Una salita notturna all’Ospizio Sottile

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Sono le 4.15 del mattino quando l’ultima casa e l’ultimo lampione sono alle mie spalle. Davanti ho l’inizio del sentiero, una salita di sette chilometri e mille metri di dislivello; un rifugio in vetta ma, tra me e lui, un mare di buio assoluto. Sono solo.
Accendo la luce frontale che illumina, attorno, solo schiere di tronchi, una falena, le pietre dure del sentiero. Nessun suono, nemmeno gli uccelli si sono ancora svegliati; non ho paura, perché so che nei boschi non vi è male, quando non sono inondati dalla nostra cattiveria e dalla nostra volgarità.
La prima parte della salita è penosa per via delle vene d’acqua che serpeggiano sulla mulattiera e al buio la rendono una scala scivolosa. Rapide curve mi portano subito in alto sull’abitato; la costiera del lago artificiale è una linea di luci là in basso, ma non ci bado: guardo piuttosto le stelle e Venere che sembra sospesa sopra gli alti pascoli a Occidente.
La sera prima, meditando su questa strana salita, la parte più pesante di me mi ha aggredito di domande. Dormirai abbastanza? Tornerai in tempo per iniziare a lavorare? E se trovi animali sul sentiero? E se piove? Potrei continuare per una pagina intera di domande. Quando la porta di casa si è aperta e sono uscito, mi sono sentito avvolgere da un buio molto più fitto di quanto avessi calcolato. Ho malfidato nel Solstizio appena trascorso.
Mi sorprendo, mentre salgo, a trattenere il fiato e a compiere passi molto più rapidi e ampi di quelli che più volte ho calcato su quella stessa salita. Ma allora non ero solo, allora c’era il sole e una prospettiva di luce. Qui, invece, non si muove una foglia e, solo faticosamente, gli ultimi silenziosi uccelli notturni cedono il passo al coro del mattino.
Un’alba tenue e celeste, lentissima, inizia a trasparire alle rare svolte del sentiero che aggettano sul vuoto, nude di bosco. Appena appena sufficiente a illuminare le povere tracce di umanità che, ogni tanto, mi appaiono familiari: una targa per qualcuno che da molto tempo è caduto; un crocifisso di legno; un segnavia.
Finalmente lascio il bosco alle spalle e mi inoltro contro il vociare del torrente che raccoglie le ultime nevi. Una morena antica, che da mezzo millennio è solcata di sentieri e che ospita baite in rovina, stalli, ampi prati che ancora la gente del luogo ha cura di utilizzare. Lontano, nella prima luce, il rifugio mi appare per la prima volta da quando sono partito. Un’illusione di vicinanza.
L’Ospizio Sottile, la mia mèta, fu costruito quasi trecento anni fa come ricovero per i commercianti e i viaggiatori. Oggi in fondo è un rifugio come tanti, ma ha conservato un’apparenza severa, un profilo più di fortezza che di luogo di svago. E poi, oltre il passo su cui sorge, si ha una finestra di rara bellezza sui contrafforti rocciosi del Biellese: una finestra a Oriente.
Mi affatico per superare nevai che intralciano ancora il sentiero e, finalmente, vedo la prima lancia del sole che sfiora le cime attorno a me. L’incantesimo della notte è spezzato e, con la luce, un vento tiepido inizia a soffiare dal passo. Da quanto tempo non camminavo in solitudine, da quanto tempo non misuravo il cammino senza avere uno scopo materiale. Si sale, nel buio della notte, solamente per ammirare il Sole!
A fatica guadagno l’ultima cresta che conduce alla sommità; il rifugio si nasconde alla vista, ma il cammino è ben segnato. Nessun abitante del bosco né delle desolate pietraie si è degnato di far cenni al mio passaggio: né per paura, né per diffidenza, né per curiosità. Un buon segno, per me, perché non voglio essere altro che un passaggio fugace in questa terra molto più antica e grande di me.
Arrivo al ripiano del rifugio accolto dalla pietra miliare che qualcuno, ormai dimenticato, ha piantato lì in un giorno qualunque del 1767. Napoleone – per fortuna – non era ancora nato, ma la pietra guardava già lo stesso paesaggio. Mi fa pensare ai duecentocinquantatré inverni che ha vissuto e alle mani antiche che l’hanno sfiorata; a quelle che la sfioreranno quando non sarò più.
La salita è finita; una sedia di legno, abbandonata chissà quando, punta già in direzione del sole. Il rifugio è muto, chiuso, a beffa del suo nome. Ma non importa. Sono da poco passate le sei e attorno a me, per chilometri e chilometri di lontananza montana, non c’è nessuno. Non ci sono le scadenze con i loro denti aguzzi, non ci sono i commenti di chi ama e chi odia, non vi è altro che vicinanza al cielo e questo continuo, tiepidissimo vento che sembra venire dal sole che sorge.
Il tempo di pochi minuti ed è già ora di tornare; di impegni più o meno obbligati, di immergersi nel divenire, di affrontare i miseri grattacapi che la vita di questo mondo ci impone. Scendendo incontro tre uomini disadorni: li battezzo istantaneamente Boldi, Pozzetto e Cencio Lavato. Mi vedono, mi apostrofano con uno sgraziato “Ué! Ma sei il custode?”. Hanno due cani magrissimi che scimmiottano l’aspetto di lupi. “Son partito presto”; e questo basta. Cencio Lavato abbozza un saluto. Ma taccio, perché comprendo che questo incontro segna la fine delle distanze e impone un ritorno a quello che giù attende.
A redimere questi figuri ci pensa un anziano, al bordo di un campo: è l’ultima curva del sentiero. Un sorriso sincero, due parole; si torna a casa.