Un ricordo di Giulio Bedeschi

1960

(dal profilo facebook di Amerino Griffini)
28 dicembre 1990
A Verona muore lo scrittore Giulio Bedeschi o, come si definiva lui, dando un preciso significato alla sequenza: “alpino, medico e scrittore”.
Era nato ad Arzignano, in provincia di Vicenza nel 1915, i primi anni scolastici li trascorse a Vicenza poi seguì le peregrinazioni della famiglia a Venezia e Forlì.
Si laureò in Medicina nell’Università di Bologna poi frequentò il corso Allievi Ufficiali medici all’Accademia di Sanità Militare di Firenze, concluso alla vigilia della guerra, nel 1940. Sottotenente medico partì volontario per la disastrosa Campagna di Grecia alla quale, per lui alpino,  seguì quella di Russia nell’estate del 1942, nella 3ª Divisione Alpina “Julia”.
L’ufficiale medico ebbe il suo da fare tragico fino al febbraio 1943 quando l’ARMIR (l’Armata Italiana in Russia) fu fatta a pezzi dalla controffensiva russa nel gelo della steppa.
Bedeschi, decorato due volte al valor militare, descrisse tutto il dramma della ritirata sul Don nel libro che diventerà un simbolo: “Centomila gavette di ghiaccio”.
Tornato in Italia tra i pochi sopravvissuti, si imbatté in un’altra sconfitta, questa volta anche morale, l’8 settembre 1943.
Nell’Italia spezzata in due tra il Regno del Sud e la Repubblica del Nord, scelse senza dubbi la RSI e, iscrittosi al Partito Fascista Repubblicano di Forlì divenne Segretario federale della città romagnola; assunse anche il comando di una delle tante Compagnie della Morte che si andarono formando in varie città tra i civili iscritti al PFR.
Quando, nell’estate 1944, il Partito si militarizzò ufficialmente costituendo le Brigate Nere, Bedeschi divenne automaticamente comandante di quella di Forlì, la XXV Brigata Nera “Arturo Capanni”.
Di lì a poco, seguendo le sorti della guerra, quando la Brigata nel novembre lasciò Forlì, destino volle che tornasse in quella nuova veste dove era nato, nel Vicentino dove la guerra civile era particolarmente crudele.
Assieme ai brigatisti si erano spostate anche le loro famiglie ormai troppo esposte alla furia dei nemici; un pezzo di forlivese trapiantato nel vicentino come il periodico della Federazione del PFR di Forlì, “Il Popolo di Romagna”, del quale Bedeschi era direttore e che continuò ad uscire a Thiene dove la Brigata Nera aveva posto la sua sede.
Ormai alla fine, nel marzo 1945, chiese a Mussolini un riconoscimento simbolico (un distintivo: la “M” d’onore) per il Battaglione d’assalto della sua Brigata Nera che a novembre, assieme ad un reparto tedesco aveva difeso Forlì, contrastando duramente l’avanzata degli Alleati sulle linee dei fiumi Ronco, Montone e Senio.
Dopo il 25 aprile 1945 le vendette assunsero dimensioni numeriche non quantificabili e un livello di ferocia difficile da descrivere; stragi che nella zona del vicentino proseguirono per mesi e mesi dopo la fine della guerra e che videro davvero di tutto, dall’uccisione di religiosi come quella del frate Giulio Dorfmann prelevato a Posina mentre faceva la comunione e soppresso in un bosco, a quella avvenuta sotto tortura del trentenne segretario del PFR di Thiene, Francesco Faccin; dalla Segretaria del Fascio di Arsiero e sua figlia, violentate e torturate per giorni prima di essere uccise, fino a quella dei 25 militi della Brigata Nera della quale era comandante Giulio Bedeschi, prelevati a Vicenza e soppressi in varie località della zona tra il 17 e il 19 maggio, o –  e non volendo aggiungerne altre – il fatto più noto avvenuto a Schio il 7 luglio 1945 (mesi dopo la fine della guerra) quando una banda di partigiani irruppe nel carcere dove erano stati ammassati i fascisti (veri o presunti che fossero) catturati a caso e ne uccise cinquantaquattro, tra i quali diciannove donne, a raffiche di mitra.
Giulio Bedeschi sopravvisse alla mattanza grazie ad aiuti di conoscenti, poi raggiunse la Sicilia dove si rifugiò per alcuni mesi a Ragusa.
Durante la latitanza un tribunale del Nord lo condannò alla perdita del diritto di voto per dieci anni.
Ritornato nel Veneto, riprese l’attività di medico ma decise anche di fermare sulla carta i ricordi del dramma della “Julia”.
Nel 1948 terminò la scrittura di “Centomila gavette di ghiaccio”, libro che aveva iniziato ai tempi della latitanza siciliana e che resterà il suo capolavoro sofferto nella memoria della stesura e anche nel travaglio successivo: Bedeschi dovette riscriverlo perché il manoscritto originario andò distrutto nell’alluvione del Polesine del 1951; poi dovette fare i conti con la sua biografia politica; tutti gli editori ai quali lo presentò rifiutarono la pubblicazione per anni, segno evidente del perdurare di un clima di guerra civile.
Fu l’editore milanese Ugo Mursia – un partigiano di Giustizia e Libertà – che nel 1963 finalmente prese la decisione coraggiosa che divenne anche una scelta fortunata perché il libro ebbe un successo enorme: centotrenta ristampe, traduzioni in varie lingue, vincitore di Premi come il Bancarella….. alcuni milioni di copie vendute.
Al primo libro ne seguirono molti altri: “Il peso dello zaino”, “La rivolta di Abele”, “La mia erba è sul Don”, “Il Natale degli Alpini”,….
L’ANA, l’Associazione Nazionale degli Alpini che non accettava tra le sue fila i “fascisti” della Divisione alpina “Monterosa” che avevano affrontato gli Alleati sul Fronte della Garfagnana nell’inverno 1944-‘45, con italica incoerenza intitolò all’alpino Bedeschi anche il suo Premio letterario (tacendo però sul percorso umano nella RSI del suo autore).
L’ultimo libro di Bedeschi, “Il segreto degli alpini” è uscito postumo, sempre da Mursia, nel 2004.