “valorizzato” o “scoperto” in tale sede» (8). La sua posizione, del resto, nei confronti dell’esperienza dadaista, è chiaramente lumeggiata ne Il Cammino del Cinabro. Non avendo mai mirato a riconoscimenti ufficiali, cattedre o premi, Evola mantiene nei confronti di queste manifestazioni – come fa testo un’altra sua lettera – un ironico distacco (9).
Alcuni temi, da me svolti in alcune mie opere, si sono incontrati con gli interessi stessi di Evola, come nel trattare di alcuni vasi rituali dell’antico Egitto e della correlazione nel complesso «donna-albero-acqua-rigenerazione» (10). Alcune tra le migliori recensioni ai miei lavori sono state scritte da Evola ed a mia volta ho potuto apportare anche qualche piccolo lume alle sue interpretazioni di alcuni aspetti della civiltà egizia (11). Ma tra tanta corrispondenza seria, tra noi, qua e là emergono brani che darebbero molto da pensare ai decrittatori dei cifrari. Frasi come: «avendomene cortesemente accennato, se ha modo di espletare il solito e difficile e rischioso incarico, non sarebbe indesiderato un nuovo gruppo di Landjäger». Ove, si guardi bene, non si tratta di truppe tirolesi da inviare a rinforzo di qualche golpe di estrema destra, bensì di ottimi salamini prodotti a Merano da uno dei miei fornitori. Ed infatti Evola aggiunge: «Eventualmente potrebbe raccomandare, se debbono farli o sceglierli, “più grassi e più affumicati”» (12).
Sono ormai più di vent’anni che frequento Evola, ma varie sue opere mi erano già note da quando, tredicenne, cercavo negli scritti di tutte le epoche, quei «punti di appoggio» e quelle conferme ad intime verità, al di fuori del tempo, sentite e vissute profondamente sin dalla mia prima infanzia. Lo studio delle opere di Evola e i contatti personali avuti con lui hanno valso per me come una testimonianza viva di tali verità. Al di sopra e al di fuori dei contingenti aspetti umani, che per molti costituiscono una barriera insormontabile, Evola rappresenta «a chi ha intendimento» uno dei continuatori più validi della Tradizione dei «Figli di Ermete», un modello di quella dignità adamantina necessariamente connessa a chi è portatore di un messaggio sacro, la cui immanenza trascende il tempo per proiettarsi verso le generazioni future, verso i nuovi «portatori della Fiaccola». Si comprenderà quindi come, in complesso, della sua opera possa applicarsi il detto di Geber: «Dichiaro che né i Filosofi che mi hanno preceduto, né io stesso, abbiamo scritto per altri che per noi stessi e per i nostri successori» (13). Non altrimenti che in Pound: «Remember that I have remembered / and pass on the tradition» (14).
Note
(1) J. Evola, Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell’Impero, Laterza, Bari 1937; 2° ed.: Ceschina, Milano 1962; 3° ed.: Edizioni Mediterranee, Roma 1972.
(2) E. Antebi, Ave Lucifer, Calmann-Lévy, Parigi 1979, pag. 218.
(3) J. Evola, La Tradizione Ermetica, Laterza, Bari, p.224.
(4) J. Evola, La Tradizione Ermetica, 3° ed.: Edizioni Mediterranee, Roma 1971, pag. 233.
(5) J. Evola, Il Cammino del Cinabro, Scheiwiller, Milano 1963.
(6) J. Evola, La tradizione Ermetica, 3° ed.: Edizioni Mediterranee, Roma 1971.
(7) J. Evola, La Tradizione Ermetica, 3° ed.: Edizioni Mediterranee, Roma 1971, pag. 231.
(8) Lettera di J. Evola all’autore, del 23.II.1963.
(9) Lettera di J. Evola all’autore, del 25.VIII.1960: «… Mi compiaccio che Lei abbia ottenuto quel riconoscimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri: per la cosa in sé, dato che temo non si troverà in compagnia troppo lusinghiera… Sarà saggio per un “giro” del genere, seguire la massima de Descartes (la quale sembra essere fra l’altro d’ispirazione rosacruciana: bene vixit qui bene latuit)».
(10) Lettera di J. Evola all’autore, del 20.XII.1958, con riferimento a Le situle e la Rigenerazione Cosmica in Egitto e in Mesopotamia di Boris de Rachewiltz, in Archivio Internazionale di Etnografia e Preistoria, Torino 1958.
(11) Lettera di J. Evola all’autore, del 3.IX.1964: «… Ora occorrerebbe che vedessimo il paio di pagine che, nella seconda parte [Rivolta contro il mondo moderno], ho dedicato alla civiltà egizia, per eventuali rettificazioni e aggiunte. Per qualche riferimento particolare, potrei citare l’una o l’altra delle Sue opere, insieme alle altre, con l’esatta indicazione bibliografica».
(12) Lettera di J. Evola all’autore, del 10.XII.1959.
(13) Geber, Summa, IV, par. X, apud J. Evola, La tradizione Ermetica, 3° ed.: Edizioni Mediterranee, Roma 1971, pag. 225.
(14) The Cantos of Ezra Pound, New Directions, New York 1970, Canto LVXXX, pag. 506.