Se è vero che da un po’ l’avevamo programmata, per una serie di motivi, solo quest’anno abbiamo potuto realizzare quella che, per tutti noi, è stata una piccola impresa. Per carità, il mondo dell’alpinismo sui 4.000 metri offre itinerari di gran lunga più impegnativi, ma per uno sparuto gruppo di alpinisti romani (che già per molti è un ossimoro…), assieme a un caro amico brianzolo, l’ascesa al tetto d’Europa resta una bella conquista. Se a questo aggiungiamo che siamo stati l’unica cordata italiana a salire in cima in quel giorno, allora la soddisfazione è doppia.
L’anno di preparazione è stato intenso e, al di là delle uscite ufficiali in montagna per lo più sui canali del Terminillo e del Gran Sasso (che spesso abbiamo raccontato), ognuno di noi ha seguito una tabella di marcia fatta di corsa e fiato, di dislivelli in salita e arrampicata in falesia, ma anche di un graduale approccio psicologico alla gestione delle difficoltà e degli inconvenienti eventuali. E dobbiamo dire che la preparazione ha dato i suoi frutti, perché le condizioni della “via dei tre monti” al Monte Bianco, la seconda via normale francese, più difficile della salita dal Gouter ma più facile di quella dal Gonnella, quest’anno erano tutt’altro che rassicuranti e associabili ad un confortante PD+ di difficoltà. Ma andiamo per gradi.
Il nostro programma prevede una partenza “intelligente” da Roma, in auto, alle 7.30 di sabato 29 giugno, direzione Courmayer, o meglio Entreves, dove alla base della funivia del Monte Bianco abbiamo appuntamento con il nostro amico. Come al solito il viaggio trascorre in un clima sereno dove non mancano i “racconti macabri” che servono ad esorcizzare la salita, oltre ad un’analisi minuziosa della via che, almeno sulla carta, conosciamo perfettamente. Tempo di preparare tutto l’occorrente e via per i quasi duemila metri di funivia che ci collegano al rifugio Torino. Il rifugio, come il suo gestore Armando, meritano una menzione particolare perché rispetto ai giorni successivi, integralmente trascorsi in territorio francese e nei rifugi d’oltralpe, il trattamento riservatoci è delizioso e degno di un luogo che accoglie. In Francia tanta grazia non la troveremo, anzi una scortesia e una maleducazione che solo i francesi, quando vogliono, sanno dare. Provincialismo? Bah, di fatto il prosecco o il franciacorta sono di gran lunga migliori dello champagne…tiè!
Domenica 30 giugno e eccoci partire alle 7.30 in direzione Rifugio des Cosmiques, lungo la spettacolare valle bianca che passa sotto l’inconfondibile Dente del Gigante, vero fenomeno naturale, un enorme e geometrico masso piovuto dal cielo. La giornata è meravigliosa, il rigelo notturno garantisce una sicurezza e una tenuta ottimale, soprattutto nella zona dei satelliti del Mont Blanc du Tacul, spesso pericolosi per via dei numerosi crepacci. In realtà tutto fila liscio e, inebriati da cotanta meraviglia e bellezza, progrediamo tranquilli fin verso la piana dell’Aiguille du Midi, guadagnando circa 300 metri di quota senza alcuna fatica. È la giornata dell’acclimatamento, ma anche delle foto, del sole, della rilassatezza che ci fa godere a pieno di luoghi che lasciano assolutamente senza fiato.
Arriviamo, quindi, al Rifugio des Cosmiques, probabilmente troppo presto per dei gestori indaffarati che si dimostrano decisamente poco accoglienti. Sarà, ma all’incazzatura che ci provoca la loro maleducazione preferiamo immediatamente sostituire il piacere del sole che si gode sulla piccola terrazza e la voglia di studiarci la via di salita che, sul Tacul, sale ripida senza alcun cambio di pendenza: ma chi ha tracciato la via, aveva qualche problema con se stesso?
Mangiato qualcosa, ci riposiamo nella camerata quel paio di ore circa necessarie a ristorarci, tenuto conto che, per la sera, il sonno previsto sarà scarso, vista la sveglia programmata per le ore 24. Il rischio l’indomani di temporali pomeridiani, infatti, e un luogo che conosciamo solo molto parzialmente (anni fa, alcuni di noi, fecero un tentativo alla vetta, abortito sul Tacul), ci fa propendere per un anticipo della partenza, che per certi versi potrebbe sembrare eccessivo; ma, intanto, visto che si sale nella notte, cosa cambia partire un’ora prima o un’ora dopo?
Sono le ore 24 di lunedì 1° luglio, quando la camerata affollata è ancora rischiarata dai fulmini di un temporale che da un paio di ore illumina a giorno la zona di Chamonix. Uno spettacolo della natura che non riusciamo a cogliere in pieno, visto che ci stiamo preparando con la dovuta attenzione: imbrago, rinvii, moschettoni, cordini, fettucce, chiodi da ghiaccio, ramponi, casco, lampada frontale, guscio, scarponi, ghette, piccozze, ogni strumento, d’ora in poi, sarà parte di noi e per esser usato adeguatamente ci vorrà determinazione e concentrazione. Un vecchio adagio mi ritorna alla mente: “non ti fidar di me se il cuor ti manca!”…
Ma oggi il cuore c’è, e lo sentiamo battere forte sin dal momento in cui attraversiamo la piana dell’Aiguille in direzione dell’attacco al Tacul. È quasi l’una e mezza di notte e dietro di noi altre cordate cominciano a partire dal rifugio, sopra di noi c’è l’oscurità più totale visto che il tempo rimane nuvoloso, davanti a noi c’è un muro bianco pronto per essere scalato. Il mancato rigelo notturno, a causa della coda del temporale di poche ore prima, rende la neve non bella e questo ci fa un po’ pensare, in considerazione dei crepacci e dei seracchi che incontreremo lungo il percorso. È un pensiero che ci porteremo dietro per un po’, senza che occupi interamente la mente la quale, al contrario, deve essere libera e proiettata esclusivamente nel ‘qui e ora’ della progressione in salita. Il passo c’è ed è anche buono, il fiato inizia a spezzarsi adeguatamente, eccoci dinanzi alla prima vera difficoltà: un bel crepaccio verticale da superare su un’esile ponte di neve, un bel crepaccio che negli anni passati ha visto una scala per aiutare il passaggio ma che, quest’anno, ancora non è stata messa. La neve fa schifo, non tiene nulla, ma c’è poco da fare, si passa solamente di lì: un paio di cordate ci superano e passano abbastanza veloci e, poco dopo, noi con loro, non senza un po’ di apprensione. Il passaggio, per certi versi, è vissuto in maniera titanica a causa di quel buco nero e profondo sotto i nostri piedi che dà la spinta a non pensarci troppo e a sbrigarsi. Si prosegue.
La traccia continua dritta, su pendenza sostenuta e senza nessun zig-zag. Siamo a metà del Tacul quando un’improvvisa bufera di vento e neve ci investe, rallentando l’andatura. Ci chiediamo da dove esca tanta violenza, visto che il tempo era dato per buono o comunque in miglioramento: “Ma le previsioni in montagna non dovrebbe essere più precise, porca puttana?!”. Si sale più lenti di prima, le luci delle frontali si vedono a malapena e in alcuni casi danno problemi, le facce dalle mandibole un po’ congelate emettono suoni gutturali, parole che sembrano derivare da una strana lingua primitiva. Per fortuna un paio di traversi allentano la pettata, ma ancora alcuni buchi in apertura richiedono massima concentrazione. Altri 100 metri e siamo fuori sulla spalla del Tacul e, come per magia, la bufera di blizzard si è placata; fa freddo, c’è ancora vento ma, nonostante tutto, facciamo una pausa per risistemarci.
Una cordata sale in vetta lungo la cresta alla nostra sinistra, davanti a noi per il momento non vediamo nessuno. Proseguiamo in direzione dell’attacco del Mont Maudit, la seconda delle tre montagne da scalare, lungo il falso piano che diventa leggera discesa segnando una curva da destra verso sinistra, fino ad arrivare sotto gli inquietanti crepacci dell’altrettanto inquietante e sinistro monte maledetto. Un paio di cordate sbucano nell’oscurità, acceleriamo il passo per riprenderle e procedere insieme. È confortante pensare di non essere soli in un ambiente già di per sé maestoso e reso ancora più severo dal buio della notte.
Inizia un leggero traverso in salita e poi dritti, nuova pettata sui 40/45 gradi senza fiato, senza deviazioni, senza pause. O meglio queste ultime sì, perché il ritmo, per quanto buono, deve essere regolato onde evitare di ‘scoppiare’, visto che la strada è ancora lunga. Siamo tre cordate e procediamo di conserva semi-corta a distanza di 5/10 metri l’una dall’altra, quando ci troviamo di fronte un bel seracco a metà salita che sbarra la strada. Fa impressione, saranno almeno venti metri, una palazzina del quartiere Trieste-Salario! Ma un punto debole ce l’ha ed è lì che si passa, una rampetta da destra verso sinistra che lo scalfisce al centro, una rampetta che, con notevole esposizione per alcuni metri, presenta uno spazio solo per due piedi e che, in presenza di un muretto un po’ aggettante, necessita di accovacciarsi. ‘Delicatamente’, siamo fuori anche da questo secondo impegnativo passaggio. Nella mente, nel frattempo, passa un altro pensiero: “ma in discesa come sarà questo passaggio così esposto? E i crepacci del Tacul, visto che transiteremo nelle ore più calde della giornata?”
Inizia il traverso dal colle del Maudit, questo sì che sembra “normale”, che ci condurrà al colle della Brenva; la vetta a panettone ormai è davanti a noi, ma l’immensità dei luoghi inganna la vista, poiché nonostante manchino ‘solo’ trecento metri, questi trecento metri non finiranno mai. Il traverso è su traccia esile ma marcata, ma anche qui, ancora una volta, nulla è scontato: un crepaccio in diagonale la interrompe e costringe a dover saltare, per di più in leggera discesa e su un tratto ghiacciato. Ci pensiamo un attimo, fuori il coraggio, attrezziamo un minimo di sicura e via il primo e così gli altri. Segno della croce e si riparte, forse dopo questo passaggio le difficoltà sono terminate.
E così è, perché adesso inizia la lotta coi “draghi” interiori, quella in cui vedi una vetta davanti a te che non arriva mai. La quota si fa sentire, il fiato diviene corto, venti passi e pausa, dieci passi e pausa. È dura, probabilmente è la prima volta che percepiamo una strana sensazione fisica che potrebbe sembrare sfinimento, ma che poi sfinimento non è. Perché continuiamo a salire e non ci fermiamo, passo dopo passo, inesorabili, a tratti con delle pause che sembrano durare un’eternità, appoggiati sulle piccozze, si respira profondamente. “Forza ragazzi, la vetta è lì, si vede, ancora un piccolo grande sforzo e ci siamo“.
Ore 10, lunedì 1° luglio. La vetta piatta e con un semplice paletto con nastro bianco rosso ci dice: Monte Bianco, 4.810 metri sul livello del mare. Ce l’abbiamo fatta, ci abbracciamo commossi e ancora un po’ storditi dalla fatica. Ma siamo perfettamente consapevoli, la salita al Bianco è terminata, dopo abbondanti otto ore e mezza di scalata, siamo sul tetto d’Europa. Il pensiero di ognuno va a chi è più caro, a chi non c’è più, ai propri fratelli e camerati, agli occhi grandi e sorridenti che, seppur a distanza, ci hanno vegliato e sostenuto per tutta la via. Sventola fiera la nostra bandiera, garrisce al vento il nostro gagliardetto, il cuore batte forte ma non per la fatica, non per la quota: è la vita che esplode dentro, è l’armonia di corpo-anima-Spirito che solo la montagna (forse) è in grado di conferire. Tempo di mangiare e bere qualcosa, anche se velocemente perché il freddo si sente, nonostante un sole abbagliante. Ma in fondo, anche se ci fossero state le nuvole, il sole lo avremmo visto e sentito ugualmente, perché ce lo siamo portato nel cuore e adesso, quassù, risplende ancora di più.
La discesa non può essere fatta per la via di salita, troppo pericoloso il ghiaccio vivo, il traverso grigio, i ponti di neve instabili, etc. E allora giù per la traversata direzione Gouter, la via normale francese, quella più facile e affollata, ma comunque lunga. La cresta è bella, estetica, in alcuni punti affilata ma non crea problemi. Incrociamo le cordate che salgono, ci fanno i complimenti in russo, inglese, francese, romeno, giapponese, così si usa: chi scende ce l’ha fatta e è giusto che riceva una ‘pacca sulla spalla’ da chi è ancora impegnato sulla salita il quale a sua volta, riceve da noi un “good luck, in bocca al lupo, dai che manca poco e ci siete”. Veloci raggiungiamo la capanna Vallot, il famoso immondezzaio a 4.360 metri di altezza. Non ci fermiamo, se non il tempo di rifocillarsi e di scattare ancora delle foto. Il caldo comincia a farsi sentire ma dobbiamo sbrigarci se vogliamo scendere in orario verso valle.
Sono le 13.45 quando raggiungiamo il Rifugio de Gouter, a 3.835 metri, dopo aver traversato la conca sotto l’omonimo Dome che in alcuni punti ha presentato crepacci in apertura, nulla a confronto di quelli passati alcune ore prima. Ci cambiamo, ci sleghiamo e ci leviamo i ramponi, d’ora in poi si passa ad un contesto diverso: non più ghiacciaio o pendii nevosi, ma roccia e ferrata ripida che scende per circa 600 metri verso il famigerato canalone del Gouter, lo scandalo delle Alpi come alcuni lo hanno ribattezzato. La ferrata è simpatica, una disarrampicata su gradi facili (fino al II grado) assistita da cavi d’acciaio fino ad un certo punto, e poi disarrampicata e basta. Siamo stanchi e si vede, non corriamo più, consapevoli che ormai la discesa a valle è impossibile considerato che il trenino che parte dal Nid d’Aigle, ancora a un paio di ore di cammino, non si può più raggiungere in orario.
Eccoci quindi al famigerato Couloir del Gouter, quello dei video su youtube in cui le pericolosissime scariche di massi e sassi sfiorano gli alpinisti in attraversamento, quello che all’anno fa mediamente 5 morti e non meno di 15 feriti; numeri da far impallidire. In effetti, mentre scendiamo lungo la cresta rocciosa, cascano sassi come televisori ad una velocità impressionante, intervallati da momenti di pausa. E è in quei momenti che assistiti dalla fortuna e dal buon Dio devi passare, pregando che tutto resti fermo come quando sei partito. Sono solo settanta metri, è vero, ma sono settanta metri da fare di corsa o comunque con passo sicuro e guardingo.
Ore 16.45. Per fortuna la traccia su neve è abbastanza buona e si parte: alla bersagliera, piccozza alla mano per dare un po’ di equilibrio, assaltiamo l’altro versante e siamo in sicurezza. Ora le difficoltà e le preoccupazioni sono veramente finite, tempo venti minuti e siamo al Rifugio Tete Rousse a 3.160 metri, a fumarci il nostro tabacco, a telefonare a casa, a ridere con le facce cotte dal sole e stanche dopo circa 17 ore di traversata. Poco importa se ci faranno pagare 92 euro a testa, poco importa se una birra calda costerà 8 euro, poco importa se la zuppa dei rifugi francesi è un pappone che serve solo a scaldare la pancia. Siamo stanchi, sporchi ma felici e questo è quello che conta. Che grande giornata, che bravi che siamo stati. Senza vanità, per carità, ma per chi è abituato ad allenarsi non solo sul Gran Sasso, la Majella, il Terminillo o il Velino, montagne splendide e anche severe, ma anche sui più modesti monte Gennaro e monte Pellecchia, anch’esse splendide ma di un altro tenore rispetto ai ‘mostri’ che in questi due giorni abbiamo conosciuto, fa un certo effetto.
Ce l’abbiamo fatta ed è andato tutto alla grande, questo è l’importante. Ci portiamo un bagaglio di esperienza che servirà nella vita, quando le vere prove esistenziali assumeranno la forma del crepaccio notturno del Tacul o del ghiaccio grigio del Maudit, o dei trecento metri finali prima della vetta. Quando tutto sembra difficile ed irraggiungibile, è il momento di dare spazio e sfogo al fuoco che abbiamo dentro. Perché ce lo abbiamo e l’abbiamo dimostrato; è lì, nel nostro cuore, nel centro dell’essere, custodito e vivificato anche grazie a imprese come queste.
GEO è salita sul Monte Bianco, GEO ha fatto sventolare la bandiera della Tradizione sul tetto d’Europa.
Piccole conquiste, ma dal grande significato simbolico.
In alto i calici e in alto i cuori!