“The Social Dilemma” di Netflix è contro i social?
973
Su Netflix è sbarcato “The Social Dilemma“, il nuovo documentario di Jeff Orlowski che ha avviato un dibattito mondiale sul ruolo e il senso (più o meno occulto) dei social network. Il “Dilemma” che si propone l’autore è sostanzialmente se e cosa possiamo fare per invertire le logiche persuasive dei social network, che esistono e condizionano in maniera occulta (ma non troppo) le scelte degli utenti.
E’ un dilemma, appunto e non una scelta a tutto tondo, cioè libera. Si tratta cioè di scegliere come approcciare i social, ma non si contestano i social né come strumenti né in riferimento al contesto socio-culturale che li ha prodotti. Quindi, chi pensa che questo docufilm sia un invito al boicottaggio dei social, sbaglia. E qui sta il grande inganno del documentario. Si vuole stimolare presa di coscienza collettiva, per riportare i social a una sorta di origine in cui erano degli strumenti neutrali, nati quasi per fare del bene (es. Facebook che si dice nacque come una sorta di reazione sentimentale del suo creatore all’abbandono della sua ragazza) e non ciò che sono diventati, cioè degli strumenti commerciali e pervasivi.
Accettando il “Dilemma”, appunto, dovremmo, implicitamente, aderire già a questa prima vera menzogna: c’è stato un momento in cui i social network erano buoni, gratis e realizzati per il bene dell’umanità. Falso! Nessun social network ha raggiunto uno stadio maturo e di diffusione sul mercato senza che già non fosse stato pensato come una macchina perfetta per fare soldi utilizzando come merce di scambio l’attenzione e il tempo dei suoi utenti. Questo secondo il vecchio, ma sempre verde principio per cui se in economia una cosa è gratis, allora “tu” sei la merce in vendita (che qualcuno paga per te, gli inserzionisti a cui i social vendono la “merce”, appunto).
Non è un caso, perciò, che ad essere intervistati sono soprattutto dirigenti e programmatori di Facebook, Google, Instagram. Certamente, le persone più titolate a parlare dei social avendoli sviluppati dall’interno, ma anche quelli che queste piattaforme le hanno generate e, quindi, le più disposte a considerare la premessa di cui sopra e l’idea che bisogna tornare a questo “Eden” del tutto teorico e mai esistito. Del resto, il fatto che un documentario sul problema dei social vada in onda su una piattaforma di film/serie “social“, che sfrutta le stesse dinamiche di quanto denunciato, non è un paradosso e già questo dice molto sulle reali intenzioni di chi sta diffondendo il docufilm. Il senso è quello di voler approcciare i social in maniera “etica” e “Umana”, ma senza chiederci se davvero i social siano ontologicamente tali.
“The social dilemma” sembra essere anche, in alcuni tratti, un’operazione politica. Tra i mali dei social network è raccontata anche la “radicalizzazione” e l’inasprimento del clima politico, con l’odio e la violenza, che viene però mostrata sempre e solo a “destra”, e mai a “sinistra” (diversamente, per esempio dall’interessante film polacco “The Hater”, anch’esso su Netflix). Che sia tutto ciò in vista delle presidenziali americane del prossimo 3 novembre? Non che, sia chiaro, ci sentiamo toccati se venga attaccata l’alt-right americana o, addirittura, il presidente Trump, con cui non ci identifichiamo. Tutt’altro: ci serviamo di questi elementi per dubitare dell’onestà del documentario di Netflix, e per costruire una riflessione seria sui social network, dal punto di vista della Tradizione.
Il fatto che a diffondere questo documentario sia Netflix, e non qualche circuito “pirata” e disallineato dal circuito mainstream, però non implica che il problema sollevato dal documentario non sia reale, intendiamoci. È un po’ come il caso del fumatore travestito da medico che ti spiega perché il fumo fa male mentre si fuma una sigaretta. Paradossale e anche sadicamente ironico, ma estremamente subdolo. È ipocrita e senza dubbio strano ma il problema esiste comunque.
Non vogliamo ovviamente contestare che,oggi, i social siano uno “strumento” incredibile per comunicare e per lavorare. Uno strumento all’avanguardia in grado di poter avere anche – a certe condizioni – taluni effetti positivi, a fronte però degli enormi rischi che possono determinare su scala globale e nelle mani sbagliate. Ma il problema vero è: poiché l’intrattenimento passivo è più digeribile di quello attivo (e quindi guardiamo più facilmente un video di gattini piuttosto che uno di storia che ci spiega perché viviamo nel mondo in cui viviamo) e i social sono costruiti con l’intento di tenerci al loro interno il più possibile, come stabiliamo un confine tra quanto sia “sano” starci e quanto no? Riusciamo limitare il nostro utilizzo di intrattenimento inutile? E ancora: chi è nato e cresciuto in un mondo fatto di social è in grado di generare questo autocontrollo?
Queste sono alcune delle domande un po’ più profonde che dovremmo farci. Siamo in grado di convivere in modo sano con queste piattaforme? Effettivamente il docufilm stimola queste domande ma, il problema, è che forse dopo averlo visto comunque si sentirà l’esigenza di cercare quelle risposte (anche) consultando i social network! Infatti, una delle risposte che più sta circolando intorno al dibattito sui social innescato da questo documentario è che tutto “dipende tutto da come li usiamo”. Sì, in parte è vero e in parte no.
È ovviamente vero che possiamo fare un uso relativamente sano e strumentale dei social. Ed è anche vero che un po’ di intrattenimento passivo non ha mai ucciso nessuno. Il punto focale della questione peró è un altro: il modello di business dei social consiste nel tenerci dentro il più possibile. Per farlo viene usata ogni leva psicologica possibile: siamo davvero convinti di avere tutti quegli strumenti sociali e psicologici per resistere a strumenti che sono talmente ingegnerizzati a livelli da riuscire a creare vere e proprie scariche di dopamina e generare – senza altri termini – una vera e propria “dipendenza”?
La tecnologia cresce a una velocità letteralmente folle e tra soli 3-4 anni l’ecosistema tecnologico sarà completamente diverso da adesso. Domani sarà realtà ciò che oggi sembra fantascientifico. Il nostro cervello, come reagirà? Siamo convinti che, da soli, saremo in grado di resistere? Siamo convinti che le giovani generazioni, ormai pienamente “native digitali”, sapranno dotarsi di quegli anticorpi che ancora ci fanno guardare con un minimo di distacco e diffidenza dal mondo virtuale?