
Sei stato assegnato a una squadra particolarmente dedita all’abnegazione. La squadra è composta da te e dal tuo capo. Tra i due, chi è votato all’abnegazione senza limiti non sei tu. Non puoi far altro che attenerti ai suoi ritmi onerosi e spossanti. Il tuo capo non si stanca mai. Quando pensi di aver già dato abbastanza, lui è già lì a dare qualcosa in più, a chiederti di seguirlo e fare altrettanto.
Sei sfinito. Compi ogni azione che ti richiede come se fosse l’ultima, la vivi con la speranza che sia l’ultima. Agogni il riposo. Caldo. Sole. Sudore e fatica sulla tua pelle sporca. I muscoli tremano e il fiato è corto. Il sole del sud è alto. Picchia forte e tutto è fermo, silenzioso, immobile. Neanche le cicale cantano. Neanche i cani latrano. Nella sala del pasto comune i tuoi fratelli già bevono, ridono, puliti scherzano, chiacchierano senza pena. Il brusio spensierato, da fuori, dove tu sei ancora a sudare e patire, ti sembra un richiamo irresistibile.
Vorresti gridare: “Basta! Anche io vorrei…“. Ma tu non puoi, perché devi camminare, avanti e indietro, di fronte a quella porta. Senti l’odore del pasto comune servito nei piatti. Sono tutti lì. Tranne te e il tuo capo. “Perché non continuiamo dopo?“. Silenzio. Ti presenti da lui e ti chiede di tornare nel magazzino a prendere l’ennesimo utensile che ancora una volta gli manca. Attraversi la strada davanti al refettorio. Profumi inebrianti fuoriescono mentre tu sudi. Torni dal tuo capo. “Hai sbagliato utensile“. Torni al magazzino. Le gambe sono pesanti e lo stomaco brontola. Guardi da fuori la sala, davanti la quale ti trascini a fatica per l’ennesima volta. Sono tutti seduti, i sandali ai piedi profumati. Torni dal tuo capo. “Vai a prendere quest’altro utensile“.
Un urlo sale dalle viscere più profonde del tuo fegato, vorrebbe esplodere ma riesci a mala pena a frenarlo con un nodo stretto alla gola. Torni in magazzino. Nelle scarpe sporche ai piedi sei pieno di terra. In bocca la polvere, le fauci secche, il volto segnato. Da dentro, senti qualcuno ridere e cantare. Tu non hai la voce per farlo.
Entri nel magazzino. Lo sbalzo, dalla luce alla penombra, rende tutto improvvisamente scuro. Ti senti svenire. Ti pieghi, prendi l’utensile richiesto. Vorresti restare lì, buttato a terra, al buio e non rialzarti mai più.
No, forse non vuoi neanche più mangiare, bere o bivaccare con gli altri. Ti rialzi, senza capire come e perché. Ti volti e riprendi a camminare senza voler camminare, lentamente, sotto il sole cocente, fai passi che non sembrano i tuoi. In lontananza il vociare felice, riposato, pulito non ti sembra poterti appartenere più. Lo sconforto sembra svanire finché le gambe si alleggeriscono e la smorfia sul viso si distende.
Non vuoi più nulla, non sei più quello che vorresti. Ti chiedi: “perché dovrei essere altrove da dove sono? Perché dovrei essere altro da quello che ora sono? Perché dovrei voler essere qualcuno diverso da quello che sono?“. Mentre cammini un senso profondo di leggerezza e di libertà ti pervade. Profonda pace e serena sensazione di unità. Una luminosità crescente ti innalza e ti porta non sai dove, fino a permetterti di osservare qualcuno che cammina leggero e presente, fino a vedere che tu, ora, sorridi.
Il sole risplende e tu non sei altro che un tutt’uno con Lui. Chiudi e riapri gli occhi. L’attimo è svanito e quella sensazione è sparita. È passata ma qualcosa è rimasto scolpito nel tuo cuore e, da allora, nei momenti del più cupo sconforto, non puoi far altro che appellarti al suo ricordo, sforzandoti di poterlo rivivere e forse, un giorno, coglierlo di nuovo, fosse anche solo per un altro, balenante attimo fugace.
