Nel giorno di Santo Stefano (il Protomartire), 26 dicembre, verso l’ora di pranzo è apparso davanti gli occhi di tanti italiani un comunicato stampa, celermente rilanciato e “agghindato” da tutti gli organi di informazione mediatica. Nei vari servizi TV e articoli giornalistici si presentava con maggior dettaglio un contesto già scavato e annunciato da circa un anno, riguardante un cosiddetto “termopolio”.
Tra l’atmosfera di sensazionalismo (ingiustificata per un sito che sforna simili contesti da circa 270 anni) e sfondoni storico-archeologici, non poteva mancare anche in questo caso una semplicistica quanto nauseante equiparazione della società classica con quella odierna del capitalismo terminale; nel caso specifico parlare di “Street food” o ancor peggio “Fast food” (ma si, anche i nostri grandi antenati romani alla fine mangiavano come noi delle porcherie al McDonald, no?) e addirittura di “Omofobia”!
Rileggere la storia antica alla luce (o forse all’oscurità?) forzata della nostra concezione odierna di società e riportando il tutto all’interno della nostra scala dei valori (o del degrado?) è opera che sta proseguendo oramai incessante da diversi anni, la cui impresa regina passa sicuramente sullo schermo televisivo delle serie TV e dei documentari “realistici”.
Riportiamo quindi alcuni passaggi di un articolo a firma “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” (voce critica autorevole nel panorama dell’archeologia italiana), in merito alla notizia con cui abbiamo aperto, il quale ci mostra che questo sistema gioca scorretto e non tiene realmente conto, quando diventa per lui un fastidio, di quella “scienza” che tanto osanna…e nemmeno tutela realmente i professionisti che si occupano a 360° di tali scoperte.
L’articolo completo su: https://www.miriconosci.it (Abbuffata natalizia a Pompei)
[…] “termopolio”– o cosiddetto tale, dato che il termine utilizzato dai Romani per definire una struttura simile a una odierna tavola calda ma anche ad un alimentari, era più probabilmente popina – ben conservato. Lo presentava con notevole clamore, definendolo “intatto”, e parlando con entusiasmo della presenza di cibo “ancora nelle pentole”: ma queste caratteristiche sono tipiche dei contesti pompeiani da 270 anni a questa parte. A Pompei conosciamo almeno un’ottantina di simili strutture, seppur non tutte oggi così ben conservate.
Gli articoli apparsi in veloce sequenza su diverse testate (qui analizziamo quelli di Repubblica e ANSA e Corriere del Mezzogiorno trovando elementi simili riconducibili quindi a una fonte comune, da individuare, per forza di cose, nel Parco Archeologico di Pompei), spingevano sull’acceleratore del modernismo spicciolo. Parlavano di bottega dello “street food”, portando a una fuorviante similitudine con il mondo occidentale contemporaneo: a Pompei non tutti potevano permettersi una cucina in casa, e il cibo da asporto era il cibo quotidiano, come avviene ancora oggi in alcuni Paesi dell’Oriente, come il Bangladesh o le Filippine. Poco a che vedere, quindi, con le realtà occidentali che conosciamo.
Parlavano poi di “paella”: ma sappiamo che la cucina romana aveva ben poco a che spartire con quella spagnola contemporanea. Parlavano di “scritta omofoba”, quando in realtà sappiamo che l’omosessualità era largamente accettata in età romana (lo sfottò riguardava non l’essere omosessuale, ma l’essere passivo nel rapporto). Sono tutti termini fuorvianti, da usare con cautela, utilizzati di tanto in tanto, contestualizzati, da guide turistiche e archeologi in contesti informali per fare confronti con la società di oggi: ma in brevi comunicati stampa ufficiali non aiutano il lettore a comprendere.
In chiusura, il direttore Osanna si soffermava su di un individuo che “potrebbe essere invece un ladro o un fuggiasco affamato, entrato per racimolare qualcosa da mangiare e sorpreso dai vapori ardenti con in mano il coperchio della pentola che aveva appena aperto”. Mentre si sta morendo soffocati, è bene farlo a pancia piena, insomma. Un’ipotesi su cui lasciamo al lettore il commento.[…]
Con una formula curiosa, il direttore del Parco, e anche degli scavi, nonché oggi Direttore Generale Musei (fatto appena accennato nel programma), veniva presentato come “guida d’eccezione” e presentatore del documentario, finendo a condurre quindi una specie di documentario sugli ultimi 5 anni della sua carriera. Da presentatore e protagonista, si recava in biblioteche per ricerche accompagnate da telecamere, e sullo scavo e ponendo domande agli esperti sul luogo: archeologi, archeobotanici, vulcanologi, antropologi fisici, paleografi e così via. Ma era lui a tenere le fila, e così è capitato spesso che proponesse all’interlocutore ipotesi quantomeno azzardate, per sentirsi replicare: “a questo darà risposta la ricerca, non possiamo tirare conclusioni affrettate senza una precisa analisi”. Ma, inutile dire, da presentatore del programma e direttore, l’ipotesi arrivava al telespettatore come buona. Inutile enunciare i rischi connessi al fatto che un alto funzionario ministeriale riduca i ritrovamenti chiave dello scavo archeologico ad ipotesi audaci […]
Pericoloso, poi, parlare di una “ripresa degli scavi, dopo anni ed anni di silenzio”, come se il lavoro di conservazione fino alla ripresa degli scavi fosse stato totalmente ininfluente. Quanti sovrintendenti ed esperti prima di oggi, invece, hanno operato lontano dai riflettori, hanno dovuto subire gli scandali di un sito lasciato privo di risorse e alla sopravvivenza, prima dell’arrivo dei cento milioni del Grande Progetto Pompei.
La Leda col cigno, citata tra le scoperte dell’epoca di Osanna, descritta anch’essa con termini a dir poco fuorvianti per “fare colpo” sul pubblico, è in pericolo ormai da molti mesi, minacciata dai raggi diretti del sole in alcune ore del giorno, con una semplice lamiera a protezione. Dopo comunicati faraonici del ritrovamento, mancano ancora le risorse – o l’attenzione – per la conservazione. […]
Dopo 105 milioni stanziati per il Grande Progetto Pompei i problemi al sito archeologico non mancano, e i soldi sono finiti: sono bastati per comunicati stampa roboanti, ma non per la conservazione.
E si badi che il Grande Progetto Pompei vale da solo più del decuplo dello stanziamento ministeriale annuale per l’intero settore archeologia. Ma non solo: metà del personale Ales è stato lasciato a casa durante la pandemia, l’antiquarium di Boscoreale è chiuso da marzo – non ha riaperto in estate come gli altri siti vesuviani – i lavoratori esternalizzati attendono la cassa integrazione e continuano a protestare da mesi, l’itinerario facilitato allestito per le persone con disabilità da marzo ha smesso di funzionare a dovere.
No, nonostante le ingenti risorse investite, Pompei non è ancora un successo, come invece ribadito (anche nel corso del documentario) dal Ministro Franceschini, perché l’epoca “di crolli, di scioperi, di cancelli chiusi, di inefficienza” non è finita, è solo sapientemente taciuta dalla stampa nazionale. Il sito è chiuso, nonostante sia all’aperto e sterminato, e proprio Massimo Osanna, in quanto attuale Direttore Generale Musei, dovrebbe occuparsi di un piano per la riapertura. Ma niente di tutto ciò è all’orizzonte, mentre i concessionari ottengono i sussidi legati alla chiusura e i lavoratori restano in cassa integrazione o vengono lasciati a casa.
[…]A chi può essere utile questo nuovo bagno mediatico a Pompei, questa abbuffata di notizie sensazionali? Ma per Pompei, oggi non c’è spazio per i dubbi. Ora, bisogna solo celebrare. Ora è tutto sbrilluccichio, meraviglia, stupore, eccezionalità…