
(riceviamo e pubblichiamo questo articolo a cura di un nostro lettore, Venge)
L’insostenibile vacuità del Giuseppi… ovvero, prove generali di una detenzione di massa
L’equinozio primaverile non aveva ancora rintoccato; le primule, ancora intimidite dai bizzarri freddi tardo-febbraioli, e tuttora acchetate da gelidi venti, non erano sbocciate nei loro tipici grappoli, capolini e ombrelle, che anche qui era già scattata la quarantena preventiva, ratificata mediante un decreto approvato nottetempo. Ma riavvolgiamo per un attimo il bandolo degli eventi: mentre il 30 gennaio l’OMS dichiarava l’emergenza globale, e l’impero del mandato celeste, seppur con un colpevole e strategico ritardo, stava organizzando ufficialmente le misure necessarie al contenimento del virus, contando già 170 morti e 7736 contagi in patria, più altri 18 Paesi coinvolti, in Italia si alternavano patetici teatrini xenofili, diretti da improbi passacarte (con tanto di involtini primavera strafogati voracemente in prima serata, in segno di genuflessa autoflagellazione), a sdrammatizzazioni al limite del parossistico, inscenate dai disonorevoli di turno che affermavano che si trattasse di 《semplice influenza》, e che 《non ci siamo fatti trovare impreparati. È tutto sotto controllo》. Parole che denotano una tale negligenza e scollamento dalla realtà, in quei giorni già febbrili, da dover essere incise nella pietra per le generazioni avvenire, come monito all’incompetenza del governo più a sinistra (è opportuno ricordarlo) della Storia repubblicana.
Il clima di urticante distensione, imposto tacitamente dall’esecutivo che, come riportato finanche da una nota del Ministero della sanità, risultava informato dei fatti sin dal 5 gennaio, continuava a comprimere la percezione generale del problema, quando altrove interi Stati si stavano mobilitando per ovviare alle drammatiche conseguenze che un’epidemia avrebbe comportato. Un balzo in avanti di quasi un mese al 23 febbraio scorso e il Conte bis emana, con una titubanza senza pari manifestata nei giorni precedenti, scandita da chiusure e pronte riaperture di scuole ed esercizi commerciali, un decreto-legge degno dei suoi legislatori: vago, impacciato e liberticida. Sulla costituzionalità o meno di un simile decreto, che solleva non pochi dubbi sull’ottemperanza alla gerarchia delle fonti, se ne occuperanno eventualmente giuristi e costituzionalisti assai più ferrati dello scrivente, sempre che ve ne siano o escano allo scoperto, dato il clima di universale reverenza solitamente riservato ai potenti in carica, almeno inizialmente, durante le catastrofi e le misavventure di vario tipo, e le prevedibili ostilità sociali e professionali che vengono indirizzate a chi osa discutere sulla “giustezza” di suddette misure. Poco importa se coloro che intendono traghettare la nave verso lidi più sicuri siano gli stessi che l’hanno ridotta a una bagnarola galleggiante in nome del globalismo rampante e dell’europeismo d’accatto; poco importa che la sanità in Italia sia stata oggetto di tagli nell’ordine di 37 miliardi negli ultimi 10 anni (tagli tecnicamente intesi come “deviazioni delle risorse destinate al SSN”, in particolare a partire dal decreto Stabilità del 2013, ammontanti a 25 miliardi nel periodo 2010-14, e veri e propri “definanziamenti” alla sanità pubblica nel quinquennio 2015-19, per un totale di altri 12 miliardi, principalmente imputabili ad una crescita di investimento annuo dello 0,9% in rapporto ad un’inflazione annuale in aumento al ritmo dell’1,07%), che il collasso, gli ospedali, lo sfiorano ad ogni cambio di stagione da almeno un decennio: adesso c’è il Coronavirus e tutti devono allinearsi.
Il nostro sistema sanitario non brilla di luce propria da tempo immemore (almeno dagli inizi dei Settanta, quando il Paese fu avviato ad un lento e agonizzante smembramento industriale), tuttavia, pur con la buona volontà di svariati medici e infermieri qualificati, i continui “ridimensionamenti di spesa” nel settore, governo dopo governo, hanno provveduto a un personale sempre più ridotto all’osso, specie nel primo soccorso, a macchinari e strumentazioni sempre più carenti, alla scarsa manutenzione di quelli già in funzione, e all’incuria di molti locali ospedalieri; questo senza considerare le cieche politiche di privatizzazione e la cateratta del numero chiuso a monte, che costringe tanti aspiranti e promettenti studenti in medicina ad essere esclusi dal computo dei futuri dottori, di cui, mai come in questo periodo storico-culturale, abbiamo maledettamente bisogno. Ora, il punto nodale di questa immanente congestione è un altro: cosa ci attende da qui innanzi, sotto il profilo della nostra quotidianità, della nostra libertà personale? È un aspetto che, paradossalmente, non aveva mai turbato molti di recente, avvezzi come siamo ai tran-tran della postmodernità fluida e nomade, sempre pronti a commistare, sacrificandola sull’altare dell’accettazione sociale, l’individualità raminga con la moltitudine acefala; tuttavia, interrogarsi in merito alle implicazioni che una situazione emergenziale, con risvolti pandemico-infettivi, pone è quantomai impellente. Al di là del comprensibile lutto patito, e tuttora in patimento, da parte delle famiglie delle vittime, e oltrepassando, senza però glissare, lo sforzo imponente del personale medico, la mortalità effettiva del Covid-19, a scanso di dati parzialmente rilevati in via ufficiale, età media dei defunti e “tasso di curabilità”, risulta essere estremamente bassa, attestandosi attorno all’1/1,5% dei contagi, basandosi sui riscontri cinesi e coreani.
Sono dell’idea che si debbano tirare in campo numerosi fattori, politicamente logistici da un lato e fisiologicamente clinici dall’altro, per disvelare un quadro che, più passa il tempo, più qualcheduno vorrebbe far rassomigliare ad un arcano inconoscibile. Procediamo felpatamente per gradi: il numero dei contagiati ufficiali, come addirittura ammesso dal commissario straordinario durante una delle ultime, quotidiane conferenze stampa, sta a rappresentare a occhio e croce un decimo di quello reale nella popolazione, e non certo perché i tamponi siano stati effettuati a tappeto, au contraire; come esplicitamente previsto dalle direttive dell’esecutivo, non tutti possono sottoporsi al tampone per la positività al Covid-19, ma solo coloro che presentano sintomi gravi, quali tosse persistente, febbre alta e affaticamento respiratorio, e sono entrati a contatto con almeno un caso positivo acclarato, precedentemente verificato. Già qui è evidente il Comma 22 che ha ispirato la direttiva, estromettendo così da un’accurata verifica la stragrande maggioranza degli infetti (oltre l’80%) che, a giudicare dai riscontri emersi in Cina, sarebbe asintomatica, ma ancora in grado di spargere il virus. A ciò si aggiunge la scarsezza di reagenti, microscopi e personale da deputare pressoché esclusivamente al testaggio di campioni rinofaringei di milioni di italiani, da ripetere, eventualmente, a distanza di un paio di settimane, per l’opportuno monitoraggio; procedure impraticabili in un Paese che lesina perfino sugli strumenti di prima profilassi.
Mi domando dove fossero tutte queste anime belle, che osannano le forze dell’ordine e assurgono, quando a eroi, quando a martiri, gli operatori sanitari che fronteggiano questa epidemia, prima che l’attenzione fosse stata sopra levata; quando semplicemente, oggi come ieri, facevano il loro lavoro, il lavoro che hanno scelto di svolgere, tra l’indifferenza, la trascuratezza dell’uomo comune. Le loro battaglie giornaliere erano forse meno meritevoli dell’interesse collettivo, prima che la pandemia si abbattesse, prima che il senso di colpa ingenerato tra le masse fungesse da ansa per l’autoreferenzialità opportunistica di un esecutivo non eletto, contemplato, dalle medesime masse, attraverso la lente di una ritrovata celebratività in seguito ai calanti consensi? Non saranno da scomodare i posteri acciocché l’antonomastica sentenza venga pronunciata: da una sponda, il terrorismo mediatico che ci bombarda giorno e notte sul rischio angosciante di venire infettati, al passo funereo del totale dei caduti, recitato come in un macabro bollettino di guerra, e la risultante, quanto comoda agiografia dei reali addetti ai lavori di questa calamità, dall’altra, ha portato unicamente alla proroga del termine ultimo dell’esecutivo che, prima del decreto dell’8 marzo, esattamente in data 20 febbraio, traballava ancora una volta sui numeri in parlamento necessari alla tenuta di governo, dietro un allora sempre più decisivo Renzi, forte della sua rinnovata posizione di ago della bilancia, con 30 deputati e 18 senatori pronti a fare fuoco amico. Già si vocifera, a reti ampiamente unificate, di un concreto prolungamento dei precauzionali tempi di domiciliazione forzata, che i più accorti respiravano nell’aria da 2 settimane a questa parte, consci che, come esposto da numerosi infettivologi, i numeri dei contagi non si placheranno a breve, data la capacità di diffusione del virus e la sua permeabilità negli aggregati umani, con tempi di incubazione superiori anche a 20 giorni. Insomma, un’autentica botta di culo per Giuseppi che, nella sua insipienza da azzeccagarbugli, e col beneplacito di svariati virologi che annunciano da settimane una lunga convivenza dell’umanità col Coronavirus, potrà restare incollato allo scranno per molto tempo ancora, cavalcando pretestuosamente la pandemia in atto per irrobustire ulteriormente le misure da stato di polizia adottate sinora, e confinando i cittadini ad una “vita da teleutenti”, normalizzandola.
Ma c’è di più. A coronazione dei mirabili risultati sin qui ottenuti, Conte si starebbe muovendo pericolosamente, con fare ammiccante, verso la richiesta del MES per l’Italia, sfruttando la drammatica situazione contingente: una mossa davvero astuta per mascherare de facto la schiavitù della nazione alle banche d’affari da provvidenza umanitaria. Una possibilità che, ben lungi da una chimera immaginata dai “sovranisti”, si fa sempre più tangibile, anche in virtù di una liquidità che l’esecutivo sta promettendo a milioni di italiani da metà marzo, ma di cui ancora non si è visto un euro. E pensare che alcune antiche civiltà, quando colte da una catastrofe, solevano sacrificare i propri governanti agli dei, in segno di invocata clemenza. Dico per dire.
Venge