Escursione sui Picchi di Aielli (AQ) – riflessioni

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(a cura della redazione di AzioneTradizionale.com)
La montagna, per chi la concepisca non come la ricerca del record o come semplice sport, ma come simbolo e strumento di un percorso interiore, non significa solo escursioni in gruppo, più o meno impegnative, dirette alla vetta di un monte. Esistono altri modi per viverla, altrettanto formativi. 
Uno di questi è quello dell’escursione in solitaria o anche della semplice camminata, purché vissuta con una certa disposizione. Andare da soli in montagna implica infatti maggior attenzione e preparazione: quante volte, infatti, senza neanche rendercene conto, ci affidiamo a chi nel gruppo è più esperto di noi, senza neppure domandarci in che direzione stiamo andando? Da soli, non ci sono margini per errori o distrazioni.
Inoltre, frequentare in solitudine luoghi di montagna permette di dedicarsi in modo pieno a dei momenti di riflessione, concentrazione o anche semplice ascolto della natura che ci circonda. Troppo spesso, anche inoltrati nei boschi d’alta quota, non ci leviamo dalla testa pensieri, preoccupazioni, o anche semplicemente il rumore o la musica che ci assilla in città. Andare in montagna non basta a trarre da essa beneficio: occorre approcciarvisi con apertura, cercando di liberare la mente ed entrare in simbiosi con l’ambiente circostante, il vento, gli alberi, gli uccelli.
È con questo proposito che una mattina, sfruttando le festività natalizie, siamo andati, la fedele amica a quattro zampe Mera ed io, ai picchi di Aielli, in provincia dell’Aquila. Raggiunta Castel Paganica, nella piana di Montereale e lasciata la macchina sulla strada che sale per il Monte Mozzano, una paziente camminata su strada sterrata, dopo un paio di tornanti, ci ha portato alla croce di Aielli, che segna 1179 metri. La giornata è fredda, ma il sole splende basso sull’altipiano, incontrastato da alcuna nuvola. 
Seguendo un sentiero, si sale su un poggio prima di arrivare ad una piccola cresta che porta agevolmente ai due picchi gemelli di Aielli, dove anticamente, la memoria popolare racconta, sorgeva un torrione di avvistamento. Pur essendo in quota relativamente bassa, lo sguardo si estende indefinitamente in ogni direzione, dal Gran Sasso al Terminillo, dal Lago di Campotosto ad Amatrice, dai Monti della Laga ai Sibillini, disegnando idealmente quel cuore dell’Italia martoriato dai sismi degli ultimi dieci anni. 
Mera corre per i prati ricoperti da un soffice strato di neve. L’altipiano, che conduce fino a Barete, è semideserto. C’è qualche casolare, e una mandria di cavalli protetti da un arcigno cane pastore. Il suo abbaiare minaccioso è l’unico suono che si estende da parte a parte del pianoro circondato da querce. Si tratta di uno dei tanti sconosciuti angoli dello Stivale che mantengono qualcosa di incontaminato, anche, invero, a causa dell’incapacità dei locali di attrarre il turismo che meriterebbe. 
Sulla via del ritorno, incrociamo un pastore. Il volto è caratteristico della valle amiternina: tondo, labbra e naso pronunciati, occhi leggermente allungati. Nel saluto che mi porge scorgo tanta dignità. La vita non è più dura, qui, come era una volta, ma lui è, consapevolmente o meno, custode di un tesoro antico quanto il mondo. Chissà se lui invidia la nostra vita urbana. Di sicuro io invidio la possibilità che ha lui di confrontarsi ogni giorno con ciò con cui i nostri Avi avevano la più intima confidenza: il freddo, il vento, la neve, il lavoro della terra, al passo con le stagioni, in lunghe giornate scandite dall’alba e dal tramonto. 
Ma, in fondo, il sorriso sicuro di questo pastore abruzzese non mi trasmette romanticismo o nostalgia, bensì un proposito guerriero. Se, ritornato nella vita soffocante e artificiale della metropoli, saprò condurre la mia battaglia personale con la sua stessa semplicità ed impersonalità, anch’io avrò un posto nel solco di quell’Ordine cosmico seguito dai nostri antenati.