La nostra Comunità, impegnata nella ri-scoperta e nella vivificazione dell’Esempio e del Sacrificio donato da quegli uomini rimasti anonimi figli d’Italia e dell’Abruzzo, questa estate si è imbattuta nella viva figura di Ugo Gigli, classe 1920, nato ad Ortucchio (Aq), un piccolissimo paese nelle terre della Marsica che ancora oggi lo ospita e gli rende omaggio, alla sua veneranda età di 100 anni ed 11 mesi. Chiunque, in Abruzzo, sa che essere marsicano significa essere nati con corpo e animo fusi nell’acciaio di una stirpe guerriera, e la vita di Ugo ce lo dimostra. Siamo stati accolti nella sua casa dalla moglie, la Sig. Assunta, di qualche anno più giovane del marito, ma contraddistinta dallo stesso spirito energico con il quale si prende cura della casa, dell’orto e del Sig. Ugo, ormai quasi del tutto impossibilitato a camminare ma mentalmente lucido e gioviale, con una stretta di mano che solo un Combattente sa darti; entrambi ci hanno accolto in casa loro aprendosi e mostrandoci i ricordi della loro vita passata insieme.
Cresciuto sotto l’ombra del Littorio, Ugo parteciperà alle istruzioni premilitari e alle attività sportive. Ciò lo porterà ad essere chiamato alle armi per la Guardia di frontiera del Trentesimo settore in Libia, il 2 Febbraio del 1940. Con l’entrata in guerra dell’Italia, Ugo verrà subito trasferito nella zona di Badia, a presidio e difesa contro gli Inglesi dei “Capisaldi-ridotte-ripari”, lungo il confine della Marmarica con l’Egitto. Mostrandoci anche la documentazione del periodo in cui ha prestato servizio in guerra, scopriamo che la Guardia di frontiera era formata da militari scelti, in possesso di un profilo psico-fisico elevato, in considerazione del fatto che la vita di guarnigione era basata su estremi disagi, come quello di vivere intere giornate sdraiati accanto alla mitragliatrice aspettando l’attacco nemico, sotto il caldo cocente dell’Africa. Per questo, ci racconta Ugo, ai soldati veniva insegnato uno stile di vita essenziale, per poter così sopravvivere ai lunghi periodi di guerra che non potevano essere accompagnati da comodità di sorta.
«Il giorno era lungo – racconta Ugo – ed il sole infuocava le nostre postazioni, mentre la sabbia ti entrava nei polmoni ogni volta che respiravi. Sembrava di vivere in un forno che ti cuoce lentamente e le mosche insieme alla sete ci tormentavano fino alla sera, il vento secco riusciva ad asciugare il sudore sulle nostre fronti. Per evitare di rimanere senza acqua da bere facevamo economia nei consumi per pulizia e igiene personale. I convogli di rifornimento quando funzionavano, dovevano affrontare una lunga strada, peraltro sotto le frequenti incursioni aeree (che Ugo chiamerà ‘apparecchi’ per tutta la durata del nostro incontro) nemiche».
E continua raccontandoci con non poca difficoltà, dovuta alla commozione, della durezza con la quale lui ed i suoi camerati dovettero affrontare gli attacchi inglesi.
«Gli Inglesi adottavano la tecnica del “mordi e fuggi” con agguati fra le ondulazioni delle dune di sabbia, operati con delle autoblindo che si infilavano nei varchi tra i nostri capisaldi. Un giorno eravamo nei pressi del villaggio di Sidi Omar, dove l’atteggiamento inglese era molto aggressivo, ed arrivammo ben presto allo scontro. Il risultato sarà di ingenti danni alle postazioni italiane in Cirenaica» (regione della Libia dove combattè e cadde anche Berto Ricci).
«Una mattina fummo svegliati dell’allarme generale. C’era molta agitazione perché era appena stata avvistata una colonna Inglese che si dirigeva verso di noi. In assetto di guerra ci piantammo nelle nostre postazioni fisse in attesa del nemico. In lontananza i colpi di cannone risuonarono per tutta la giornata e a sera venimmo a sapere che la Ridotta Capuzzi, poco distante da noi, era stata distrutta».
Alla commozione di Ugo e alla chiara vicinanza sentimentale della moglie non abbiamo potuto far altro che attestare l’ancor vivo sentimento per quei caduti, che ci è bastato a colmare anche nei nostri cuori anni di silenzi scolastici e vuote parate militari.
Sarebbero ancora moltissimi gli episodi che Ugo ci ha raccontato, ma ci limiteremo a riportare solo il suo ultimo scontro in guerra, e la successiva cattura e prigionia nel campo di concentramento inglese.
«Il nostro reparto si trovava ad un centinaio di chilometri da Bardia, era insediato in un fortino. Io ero impiegato come aiuto mitragliere e nel Luglio del 1940 il Comando Superiore chiese di svolgere una ricognizione in territorio nemico, allo scopo di verificare la quantità delle forze avversarie. Io partii con una delle due squadre mitragliatrici, ma quando capimmo che il nemico stava cercando di sbarrarci la strada del ritorno la nostra manovra contro le loro autoblindo fu improvvisa. Immediatamente ci trovammo ad essere attaccati ed inseguiti. Avevamo dei fucili Carcano e quelle mitragliatrici a proteggerci: una di queste fu colpita e cadde dal camion. Facemmo fuoco per chilometri contro il nemico e per quella volta gli inglesi si ritirarono. Ma appena rientrati al forte il Capitano chiese un volontario per il recupero della mitragliatrice perduta».
Nemmeno Ugo ha saputo descriverci come trovò il coraggio di andare come volontario per quella missione a tutti gli effetti suicida.
«Mi feci volontario sotto gli occhi increduli di tutti. La paura è stata tanta, sono uscito di notte strisciando per oltre 30 minuti perché dovevo evitare le pattuglie aeree che erano costantemente sulle nostre teste. Mi sono caricato sulle spalle la mitragliatrice di oltre 20 Kg, ed ho cercato di avere energia sufficiente per camminare a passo veloce e portare a casa la pelle. Il rombo di un aereo mi fece fermare e mi sdraiai a terra con il fianco premuto da un pezzo dell’arma. Quando arrivai al forte mi vennero incontro alcuni amici ed il Capitano si complimentò con me. Il giorno dopo accesi un cero a S.Orante».
Anche in questo momento gli occhi di Ugo e di sua moglie si illuminano, e lui ci racconta che dopo la morte di Balbo la guerra si inasprì ancora più duramente.
«La sera del 4 Gennaio 1941 le divisioni di camicie nere e la Catanzaro sono impotenti contro i nemici, Mussolini stesso chiederà una resistenza ad oltranza su Bardia. Ci fu una battaglia serrata anche se eravamo senza mezzi. Alla fine venimmo tutti catturati. Eravamo stati fatti prigionieri e nel giorno della Befana partimmo in nave per il campo di concentramento dove arrivammo 3 mesi dopo! Abbiamo sofferto la fame perché il pasto era una scatoletta di tonno e del pane ogni quattro persone. Quando un mio compaesano riuscì a lavorare nella cucina della nave-prigione fu una vera manna dal cielo perché riuscimmo a mangiare qualche patata lessa e a volte riportava qualche sardina. Il 27 Aprile del 1941 arrivammo al campo di concentramento di “Zonderwater”: il nome del campo significava “senz’acqua” e dopo anni ho scoperto che quello fu il più grande campo costruito durante la guerra dagli inglesi. Eravamo su un arido altopiano che ci demotivava dal fuggire. Era un continuo arrivo di prigionieri e dopo la sconfitta ad El-Alamein ci fu un incremento massiccio».
Le sofferenze che Ugo dovette vivere e combattere, dovute a tutti i disagi del campo di Zonderwater, meriterebbero a loro volta un articolo. Ci limiteremo a riportare che ci furono italiani che nel campo vi persero la vita (un esempio sono le numerose vittime che morirono sotto i fulmini intercettati dalle tende in cui riposavano), ma soprattutto che lo spirito dei soldati italiani fu d’esempio: anche in quella terra arida gli italiani coltivarono e costruirono, riuscendo così a sopravvivere contro la natura di quel posto ed ai soprusi delle guardie Anglo-Irlandesi, rendendo quella terra inospitale una piccola città. Dal Sudafrica Ugo fu nuovamente trasferito, questa volta in Scozia. In quegli anni vedendo l’operosità dei soldati italiani, gli Inglesi adottarono il motto che “un italiano contadino è meglio che un italiano combattente” e di conseguenza molti soldati si trovarono costretti a lavorare nelle fattorie delle famiglie scozzesi. Soltanto il 14 Maggio del 1946 Ugo verrà liberato e tornerà, dopo l’ennesimo lungo tragitto, a casa sua ad Ortucchio il 26 Maggio. Dopo 6 anni e mezzo passati tra reticolati, stenti e la morte ad ogni angolo, Ugo era di nuovo formalmente libero, anche se nemmeno durante la sua lunga prigionia egli si arrese alle avversità.
«Certo, potevo finire peggio, ma la voglia di non abdicare sé stessi ed alzare la bandiera bianca davanti i trattamenti rudi delle guardie è stata tanta. Per non soccombere, è necessario scuotersi di dosso lo scoramento e l’apatia». Con queste parole Ugo ha concluso il suo racconto, e noi non possiamo che aggiungervi un ringraziamento per la preziosa testimonianza ed esempio che ci ha donato, e che adesso sta a tutti noi continuare, perché Vita est militia super terram.