“Bangla”, il film. Racconto di uno scontro

647

Abbiamo visto “Bangla” – andato in onda in questi giorni in prima serata – e, diciamo la verità, due risate ce le siamo fatte

Ma teniamo a scrivere due parole a commento non tanto del film, quanto del dopo film firmato Rai2. Eh sì perché dopo aver riso, il “Diario di un filmc’ha fatto solo piangere
Uno svomitare continuo di retorica radical-chic per cui la cultura e l’identità di etnie e religioni esotiche sono solo scimmiette a cui dare le noccioline, animali da circo da mettere sul palco sotto i riflettori; i cibi diversi, speziati e profumati, sono solo outfit da sfoggiare, che se li mangi e li cucini anche tu sei decisamente più cool. Una falsa rappresentazione della realtà per cui la fermezza equilibrata di una guida spirituale (che sostiene i giovani a praticare ed esercitare la fede nella quotidianeità della vita vissuta) e la normale severità di una madre (che sprona il figlio a imparare a rifarsi il letto prima di pensare alla libertà) sono solo bigotti, stupidi e arcaici comportamenti da deridere, che l’aperta “Torpigna” degli hipster – rivendicata patria della resistenza partigiana romana – accetta soltanto con un malcelato retropensiero: prima o poi, i Bangla e tutti i loro simili (perché non c’è differenza tra un nigeriano, un siriano e un bangladino: sei ugualmente culturalmente diverso) si sveglieranno e riconosceranno anche loro il sacrosanto diritto alle donne di non sposarsi o di togliersi il velo per tatuarsi bevendo volgarmente lo spritz. Torpigna li ingloberà tutti, come succede nel resto del globo: solo chi non ha ‘gggirato’ il mondo non sa che Torpigna è come New York o Londra.
E questa ridicola narrazione globalista – ovviamente accompagnata dalle testimonianze delle maestre in trincea che combattono per un’educazione neutra e incolore da impartire al mondo multicolore – stride ancor di più perché cozza con il messaggio che, secondo noi, il film drammaticamente lancia.
Il conflitto non è tra culture diverse ma tra una cultura – nella specie quella islamica – e la non-cultura della società modernista. I contrasti descritti nel film sono quelli tra i precetti religiosi e i valori spirituali, da un lato, e la propaganda del sesso libero e promiscuo, dall’altra; tra la ricerca di sani e normali rapporti di amicizia e l’aridità interiore di spacciatori nel parco; tra la normalissima famiglia del protagonista Phaim, composta da un padre, una madre e una sorella, e la lesbo pseudo-famiglia arcobaleno della ragazza italiana emblematicamente chiamata Asia; tra la preghiera e il costante confronto diretto con una schietta guida spirituale e i pettegolezzi e le smorfie delle false amiche povere di spirito. Per non parlare degli sproloqui a tavola sputati dal papà italiano ‘alpassocoitempi’ sull’acquisto della cittadinanza “iure soli” e la risposta di Phaim sul semplice e indifferente “documento firmato a diciott’anni“, a cui non tutti i bangladesi aspirano, vedendo nell’Italia un semplice “corridoio” per Londra. Un contrasto che si evince anche dai tentativi di Phaim – 50% italiano, 50% bangla e 100% torpigna – di esporre i racconti di vita ovviamente brutalmente inascoltati dai progressisti commensali, troppo presi e ossessionati dai propri isterismi. Insomma, la società multietnica e multireligiosa composta da molte etnie e molte religioni dalle identità preservate e radicate – già conosciuta e praticata nel mondo di ispirazione tradizionale, dalla Roma imperiale alla Palermo federiciana – non può resistere nell’involucro vuoto della società atea, materialista, progressista, individualista semplicemente perché – è questo quello che si evince chiaramente dalla pellicola – è il suo perfetto contrario. Lo scontro non è tra i tortellini e la carne halal, non è tra i campanili e i minareti, non è tra il rosario e la salat ma è tra un mondo che si sforza di portare con sé, nel mare in tempesta della modernità, radici, cultura, identità, saperi e sapori, religione e spiritualità, e un mondo buio al collasso che è, ormai e finalmente, in overdose di se stesso.