(tratto da IlBorghese) di Elena Canino
Quando i Re Magi arrivavano a Spoleto, il loro ritratto era già esposto nelle vetrine del fornaio Pasidea. Egli ritagliava le loro figurine in una pasta di miele che diventava bruna alla cottura. Poste in fila, congiunte ancora per le braccia arrotondate, sembravano un fregio della vecchia chiesa di mattoni fuori delle Mura. Al posto degli occhi avevano due granellini di pepe e, per segno del loro grado, Pasidea le ornava con coroncine di carta spizzettata e dorata.
I campioni dei doni che portano i Re Magi, presto apparivano nelle vetrine dei fruttivendoli, arance tuttora avvolte in carte leggere, una rarità a Spoleto dove l’inverno non offriva che frutta secca, noci, castagne e semi di zucca. Tra le arance brillava una stella di fili d’argento certo caduta da cieli d’oriente, giacché dal cielo di Spoleto in quei mesi non cadeva altro che neve e il freddo premeva sulla piccola città avvolgendola in una pace morta.
Una settimana prima di Natale si riaprivano gli antichi palazzi della Genga, Campello, Caliola, Bandini, degli Oddi. I loro nobili proprietari, che per solito tornavano a Roma dopo la vendemmia, vi venivano a passare le feste. Non solo il Natale in provincia era più tradizionale ed austero, ma in tal modo si trovavano sul luogo a ricevere le prestazioni
delle terre ch’essi possedevano nelle campagne intorno.
Gli Spoletini consideravano grande onore quelle auguste presenze e i nobili locali subito si mettevano in gran da fare per le visite d’augurio. Ora un insolito via vai per le discese dei Borghi dove gli equipaggi s’inoltravano cautamente sul suolo gelato, si sentiva lo scalpitare dei cavalli, il sommesso parlare del cocchieri a conciliabolo sulle grandi piazze del Vescovado e della Rocca davanti ai palazzi Bandini e Travaglini.
Dietro le alte finestre del primi piani sfolgoravano le luci fino a sera, poi la mattina arrivava un canto roco di capponi dalle cucine sui cortili. Più modesti dei Re Magi, ma ugualmente carichi, arrivavano infatti i contadini con le prestazioni, Avvolti nei grandi tabarri neri, alzato fino sugli occhi il colletto di volpe rossiccia, mettevano nelle strade silenziose il passo pesante delle scarpe ferrate.
In quella settimana era nostro ospite il vecchio commendatore Pasquale Ojetti che aveva anche lui certi suoi fondi dalle parti di Eggi. Egli non aspettava che i coloni gli portassero le prestazioni dovute, andava ad assicurarsele di persona. Diceva che a lasciar fare ai coloni, loro ai padroni non portano polli ma zeppi. Si faceva venire a prendere da una carrozza la mattina di buon tempo e veniva a tirare fuori dal letto noi ragazzi perché lo accompagnassimo nella passeggiata in campagna. A mio fratello quella visita padronale andava a genio, io avrei preferito dormire.
«Sciocca!» mi vituperava il signor Pasquale. «Le donne non sanno mai quello che avranno un giorno. Se ti sposi un proprietario manderai tutto in malora. Appena la carrozza prendeva la via aperta tra i campi, mi sembrava di entrare in un mondo natalizio. Sotto il plaid si stava caldi, Spoleto appariva lontana e in alto, una distesa di vecchi tetti sormontati dalle absidi delle chiese. Lungo le prode del Tessino i pioppi erano spogli e tra i rami si vedevano i nidi delle gazze come frutti dimenticati.
Il cavallo andava di buon passo, il suo fiato si levava come una nuvoletta nell’aria grigia e tutto era grigio intorno, il cielo, la nebbia, i sassi sul greto asciutto del torrente.
«Peccato che Natale venga sempre d’inverno», dicevo io. E lui: «Sciocca. Che te ne faresti di un Natale con il sole? Sono giorni di stare tutti a casa».
Quando la carrozza arrivava sull’aia, ci venivano incontro le oche schiamazzando e avvertivano della nostra presenza. Come sempre quando si aspettava il padrone, gli uomini lasciavano la vecchia Argia a discuterci. Lei ci venne incontro con il fazzoletto ripiegato sul capo e una padella in mano. Dopo un’ora con quella padella aveva fatto miracoli in cucina. Fritti i polli, ce li mise nel piatto e il signor Pasquale subito disse: «Come sono grasse queste coscette! I polli che mandate a Roma sono tutti ossi». «Soffrono nel viaggio», rispose lei. Parlò della terra che non rendeva, del gelo che aveva bruciato le rape.
Ammucchiò guai insieme alla farina con cui veniva impastando le frittelle e il signor Pasquale la guardava come affascinato da quella femminea capacità di astuzia. Venuto il momento dei conti, Argia pose in un cesto i polli e il signor Pasquale accettò anche quelli che non erano grassi, disse: «Per Natale dobbiamo far festa tutti… quelli che hai nascosto nella stalla te li puoi tenere…»
«Pò che miscredente!» rise Argia. Il «tu» con cui interpellava il padrone, quei relitti di dialetto tosco che erano nel suo linguaggio, erano come un’eredità della terra. Nel prendere congedo, l’uno pose la mano sulla spalla dell’altra e sembrava il saluto degli apostoli, un rito natalizio. Tutti gli anni in famiglia insistevano perché il vecchio amico si fermasse per Natale a Spoleto. Era un segno di affetto più che una vera insistenza. «Natale con i tuoi… » non v’era amicizia che potesse giustificare un’infrazione alla regola santa. Il signor Pasquale ripartiva la sera stessa per Roma. Il treno che lo portava via, a me sembrava l’ultimo e poi ogni paese si sarebbe ristretto nella sua cerchia nell’attesa del giorno solenne.
Esso poi veniva e passava in una pace quasi triste tanto era uniforme nelle strade, nelle case intorno, nell’aria silenziosa. Nel caminetto era acceso il fuoco, l’orologio scandiva le ore, tutti insieme i parenti. Il Natale durava ancora, ma la neve che batteva soffice contro i vetri già lo cancellava mettendolo in serbo per un altro anno.
* * *
Quando i Re Magi arrivarono anni più tardi a Napoli, a me non parve nemmeno che fosse Natale. Mi mancavano i segni premonitori. La città era stesa sul mare, al sole, davanti ad un monte aperto come una scatola e le arance pendeva-no a grappoli dagli alberi. Il suono delle zampogne si perde-va nel chiasso delle strade e quell’aspetto gelato e augusto che aveva avuto Spoleto mi stava nel ricordo con la melan-conia di una festività per sempre perduta.
«Non preparate il presepe?» domandava la portiera che portava su la posta. «Ci stanno i zampognari che vogliono sapere se volete fare “l’abbonamento” per la novena… » Mi accinsi a preparare il presepe più come atto di cortesia per la terra che mi ospitava che per intima convinzione. Vi misi la poca fantasia della religione severa quasi puritana di paesi freddi, il Bambino sulla mangiatoia, S. Giuseppe e la Madonna inginocchiati ai lati. Ebbi critiche da tutti. Mio suocero un giorno mi condusse da un suo vecchio amico a Vico Tre Re. Disse che dei presepi napoletani io non avevo idea, dovevo vederne uno come si conviene. Era casa grande ed antica, di cui le stanze vaste, alte di volta erano occupate da lunghe scaffalature di vetro.
I Re Magi vi cavalcavano sul dorso di focosi destrieri, seguiti da cammelli con grandi bisacce sulle gobbe. La modestia con cui li aveva rappresentati il fornaio Pasidea era alfine e rivendicata dalle loro vesti di seta, dai turbanti intessuti d’oro, dai lunghi orecchini ch’essi portavano alle orecchie. Dalle spaccature delle bisacce apparivano minutissime suppellettili d’oro e d’argento, collane di granati e la mirra era seminata sotto gli zoccoli dei cavalli.
Le finestre davano sul vicolo rumoroso da cui s’intravedeva la lunga via di Toledo piena di folla, ma bastava staccarsi di un passo dai balconi per sentirsi come distaccati dal mondo, lontani di secoli. Negli scarabattoli, angeli in lunghe vesti pendevano da invisibili fili di seta, recando nelle manine turiboli e gigli e, tutto intorno alla stanza, si snodava sotto la trasparenza del vetro la processione delle belle georgiane, i tartari con il ciuffo annodato sul sommo delle teste rapate, i pastori vestiti di pelli con gli armenti guardati dai cani e l’agnello stretto tra le braccia.
Dove mangiasse e dormisse il signor C. non si capiva. Tutta la casa era dedicata ai personaggi di un mistico Natale; dove finiva il corteo cominciavano i commerci annessi alla festività. I polli di Argia pendevano sotto rustiche tettoie, già spennati, riprodotti con tanto minuziosa cura che veniva voglia di palparli. I capitoni si snodavano nelle ceste, ricottine tremolanti biancheggiavano dalle fuscelle. Nei venditori immobili mi pareva di riconoscere figure note e poi mi accorgevo ch’essi erano, in scala più minuta, le stesse figure che incontravo per le strade, che vedevo dai balconi della mia nuova casa.
L’insolito loro silenzio, quella specie di raggelamento era la grande attesa a me nota e che credevo smarrita, del miracolo natalizio. L’estrema lucentezza delle stanze, delle scaffalature, dei vetri delle finestre davano alla casa di Vico Tre Re l’aspetto di una civiltà non conservata sotto la cenere come a Pompei, ma venuta su dal fondo del mare per descrivere anch’essa com’era stata.
Nel corso dei giorni mi accorsi che invece tutto era ancora così. Nei piccoli negozi di Forcella e S. Gregorio Armeno, gli artigiani lavoravano fino a tarda notte per riprodurre in centinaia di esemplari di creta i personaggi del presepe come quelli visti dal signor C. Per poche lire potevo portarmi a casa il pescivendolo con i calzoni rimboccati al ginocchio e la sua «spasella» di allci argentee, la robusta lavandaia con il suo mastello di panni, il cacciatore con la bisaccia piena, il pastore con l’agnello, e i zampognari con le ciaramelle.
Entravo in confidenza con essi, indovinavo i discorsi dalle espressioni, ma non imparavo a disporli. Il loro estro sfuggiva alla mia mania di ordine, sotto le mie mani s’irrigidivano, perdevano la beata indolenza, la trasognata noncuranza. Né avevo il senso del pittoresco nel disporre le mostre di formaggi, della frutta, degli agnelli sgozzati. Quella perizia ammirata dal signor C., di continuo rivista sotto i portici del Purgatorio dove qualsiasi «verdummaro» riusciva a trarre bellissimi effetti di colore dall’aggruppamento dei mazzi dei pomodori, dei meloni e dei cavoli fiori contro le vecchie arcate annerite, io non sapevo imitarla.
In quei giorni le visite erano solo a scopo di presepio. Mio suocero stesso ne aveva fatto uno bellissimo con una cascatella argentea e un tempio greco su un’altura. Al sommo di ogni colonna svolazzava un angelo con lunghe ali e lunghe vesti, agitando un incensiere retto da sottili catene.
Presso la cascata un pastore dormiva, era il pastore «della meraviglia». In quell’unione di sacro e profano io non mi raccapezzavo, mio suocero sorrideva, diceva che ancora non potevo perché ancora non conoscevo Napoli. Napoli e il presepe erano la stessa cosa.
Più intensamente padri e figli erano riuniti il giorno della vigilia nel lavori di rifinitura, si usciva solo verso sera per andare a sentire la novena con accompagnamento d’archi nella chiesa di S. Domenico Maggiore. A mezzanotte il cuore di ogni napoletano vibrava di un sentimento noto eppure sempre mistico: quello della nascita. Vecchi congiunti, zie zitelle, zii celibi, che abitavano ai Miracoli o ai Vergini, quel giorno di Natale uscivano dalla loro solitudine per andare a vedere il presepe di Vincenzino…
«Siamo venuti oggi così vi troviamo tutti riuniti…»
«Sedetevi zia Romilda. Assaggiate un boccone zio Ciccillo.» Il pranzo s’iniziava con le formette di burro portatein dono dal colono di Sorrento, in un cestino. Tra le foglie di mirto spuntavano agnelli, bisce, una rosa, un uccello, l’agnelletto e Gesù con le marine tese.
* * *
Il Natale non perderà mai il suo significato, pensavo seguendo la mia giovane parente nel capriccioso giro degli acquisti natalizi. Spese un piccolo capitale inXmascards,a doppia facciata, scritte in inglese, decorate da damine in manicotto, da berline trascinate dalle… renne. Ad un mio sensato accenno di scegliere semplici cartoline, con auguri a tutti comprensibili: «Buon Natale» amorevolmente disse: «Come sei antiquata!» Mi dette addirittura una strizzatina affettuosa quando vide le cartoline che avevo scelto io, una stella cometa in viaggio verso una piccola chiesa, i tre Magi con mantelli orlati di porporino. Disse con una bella risata: «È più grande la stella che la chiesa». Quello che aveva risparmiato in sentimento, lo pagò alla cassa.
«A Natale che facciamo?» Tanti dolci si vedevano nelle vetrine, tante strenne aveva ricevuto che ormai per lei il Natale era già esaurito, consumato.
«A Natale si sta a casa», dissi io e da come mi guardò, mi parve di aver assunto anni e sembianze, persino la tabacchiera del commendator Pasquale Ojetti. Fece tre o quattro telefonate, si assicurò una piccola compagnia di correligionari, nella valigia pose un paio dishorts.Nel caso che a Natale il tempo si schiarisse, a Positano si poteva fare anche il bagno.
(il Borghese, 24 dicembre 1954)