Rigenerazione Evola | La Via Religiosa e la Via Metafisica

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Riproponiamo oggi un articolo di Evola pubblicato nel 1938 su “Il Corriere Padano”, con il titolo originario di Oriente e Occidente: il dono delle lingue, che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare dal tenore dell’intitolazione, non tratta di linguistica; lo spunto, infatti, è l’ennesimo commento alla celebre opera di René Guénon L’uomo e il suo divenire secondo il Vedânta. I lettori più attenti ricorderanno che, in occasione di un nostro speciale sui rapporti tra Evola e Guénon, proponemmo due diverse recensioni evoliane all’opera del maetro di Blois: la prima, irriverente e caustica, di un Evola ventisettenne che, sulle colonne del quindicinale “L’idealismo realistico”, alla fine del 1925, non esitò a criticare in modo plateale il maestro Guénon, nel contesto di un gustoso “scontro” in punta di penna intercorso tra i due tra la fine del 1925 e la prima metà del 1926.

La seconda recensione che proponemmo apparve sulla rivista mensile “Bibliografia fascista” nell’aprile 1938, quando un Evola ben più maturo e centrato nella corretta interpretazione della Tradizione e del dato metafisico, esprimeva tutta la propria stima per Guénon e la sua opera. Pochi mesi prima, Evola si era già espresso in tal senso sull’opera di Guénon, appunto sul “Corriere Padano”, spiegando perchè il maestro di Blois avesse scelto il Vedanta quale “esempio generico del modo tradizionale di considerare il mondo“, illustrando l’efficace metafora della varietà degli idiomi per esprimere concetti comuni, per spiegare il concetto della varietà delle forme tradizionali quali espressioni particolari dell’unica Sapienza (da cui il titolo dell’articolo), e fornendo una sintetica distinzione tra la tradizione religiosa, fideistica e dogmatica (essoterica) e tradizione metafisica, conoscitiva diretta (esoterica), quali “vie” al sacro. Su questo stesso tema rimandiamo all’altro articolo di Evola da noi pubblicato nel marzo scorso con la intitolazione “le due concezioni della divinità” (titolo originale: “Mefistofele e l’androgino”), che ci fornì anche spunti per proseguire alcune valutazioni sul tema del “male” nelle religioni (su cui faremo tornare Evola stesso). Questo odierno commento evoliano ci consentirà, ora, di spaziare un pò su concetti come exoterismo e monoteismo, con l’aiuto di altri prestigiosi autori tradizionali.

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di Julius Evola

Tratto da “Il Corriere Padano”, XVI, 10 febbraio 1938

Un libro come quello di René Guénon, che s’intitola L’uomo e il suo divenire secondo il Vedânta, recentemente uscito in una traduzione italiana presso l’editore Laterza, può tanto attirare l’attenzione di un lettore addestrato e qualificato, quanto può essere fonte di malintesi per una categoria di critici e di intellettuali da «terza pagina», che oscillano fra le frasi fatte e varie velleità politico-spirituali. In più di una occasione abbiamo detto senza reticenze che, per noi, il Guénon è uno dei rari maestri spirituali dell’epoca moderna, di ben diversa statura che non i vari Keyserling, Benda, Massis, Rops ecc.; uno dei pochi, che posseggono veramente dei princìpi e che testimoniano di una Tradizione, nel senso più alto, metafisico e superpersonale del termine, al difuori di ogni «costruzione» filosofica, di ogni vana pretesa di «originalità», di ogni limitazione confessionale o proselitaria. Per questo ci sentiamo portati, in occasione della traduzione di questo libro, a fare il nostro possibile per prevenire gli accennati malintesi, parlando non del libro in sé (poiché ciò ci condurrebbe in un dominio tecnico, inadatto per questa sede), ma piuttosto del punto di vista dal quale esso deve essere considerato.

Diciamo dunque subito da che parte potrebbe sorgere l’equivoco principale. Una parte dell’opera complessiva del Guénon è costituita da una critica a fondo della civiltà moderna, critica tanto più efficace e distruttiva in quanto scevra di ogni passionalità e rigorosamente poggiata su una disamina cruda dei fatti, degli avvenimenti e delle idee dal punto di vista normale, cioè tradizionale. Il libro più significativo per questo aspetto dell’attività di Guénon – La crisi del mondo moderno – è esso stesso uscito recentemente in Italia presso Hoepli. Ora, è naturale che coloro che, o consentendo, o reagendo, abbiano seguito il Guénon nella sua critica, siano curiosi della controparte positiva, cioè dei valori e delle dottrine da contrapporre a quelli del mondo moderno e vogliano soprattutto conoscere cosa sia questa tradizione e questo «spirito tradizionale» su cui il Guénon tanto insiste e che egli pone come presupposto di ogni opera veramente ricostruttiva. Può dunque accadere che dette persone prendano a tale scopo il nuovo libro del Guénon, dato che esso riguarda appunto la dottrina: ma vedendo che è del Vedânta che essenzialmente si tratta, cioè di teorie indù, si può facilmente prevedere che cosa accadrà, in più di un caso. Si griderà: ecco l’adoratore dell’Oriente, ecco il «teosofo» e il panteista, ecco colui che vorrebbe distoglierci dalle nostre tradizioni, dal cattolicesimo e dal personalismo occidentale e mandarci a scuola presso dottrine esoteriche! E via dicendo. Con il che la comprensione di qualcosa, il cui valore potrebbe esser difficilmente esagerato, resterebbe senz’altro pregiudicata.

Di contro a ciò, son da fissare per bene i seguenti punti.
L’opera del Guénon rappresenta indubbiamente quanto di meglio sia stato scritto sulla metafisica indù: non soltanto, ma si può considerare come una chiave indispensabile per chi voglia intraprendere in modo veramente serio, fuori dalle arbitrarie ricostruzioni di orientalisti ufficiali, filologi e teosofi, lo studio delle tradizioni orientali in genere. Ma, scrivendo quel libro, il Guénon non si è voluto limitare a tanto. Partendo dal presupposto, che le varie tradizioni e religioni, in quanto esse presentano di veramente valido e di superpersonale, non sono che espressioni varie di un unico sapere, egli si è servito delle teorie del Vedânta allo stesso modo che chi conosce varie lingue può sceglierne una per esprimere idee, facilmente suscettibili di esser espresse anche in altri idiomi. Ecco dunque che già con ciò le paure e gli scatti di fronte ai riferimenti «orientali» del Guénon si dimostrano privi di ogni seria ragione. E il Guénon d’altra parte, nel corso del libro, non manca di moltiplicare esempi, dimostranti la concordanza fra la tradizione indù e altre tradizioni, anche occidentali, circa i punti fondamentali della dottrina.

Si può tuttavia chiedere perché, la scelta essendo dunque indifferente, il Guénon, per dare un esempio generico del modo «tradizionale» di considerare il mondo, l’uomo e il suo divenire, abbia proprio messo mano al Vedânta, semprechè la sua mira sia stata di indicare una controparte positiva e costruttiva della sua critica contro gli errori del mondo moderno. Si potrebbe obbiettare che una tale scelta è almeno poco opportuna. L’obbiezione è giusta, se si parla di «opportunità» nel senso più volgare e immediato. Senza dubbio, se il Guénon, come base, invece del Vedânta, avesse assunto degli insegnamenti occidentali, come per esempio quelli cattolici medievali o ermetici, di appigli gli spiriti malintenzionati o impreparati ne avrebbero trovati di meno. Da un altro punto di vista le cose stanno però altrimenti.

In primo luogo, secondo il Guénon, non bisogna farsi illusioni sul seguente punto: che, come mentalità, l’Occidente moderno non è più lontano dall’Oriente, di quel che non sia dallo stesso Occidente antico e tradizionale. Nella loro essenza vera, gli insegnamenti dell’antico Occidente sono divenuti per l’uomo moderno, e non da oggi, una cosa così lontana, quanto quelli dell’«esotico» Oriente. Di fronte ai casi cronici d’incomprensione non vi è dunque da sperare che, assumendo una «base» occidentale antica per l’esposizione della stessa dottrina, il Guénon avrebbe avuto molto più da guadagnare.
Vi è poi una seconda ragione. Delle cause varie, che qui non possono essere esaminate, han fatto sì che gli insegnamenti tradizionali siano apparsi nella tradizione centrale dell’Occidente non in uno stato puro e metafisico, bensì in una adattazione soprattutto «religiosa»Per cui, a voler «parlare» attraverso la lingua della tradizione occidentale senza perdere livello, si imporrebbe un lavoro abbastanza complesso di «integrazione» e di interpretazione «esoterica» (Dante e S. Tommaso direbbero: «anagogica») non scevra di pericoli pratici: soprattutto del pericolo di provocare una levata di scudi da parte di coloro che da noi si dicono volentieri «tradizionalisti» e che, scambiando l’essenziale con l’accessorio, volentieri crederebbero ad un tentativo di falsare o «violare» o snaturare la loro tradizione. E basta aver un senso degli orizzonti mentali propri ai tradizionalisti cattolici «intellettuali» tipo per esempio Papini, Manacorda, Bargellini, Comi ecc., per rendersi conto che un tal pericolo sarebbe fin troppo reale e che le «reazioni» non sarebbero minori di quelle anti-orientali.

Nello sfidare queste ultime, si ha almeno il vantaggio di poter presentare un sistema a suo modo completo, non bisognoso, per una diretta comprensione metafisica, di ausili estranei. Non bisogna dimenticare che il Guénon scrive sempre per una élite e che è sua persuasione, che solo riprendendo contatto con le conoscenze tradizionali in una forma pura, originaria e inattenuata si può superare sia l’irrigidimento cadaverico di forme antiche esaurite, sia il pervertimento di quelle nuove e «moderne». «Religione», per lui, è troppo poco. Tutto, nelle religioni, è vero, ma nella forma di simboli, di personificazioni, di punti d’appoggio per facoltà che, come quelle del sentimento o della ragione teologizzante, non sono certo le supreme. Ma tutto ciò che nelle tradizioni di tipo religioso si trova esposto in sede di fede, di dogma e di teologia, nelle tradizioni di tipo metafisico assume il significato di evidenza superrazionale, di conoscenza trascendente, di «essere» e, naturalmente, su tale piano gli stessi princìpi possono avere una ben altra portata e condurre ad orizzonti difficilmente raggiungibili mediante l’altra via.

Per questa ragione, il Guénon ha scelta la «lingua» propria del Vedânta, tradizione essenzialmente metafisica. Ciò gli offre la possibilità di venire, nei riguardi della conoscenza dell’uomo, della sua natura e del suo vario destino, a punti veramente illuminati, che spazzano di colpo tanti falsi problemi e tante inani costruzioni delle filosofie profane. Tutto è restituito, qui, ad una sfera di grandezza, di sicurezza incomparabile e di trasparenza quasi olimpica. Tutto è adombrato dalla sensazione dell’infinito e dell’eterno, al di là sia da «panteismo» che da «personalismo». La distruzione delle piccole visuali del piccolo «io» è il primo risultato. Misteriosi contatti vengono ristabiliti. Sorge il presentimento di esser venuti qui da lontano, per procedere verso nuove lontananze, attraverso stati multipli di conoscenza, in una vicenda, in cui la morte diviene un episodio quasi insignificante e la «vita», come la si intende comunemente, con le sue febbri e la sua agitazione, appare paragonabile ad un viaggio nelle ore della notte. In tutto ciò, ripetiamolo, non si tratta di una teoria filosofica: è un sapere primordiale che parla e che nel Guénon ha trovato un interprete fedele e impersonale. E chi giunge a «realizzare» che è di questo che si tratta, non può che sorridere di fronte a quanti impugnano il mito dell’Oriente ovvero quello dell’Occidente, poiché egli sa i termini della vera antitesi: da un lato, l’ignoranza profana con le sue varie appendici mentali e sentimentali; dall’altro, i portatori della conoscenza, che un fronte unico unisce, anche quando essi non lo sospettino e diano tutte le loro forze per il trionfo dello spirito nell’ambito di un dato popolo e di una data civiltà.