La cosiddetta “on demand economy” non è una teoria strampalata che è stata teorizzata da chissà chi, ma la nuova fisionomia del modello economico in cui ci troviamo a vivere già adesso.
E’ una vera e propria rivoluzione che cambia, e sta cambiando, i modelli di produzione, vendita e fruizione di tutto ciò che, a vario titolo e grado, compone l’economia (e la società) del nostro tempo. Questa rivoluzione è già iniziata: lavoratori, imprenditori e consumatori stanno già sperimentando nuovi modi di lavorare e fare business ma, molto più lentamente, ne stiamo prendendo consapevolezza.
La pratica, infatti, ha superato di gran lunga la teoria, per questo fatichiamo oggi a dare un nome a mestieri e nuove modalità di fare economia che si sono già create. Per esempio, vi

Non si tratta più del vecchio “corriere delle pizze”, ma di una nuova figura professionale che raccoglie centinaia di migliaia di lavoratori, che definire “lavoratori” è complicato, perché si tratta di un mini-lavoro, realizzabile in maniera asimmetrica in giorni ed orari diversi, con garanzie e diritti parziali, su cui anche il diritto del lavoro fatica a trovare una definizione univoca… A dimostrazione di come la teoria fatichi a star dietro all’evoluzione reale.
ma quello che è più inquietante è che sia in corso, e sta avvenendo a velocità supersonica, un cambio di paradigma antropologico. Per comprendere l’essenza di questa nuova forma dell’economia dobbiamo partire dal tipo di umanità che vi corrisponde e che, questo stesso sistema di cose, contribuisce a creare. A livello culturale, infatti, anche quello che sembrava uno dei capisaldi del sistema di vita occidentale e cioè la “proprietà” sta venendo messo seriamente in discussione nell’epoca della modernità liquida in cui viviamo.
In questa epoca non c’è spazio per ciò che è fisso, immutabile e tangibile, come per esempio il diritto di proprietà sui beni fisici. Il nuovo paradigma impone un’altra mentalità per
far funzionare l’on demand economy, e cioè che tutto sia condiviso, che tutto sia legato da un reciproco vincolo di “sharing“. Lo sharing ben esprime i nostri tempi, deresponsabilizzanti e spersonalizzati/massificati, dove altri (le industry di ogni settore) offrono la soluzione apparentemente più semplice (il caro vecchio noleggio, ma in versione aggiornata) senza tutti i vincoli economici ed emotivi che la proprietà impone.
Se ci fermiamo a pensare quante cose della nostra vita sono “a noleggio” e moltiplichiamo tutto questo per i milioni di persone che ogni giorno contribuiscono ad alimentare questo Leviatano invisibile, capiamo bene la ramificazione di questo modello e quanto esso sia già presente in noi e nella nostra società.
La cui potenza è espressa proprio dalla geometrica scalabilità di questi sistemi a tutte le latitudini, secondo modelli di iper-connessione dove ogni servizio prestato si lega perfettamente all’altro quasi fossero stati partoriti dalla stessa persona.
E tutto questo lo ha capito anche l’industria strutturalmente meno “digitale” per definizione, cioè quella automobilistica. Infatti, nonostante l’industria automobilistica continui a produrre pur sempre dei “pezzi di ferro”, pure, queste non sono le stesse di appena dieci anni fa. Anzitutto, i grandi gruppi automobilistici – sempre più fusi fra loro, e in grado di replicare
sugli stessi modelli/motori un numero infinito di auto apparentemente diverse fra loro – assomigliano sempre più a delle banche ed a delle finanziarie.
La vendita dell’auto, infatti, in un mercato saturo come quello automobilistico dev’essere “drogata” mediante artifici di tipo finanziario, per rendere vantaggioso l’acquisto o l’aggiornamento della propria auto, in un sistema mondiale che di nuove auto non avrebbe proprio bisogno. Riprova ne è tutta la campagna sull’elettrico che, con la scusa dell’inquinamento, imporrà nel giro di qualche anno di aggiornare il parco veicoli mondiale con la scusa (falsa!) del clima.
La chiamano una forma “evoluta di guidare”. E quando parlano di “evoluzione” i capoccioni dell’industria automobilistica non intendono auto più sicure o che consumano meno, ma auto che corrispondono a quello che il sistema definisce il “consumatore evoluto“, cioè il prodotto perfetto dell’on demand economy.
Abbiamo detto, infatti, che il mercato e le abitudini si stanno spostando verso concetti di utilizzo piuttosto che di proprietà, al quale si aggiunge l’incertezza sul futuro legata al particolare periodo storico che stiamo vivendo e che viene alimentato ad arte per creare un perenne senso di instabilità, che è uno dei pilastri della modernità liquida. Da tempo, perciò, l’industria automobilistica ha capito che è più conveniente non invitare all’acquisto, bensì al noleggio dei mezzi prodotti.
Le industrie automobilistiche, così, da industrie diventano banche e finanziarie, come detto, dove la produzione è solo funzionale alla speculazione e al servizio prestato, spersonalizzando così un altro dei tipici status-symbol della nostra epoca, che è 
la proprietà dell’auto. Un fatto non banale, perchè l’auto è anche lo strumento con cui si può realizzare in atto la propria libertà (es. di viaggiare, travalicare confini, allontanarsi dalle città e cercare ristoro altrove o semplicemente per andare dove si vuole, etc.) e non solo, quindi, un fattore sociale o di prestigio.
L’industria automobilistica ha capito che alle vetture iperconnesse che, già da anni costruisce, non corrispondono più i classici “automobilisti” (“driver“) ma, la nuova figura del “mover“. Anche tu che leggi, forse non lo sapevi, ma se utilizzi un’automobile sei un “mover”. Non c’è più identificazione col mezzo di proprietà che, non essendo “tuo” ti aliena
dal mezzo stesso che guidi, e che non domani ma forse già tra un’ora potrebbe essere nelle mani di qualcun’altro, mover come te. Il fatto di partecipare a questo tipo di economia ci rende automaticamente esposti al cambiamento e quindi al condizionamento ma, soprattutto, ci rende già vittime del furto (legale) di dati che scambiamo già solo per il fatto di aver utilizzato quel servizio.
E in questo scenario, sempre più parcellizzato e frenetico, in cui la sempre maggior riduzione degli spazi di autonomia e libertà induce l’uomo – vedasi anche il recente lockdown – a chiudersi in casa, l’unica soluzione di mobilità praticabile in città sempre più invivibili, dove parcheggiare è impossibile e avere un’auto propria un lusso, è la micro-mobilità. La metafora perfetta dell’uomo-consumatore la cui libertà è misurabile col limitatissimo raggio di azione di monopattini elettrici o bici a pedalata assistita: una
libertà “consentita” solo dove altri vogliono che tu vada, per essere sempre connesso e legato a servizi a pagamento, raccontando tutto di te per fruire del servizio stesso.
E, sempre più, procediamo a passi spediti verso le cosiddette “smart cities“, la nuova utopia della post-modernità. Ovviamente, infatti, a questa nuova umanità dovrà corrispondere un habitat idoneo a realizzare tutto questo.
Le nostre città, magari costruite secoli fa “a misura d’uomo” o secondo canoni estetici e di bellezza oggettiva, saranno superate e integrate da da complessi metropolitani dotati di tutte quelle infrastrutture in grado di consentire questi servizi. Siamo complottisti? Non crediamo, visto che il sistema procede in tutto il mondo a imporre l’adozione del 5G, poiché la connettività ad alte prestazioni è la base strutturale su cui può fondarsi questo nuovo sistema, tanto per dirne una.
E adesso? Siete ancora sicuri di voler noleggiare quel monopattino per farvi un giro in centro?