Letto da un militante | Com’è difficile cavalcare la tigre

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Com’è difficile cavalcare la tigre

di Renzo Giorgetti

Solfanelli, Chieti, 2020

Pagine: 144

€ 12,00 

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recensione a cura di Heliodromos

Cantava Franco Battiato: «com’è difficile trovare l’alba dentro all’imbrunire», giovandosi di una felice intuizione, probabile frutto del suo lavoro interiore (che in tante altre parti della sua opera ha lasciato il segno), o forse anche di buone letture, meditate e assimilate nel modo migliore e meno superficiale possibile. A quel vecchio verso della Prospettiva Nevski ci ha fatto ritornare con la memoria il titolo di questo nuovo lavoro di Renzo Giorgetti (dichiaratamente sulle tracce della corrispondente opera evoliana, rivisitata alla luce dell’ultima rivoluzione, quella digitale); e non solo per il coincidere di buona parte delle parole, ma, soprattutto, per il profondo significato dell’uno e dell’altro assioma. Detto che “difficile” non vuol dire “impossibile”, bisogna riconoscere che, sia Battiato sia Giorgetti lasciano ampio spazio alla speranza di riuscita di ognuno nel compimento dell’impegno primario dell’esistenza umana.
L’apparente e illusoria fantasmagoria del mondo moderno, che «cela un’ombra oscura sempre più minacciosa, promessa di disfacimento», a causa di «un panorama di mancanze: senza più principi, autorità, identità, religione, senza più nemmeno arte, completamente privati della coscienza del proprio ruolo e della propria forza», ci fa vivere all’interno di «una realtà crepuscolare, tenebrosa, ormai declinante». Le migliori intelligenze si sono spese nella minuziosa descrizione di un tale stato di cose, per cui in questa direzione si potrà continuare solo ad aggiungere tasselli sempre più foschi e disperanti; salvo proporsi, come fa Giorgetti con questo prezioso volume, di «aiutare chi ancora lotta e vuole brillare di luce propria», indicando i pericoli, gli inganni e i possibili mezzi per evitarli.
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Un contributo, quindi, propositivo, che guarda in avanti e oltre l’apparente ineluttabilità di questo “imbrunire”, «per formare nuclei [noi di Heliodromos le chiamiamo “Unità Operanti”] in grado di resistere e sopravvivere all’ambiente ostile (…) attivamente lottando, ognuno alla propria maniera». E siccome l’attacco principale viene portato allo Stato Umano, in tutte le sue componenti, è indispensabile mantenere, conservare e difendere (nei pensieri, nei gesti e nelle stesse parole pronunciate) la dimensione umana, sottraendo il nostro Fronte alla disperazione dilagante che soffoca e annienta ogni richiamo al Cielo e alla bellezza del Manifestato. E anche qualora dovessero avverarsi le più nere previsioni, risultando insufficiente e inefficace il nostro impegno al cospetto dell’evidente sproporzione materiale messa in campo, non si può comunque dimenticare che la «retta azione è in sé conclusa perché ha già in se stessa il proprio significato e la propria ricompensa»; che poi coincide con l’asserzione evoliana che, comunque, «si è fatto quello che doveva essere fatto».
Per quanto noi si sia costretti a respirarne l’aria, a berne l’acqua, a mangiarne il cibo e ad usarne gli strumenti, l’attuale realtà, sottolinea opportunamente Giorgetti, non ci appartiene «essendo noi i rappresentanti di valori più arcaici, “superati”, minoritari e comunque inapplicabili», ad una società ridotta allo stato attuale di decadenza. Questo ci porta a ribadire convintamente il proposito più volte espresso del “non prendere parte, pur continuando a fare la nostra parte”, evitando di disperdere tempo ed energie in attività politiche inconcludenti, in vista di illusori cambiamenti determinati dall’esterno e sulla “facciata” dell’edificio marcescente. Del resto, bisogna farsene una ragione, «il mondo non ha nessuna voglia di essere salvato» (di Testimoni di Geova che vanno a suonare i citofoni, in giro ce ne sono già abbastanza!); e la nostra aspirazione non può consistere nell’essere «legittimati da un mondo putrido». E in ogni caso, la dottrina tradizionale ci fornisce sufficienti strumenti per poter comprendere pienamente il contesto ciclico in cui stiamo vivendo, dove qualunque coinvolgimento sentimentale può risultare devastante; dovendo il nostro atteggiamento essere piuttosto improntato a «rafforzare il nostro distacco dal presente (…) per minare dalle fondamenta l’edificio di fango che crede di ergersi imperioso, solenne coronamento di secoli di progresso, ma che in realtà non è altro che uno stravagante cumulo di rifiuti»
Julius Evola
Quello che, intanto, non solo si può ma si deve fare è lavorare sugli uomini «affinché possano riscoprire e coltivare conoscenze e valori, per poi a loro volta dare questa possibilità a chi verrà in seguito», mantenendo quella catena ininterrotta, in cui consiste in fondo l’idea stessa di Tradizione, che proseguirà fino al momento in cui la nuova alba verrà – a dispetto di ogni imbrunire – ad illuminare e rivivificare principi che sembravano morti. Non scordandosi mai, nel frattempo, che con le forze distruttive non si può assolutamente scendere a patti, né tanto meno si può presumere di poterne fare uso a “fin di bene”, rischiando, come è già successo tante volte in passato, di diventarne strumenti inconsapevoli. 
E la non collaborazione deve cominciare dall’espressione del pensiero (l’Autore, a tal proposito, fa una lucida disamina dei nuovi strumenti che la tecnologia ha messo a disposizione, con le loro indubbie potenzialità, ma con gli altrettanto seri pericoli a cui vengono esposti i fruitori, in fatto di ridotte capacità di attenzione, concentrazione, memorizzazione e apprendimento), che non può assoggettarsi a criteri opportunistici e remunerativi, dovendosi «sempre diffidare da chi è pagato per esprimere un’opinione». Per cui, nemmeno l’evidente fragilità e precarietà di tali forze – a dispetto del pervasivo sviluppo delle sue capacità materiali di controllo e dominio – deve farci abbassare la guardia, non essendo nostro compito «né puntellarle né abbatterle, ma con la giusta dose di distacco» osservarle, «onde trarre dalla situazione i migliori vantaggi strategici». Limitando quindi al minimo indispensabile i contatti e le dipendenze da tale mondo, partendo dal chiaro e ovvio presupposto che tutto ciò che esso produce e mette in campo rappresenta un’arma puntata contro i suoi consapevoli avversari e le sue ignare vittime.
Per quello che Evola (nella sua personale “cavalcata”!) chiamava l’“uomo differenziato”, come ribadisce ora Giorgetti, la realtà attuale appare in tutta la sua illogicità ed estraneità, dove «norme e regole convenzionali sembrano non avere più importanza, valori spacciati come sacrosanti si mostrano nella loro falsità, obiettivi e scopi che animano le masse appaiono vani se non ridicoli». Questa lontananza comporta l’inevitabile «ritiro su una linea più interna di difesa», che non si configura come fuga e diserzione, quanto piuttosto come «realistica presa di coscienza che il fronte è sempre più arretrato, giunto ormai alla frontiera individuale». E, in ogni caso, il concetto stesso di “fronte” mantiene viva, attuale ed immutabile l’idea di una guerra che si vuole continuare a combattere (“non potendo noi fare altrimenti!”); dove la «conoscenza dei punti deboli e di quelli di forza (propri e altrui) già costituisce un risultato importante», nel momento in cui alla Conoscenza si farà inevitabilmente seguire l’Azione.  
L’Autore, pur rifiutandosi di iscrivere questo suo contributo alla lunga lista della “letteratura della crisi” già esistente, non può comunque esimersi dal fornire, per chiarezza e come base di partenza indispensabile, una sommaria descrizione del contesto ciclico in cui ci si muove, e, partendo dalla “concezione qualitativa del tempo”, mostrare il processo ineluttabile che, nell’arco  temporale che va dalla fine dell’ecumene medioevale ai giorni nostri, attraverso «sopravvivenze, ritorni, cadute, fasi contraddittorie, decadenze e rinascite», hanno condotto e trascinato, sempre in direzione discendente del percorso della spirale, l’umanità dei tempi ultimi, assoggettata all’influsso distruttivo della dea Kalì.
Siccome l’uomo della Tradizione vuole porsi in modo attivo di fronte ad un mondo che gli suscita solo disgusto, repulsione e ribrezzo, egli deve, come già ricordato, operare in primo luogo su di sé, facendo tesoro dell’immenso bagaglio di conoscenze ed esempi che il passato gli ha trasmesso, a testimonianza di ciò che non muore mai. «L’eroe dapprima si forma e solo in un secondo tempo pensa ad attività che vadano oltre la sfera del privato», e per formarsi deve risvegliare in sé tutte quelle virtù che in ogni epoca hanno distinto il Vir e l’Uomo nobile da colui che, essendo schiavo nell’anima, è destinato a condurre un’esistenza equiparabile a quella dello stato servile. D’altronde, quando si parla con ammirazione e nostalgia delle gloriose istituzioni del passato, lo si fa col sottinteso convincimento di star descrivendo realtà utopiche, improponibili e lontanissime da noi. Ma, se veramente si attribuisce, per esempio alla Monarchia, un valore superiore rispetto al caos democratico, cosa ci vieta di cominciare con l’«istituire la monarchia nella propria anima», cominciando ad eliminare il caos là dov’è possibile intervenire?
La lettura di questo libro, già importante come chiarimento e spiegazione del momento attuale, diventa fondamentale nel momento in cui propone (col capitolo conclusivo intitolato “La Comunità”) una soluzione ed una possibile via d’uscita, a quanti si sentono totalmente estranei e lontani dalle forme di esistenza venutesi a delineare nei tempi ultimi. Dove Giorgetti “ci invita a nozze”, evocando le sue indicazioni i medesimi intenti, propositi e obiettivi che da sempre fanno parte dell’”attrezzatura” approntata per condurre in porto la nostra azione militante. Quando, per esempio, viene proposto al ribelle – rappresentando egli e i suoi simili una minaccia per il sistema, che non accetta e nemmeno concepisce possibili alternative a se stesso –, il distacco di chi nutre «valori differenti, che porterà a pensare e agire di conseguenza, senza più dare importanza alle imposizioni e ai dogmi del pensiero dominante», e il darsi alla macchia «del disadattato che però è anche nobile, la persona di valore, il rappresentante di un altro mondo, colui il quale si distacca dagli schemi del controllo sociale e adotta idee e modelli che, nei limiti del possibile, gli garantiscono l’indipendenza».
Citando Sun Tzu e il suo L’arte della guerra, avvalendosi quindi dei principi del Tao, l’Autore ci ricorda che: «Quando si è senza forma, neanche gli agenti segreti più profondi sono in grado di spiarci, né gli uomini più intelligenti di tramare progetti», dando così un’indicazione che potrà risultare preziosa nel momento in cui ci si porrà il problema di attivare questi ribelli. Non bisogna però cadere nella trappola dell’appagamento, del considerare cioè concluso il proprio percorso esistenziale nel momento in cui si è individuato e compreso il vero volto e le sinistre sembianze del potere che regge il mondo moderno. Il vero impegno, infatti, comincia solo adesso, quando «dovrà formarsi una nuova aristocrazia, determinata, preparata, inaccessibile, che sappia mantenersi viva e operante per combattere, costruire e discriminare, fornendo un’alternativa che sarà valida in ogni caso, anche solo come testimonianza». Facendo quindi coincidere la propria natura – una volta che si sia cominciato a conoscere se stessi – con lo schieramento a cui votare il proprio essere, in tutta la sua integrità.     
Renzo Giorgetti, Com’è difficile cavalcare la tigre, Solfanelli, Chieti 2020.

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