«Un giorno noi saremo veramente fieri di consegnare i nostri gloriosi gagliardetti alla gioventù che cresce e vigoreggia sotto i nostri occhi. Noi diremo allora: questi sono i gagliardetti della Rivoluzione, consacrati dal sangue purissimo degli squadristi. Portateli in alto, difendeteli, se necessario con la vostra vita e fate che essi domani siano baciati dal sole di nuove e più luminose vittorie.» (Benito Mussolini)
a cura di Maurizio Rossi
Il moto insurrezionale di quel fatidico 28 Ottobre 1922 fu l’evento cataclismico che segnò l’inizio dell’irreversibile dissolvimento delle istituzioni democratiche e liberali. La lunga marcia delle milizie fasciste sveglierà il popolo italiano con profonde iniezioni di un radicalismo attivistico vissuto interamente e integralmente, la sintesi di una pura giovinezza coniugata con la volontà di rivoluzione.
Fu il necessario completamento della generosa esuberanza squadristica legittima erede di quella guerra di popolo combattuta nelle trincee e trasportata nelle strade, nelle piazze, nelle contrade d’Italia; una guerra civile politica che si nutrì del disprezzo che gli squadristi avevano nei confronti della democrazia liberale, del conformismo borghese e di quello marxista altrettanto borghese, di un corrotto costume affaristico e massonico così diffuso in tutte le componenti della società.
Il Fascismo fu pertanto il promotore di un’autentica rivoluzione delle anime, delle mentalità e dei costumi mai vista in precedenza, che trovò il suo momento di coagulo nell’adunata del 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro a Milano e nella genesi di una nuova concezione dell’azione politica, soprattutto nella sua proiezione nella milizia politica, anch’essa un modo di essere e di vivere diversamente. L’intendere la vita come una scelta di milizia sovraindividuale trovò in quella adunata la sua ragion d’essere. La prassi squadristica ne sarà la logica conseguenza.
Con la fondazione del Fascismo tante anime eterogenee seppero ritrovarsi in un comune percorso. Le avanguardie di popolo dei combattenti della grande guerra traditi dai politicanti; i sindacalisti rivoluzionari cresciuti alla scuola di Corridoni con l’aspirazione di ricondurre il proletariato alla nazione, convinti che senza giustizia sociale la nazione fosse incompleta e monca; i futuristi accesi dissacratori della morale borghese; gli anarchici di matrice stirneriana in cerca di realizzazione spirituale e di azione; le frange più irrequiete della gioventù; si strinsero tutti attorno a Benito Mussolini e al suo programma di sintesi sociale e nazionale per iniziare l’assalto rivoluzionario all’edificio del conservatorismo, della sovversione e della reazione, contro le forze residuali del passato, per spazzarle via e salutare la nascita di una nuova Italia.
Esplose l’esaltante avventura squadristica, un fuoco impetuoso che attraversò l’intera penisola. Una tempesta di idealismo e di entusiasmo che seppe dividere, ma anche unire. Il coraggio, la fede e la volontà fecero la differenza. Interpretando le parole di Mussolini, gli squadristi erano convinti che il Fascismo fosse davvero una dottrina vitalistica suscitatrice di una fede che aveva conquistato i cuori e le anime, consacratasi con il sangue versato dai suoi caduti e dai suoi martiri.
Possiamo anche parlare della riproposizione in epoca moderna di autentici culti del sangue anticamente radicati nelle stirpi europee. Mediante questa riscoperta si ritornava al fuoco primordiale, alla valorizzazione dell’elemento nativo e spirituale del popolo, al mito di fondazione, al puro sentimento della comune appartenenza ad una comunità di vita e di popolo in armi e ad un sangue ed a un suolo che tornavano a trasmettere il senso di una continuità sacrale e spirituale. Con il culto celebrativo dei caduti fascisti, innalzati al rango di eroi immortali della nazione sacrale, si ritornava all’evidenza del rito sacrificale che avrebbe assicurato la continuità temporale e spirituale del popolo italiano disciplinato all’interno della nascente civiltà fascista.
Riferimenti, linee di vetta e idee-forza che il Fascismo ebbe il merito di porre al centro della propria dottrina e di ricollocare nel cuore di un popolo e nel fiume della storia.
Lo squadrismo fu la testa d’ariete del movimento fascista, il braccio militare di una concezione eroica e agonistica del conflitto politico, in grado di rispondere colpo su colpo alla violenza anarchica delle bande antifasciste. Le spedizioni punitive divennero riti di iniziazione. Le squadre d’azione si sostituirono alla famiglia, rappresentando nell’immaginario fascista uno stretto e cameratesco sodalizio politico, profondamente emozionale e sacralizzato nell’azione, connotato nello stile e nel comportamento. Emersero quindi nuovi vincoli di fedeltà e nuovi legami umani, un differente modo di rapportarsi sia all’interno che all’esterno del sodalizio.
La parola d’ordine di questi uomini disposti a rischiare la pelle nelle circostanze più drammatiche fu essenziale, ma allo stesso tempo assai efficace: «contro tutto e contro tutti».
Furono davvero anni formidabili quelli dal 1919 al 1922, affascinanti e terribili come soltanto la violenza rivoluzionaria e la purezza dell’azione disinteressata sapevano e potevano essere. Così li descrisse Alessandro Pavolini: «Ormai due forze cozzavano: il duello era all’ultimo sangue. Da una parte il disordine, l’anarchia, il delitto, la negazione di Dio, della Patria, della famiglia: dall’altra il canto eroico degli squadristi che difendevano la loro terra dai nemici di dentro come l’avevano difesa da quelli di fuori. La santa violenza contro l’incoscienza delittuosa, la bella lotta scapigliata — fior di giovinezza e di sacrificio — contro la torva canaglia imbestiata. Tutta l’Italia era percorsa da bagliori sanguigni; la lotta era a coltello e divampava senza quartiere: uno contro mille, canto e ruggito contro sberci e bestemmie.»
I conservatori e i reazionari guardarono al Fascismo speranzosi che la sua azione si limitasse al soffocare le pretese insurrezionaliste della sinistra più massimalista, al fine di ristabilire la sovrana autorità dello Stato monarchico e di certi poteri economici. Per costoro i fascisti dovevano servire esclusivamente per dare una sonora lezione alle teste calde dei marxisti e non certo per dare corso ad una rivoluzione sociale e politica in camicia nera. Di questo Benito Mussolini ne era più che consapevole, tanto da ribattere: «I pavidi borghesi sorridono di compiacenza quando ci vedono rompere il grugno ai socialisti, ma ringhiano di malcontento quando leggono fra i postulati del nostro programma la decimazione di tutte le ricchezze, la confisca dei sovrapprofitti di guerra, la forte tassa sulle eredità.»
In questo modo, Benito Mussolini, poté riconfermare le proposte del movimento fascista, non soltanto respingendo l’illazione che esso si fosse trasformato in un docile strumento nelle mani della reazione borghese e delle classi dominanti, ma soprattutto nel lanciare appelli alle componenti politicamente più emancipate del sindacalismo operaio e contadino che non accettavano le pregiudiziali classiste del movimento marxista, affinché esse riconoscessero nel Fascismo l’unico movimento che avesse sinceramente a cuore non solamente il rinnovamento nazionale, ma ancor di più l’integrazione sociale delle masse lavoratrici nell’organismo dello Stato.
Il Fascismo non fu il parafulmine del vecchio sistema, e con tali premesse si giunse a una sinergica compenetrazione tra lo squadrismo e il sindacalismo rivoluzionario. Ambedue si riconobbero in una visione superiore dell’insurrezione nazionale e rivoluzionaria, quella che avevano raccolto dal pensiero di Filippo Corridoni: «E pur noi non vorremmo la ribellione della fame. A chi gioverebbe? Un uomo che impugna un coltello o un fucile per satollarsi è una forza puramente negativa: ficcategli nello stomaco una pallottola ed egli ritornerà nella cuccia. La rivoluzione non deve essere fatta da cani arrabbiati. La rivoluzione non deve essere opera di un ventre vuoto o di uno stomaco stiracchiato, ma bensì di un cervello sano e fresco, che medita una vita di giustizia e di equità e che vi vuol giungere a tutti i costi, anche attraverso alla violenza, ma organizzata e intelligente.»
Dal sansepolcrismo diciannovista fino al momento della marcia rivoluzionaria, gli squadristi fascisti dimostrarono con i fatti nudi e crudi di essere veramente degli uomini nuovi, integralmente rinnovati nello spirito, un’aristocrazia politica e combattente forgiata nell’asprezza della lotta. Una compagine che seppe scrivere con il proprio sangue pagine epiche di coraggio e di ardimento affrontando la violenza assassina delle bande marxiste e la repressione governativa dei prefetti, dei giudici e dei gendarmi.
La forza rivoluzionaria squadristica delle camicie nere che il 28 ottobre riversò tutto il suo entusiasmo e la sua volontà di conquista e di vittoria marciando verso Roma per scardinare definitivamente le infrastrutture di una società politica ormai decrepita e fatiscente, volle portare a compimento le tante aspettative covate dagli squadristi nel corso di quella violenta e sanguinosa stagione che avevano vissuto in prima linea, avendola attraversata con tenacia e sacrificio portandone addosso le cicatrici, pur di rifondare un nuovo consesso civile e politico, uno Stato organico ed autorevole che avrebbe potuto sanare le lacerazioni che affliggevano il corpo della nazione promuovendo la rigenerazione morale e materiale della nazione. All’insegna di una concezione fascista della vita che loro vollero proporre nel suo nucleo più intransigente, più puro ed autentico e soprattutto al di fuori di qualsiasi compromesso con il tramontato mondo liberale.
Il Fascismo aveva dichiarato una guerra senza quartiere ad almeno due secoli di storia, e Mussolini ne confermò più volte le motivazioni: «Noi siamo in guerra dal 1922, e cioè dal giorno in cui alzammo contro il mondo massonico, democratico, capitalistico la bandiera della nostra rivoluzione. Da quel giorno il mondo del liberalismo, della democrazia, della plutocrazia ci dichiarò e ci fece la guerra con campagne di stampa, diffusione di calunnie, sabotaggi finanziari, attentati e congiure anche quando eravamo intenti a quel lavoro di ricostruzione interna che rimarrà nei secoli quale indistruttibile documentazione della nostra volontà creatrice. »
Ponendo l’accento sulla matrice popolaresca, contadina, strapaesana e provinciale del moto rivoluzionario fascista, sul raccordo che si era venuto a stabilire tra le avanguardie fasciste e le espressioni popolari, sul ricongiungimento della nazione spirituale con la nazione sociale, il Fascismo non potette che avversare qualsiasi forma di atomizzazione del tessuto societario, e anche su questo tema Mussolini fu più che incisivo: «Io intendo di ricondurre con tutti i mezzi tutta la nazione ad una identica disciplina, che sarà superiore a tutte le sètte, a tutte le fazioni e a tutti i partiti.»
La concezione organicista del Fascismo fu una affascinante rottura epocale che troverà successivamente la sua cassa di risonanza nella propaganda ufficiale del regime fascista e negli scritti degli intellettuali militanti riconducibili alla visione del Fascismo più intransigente come nel caso di Romano Bilenchi, sodale di Berto Ricci: «Non bisogna mai dimenticare, nel giudicare la situazione politica dell’Europa e del mondo, questo: che il Fascismo è una rivoluzione in marcia contro il mondo capitalista, liberale, democratico, borghese, materialista, nelle sue forme corporee, cioè nei suoi istituti, e sopra tutto nel suo spirito.»
Per giungere infine alla concezione corporativa dello Stato fascista che identificava la società con la nazione, la nazione con lo Stato e le attività sociali e economiche subordinate alle prerogative dell’azione politica. La felice tripartizione della civiltà fascista che riassumeva organicamente la civiltà del littorio, la civiltà dello spirito, la civiltà del lavoro. Tutte queste aspirazioni erano già presenti, anche se talvolta a livello embrionale, nelle motivazioni politiche dell’insurrezione e nello spirito della marcia. Una rivoluzione in divenire.