Misticismo e Rivoluzione

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(tratto da facebook.com) – di Daniele Perra
Per meglio comprendere il significato della Rivoluzione Islamica in Iran può essere utile partire da un versetto del Corano tratto dalla Sura ar-Ra’d (il Tuono). Il verso recita così: “In verità Dio non modifica la realtà di un popolo finché esso non muta nel suo intimo”.
Personalmente ritengo utile interpretare questo verso alla luce di una riscoperta della natura teologica del concetto di “conflitto”.
 
Il frammento 53 di Eraclito definisce il conflitto come il “padre di ogni cosa”: un qualcosa che può rendere gli uomini liberi o schiavi o, addirittura, innalzarli ad una condizione “divina”. Il significato reale di questo frammento, purtroppo, è andato perduto quando il germe della modernità ha iniziato a pervadere la civiltà europea. Solo le riflessioni di Martin Heidegger e Carl Schmitt, nella prima metà del XX secolo, gli hanno restituito il reale significato.
 
Heidegger, in particolare, intuì il fatto che il conflitto (πόλεμος) di cui tratta Eraclito non è da intendersi esclusivamente nel senso di lotta armata (tra eserciti) ma è anche (e soprattutto) un conflitto interiore per divenire “veri uomini” [1].
 
Restituito della sua natura teologica (non dimentichiamo che Eraclito fu colui che affermò che “l’uomo vive sempre in prossimità del divino”), il concetto di conflitto, così inteso, non si discosta da un altro concetto teologico proprio della Tradizione islamica, quello di gihad (letteralmente “sforzo”), che si esprime su due livelli: uno inferiore (o minore ed inerente il conflitto militare) ed uno superiore (maggiore) che indica la lotta interiore per divenire un uomo ed un musulmano nel senso compiuto del termine.
 
Ora, è noto che in tutta l’opera dell’Imam Khomeini esiste una costante tensione verso “il risveglio dell’umanità” (da non confondere con il “great awakening” di cui si fanno portavoce alcuni messi contemporanei della contraffazione ideologica travestita da pseudo-tradizione).
 
Il luogo in cui si compie tale risveglio (yaqzah), come primo passo del viaggio spirituale dell’uomo, è all’interno della stessa anima umana [2]. È la lotta che porta l’uomo a scacciare dal proprio cuore non l’amore per il mondo ma l’amore per il proprio io.
 
Sole, luna e natura sono luoghi di apparizione del divino che non allontanano l’uomo dalla perfezione. Ciò che distanzia da Dio è all’interno dell’uomo stesso. Egoismo e divinità non possono coesistere.
 
Scriveva il grande poeta e mistico medievale Jalal al-Din Rumi che “tutte le sofferenze che si abbattono sull’uomo provengono dall’amore per il proprio sé”.
 
Tuttavia, combattere contro il governo dell’io non significa negare la propria individualità. Anzi, superando il mero individualismo, questa viene rafforzata attribuendole una forza vitale che la rende capace dell’Azione creatrice e di non temere la morte.
 
Ma come si possono applicare alla realtà collettiva di un popolo (nella sua interezza) delle concezioni propriamente mistiche?
 
Il maestro di metafisica di Ruhollah Khomeini era Muhammad Ali Shahabadi. Secondo Shahabadi esisteva un legame intimo tra misticismo, filosofia ed azione sociale, e l’arif (il mistico) era un combattente nel senso pieno del termine [3].
 
Il termine arif, non a caso, è stato utilizzato anche dal Generale Soleimani per definire i martiri della “sacra difesa” (la guerra contro l’Iraq degli anni ’80).
 
Il “martire”, infatti, non è tale solo nel momento dell’estremo sacrificio, ma lo è anche prima. Non diventa martire chi non lo era anche in vita. Ed il primo passo per divenire martire è la migrazione (l’Egira) da se stessi, dal proprio io [4].
 
Ora, Khomeini affermava nei suoi sermoni: “o voi che siete seduti davanti alla Casa di Dio, pregate per coloro che sono in piedi di fronte ai nemici di Dio”.
 
La “preghiera”, così intesa, si trasforma nel primo atto di trasformazione della società. Essa raggiunge il suo obiettivo quando è congregazionale: come associazione di uomini animati dalla medesima aspirazione che aprono il loro sé nascosto per lo sviluppo di un singolo impulso.
In questo senso, la preghiera associativa diviene una forma di “socializzazione” (o condivisione) dell’illuminazione spirituale. Essa rappresenta il momento della meditazione che precede l’azione. Un’azione che, discostandosi dalla mera “agitazione” propria della modernità, deve naturalmente essere rivolta ad un fine superiore.
 
Gli atti di culto ed i riti devozionali dell’Islam sono sempre alla base di altri servizi sociali, politici e militari [5].
 
Affermava Khomeini: “colui che dalla moschea si reca direttamente al campo di battaglia teme solo Dio e non ha paura di morire”[6].
 
E sempre l’Imam non hai mai smesso di invitare i giovani studenti (talaba) a comprendere che non si può sempre trattare delle questioni abituali chiudendosi in un dominio esclusivamente religioso.
 
La realtà, anche la più recente, deve sempre essere affrontata senza lasciarsi intimidire da essa.
 
Questo fine superiore di cui si è parlato, per Khomeini, era salvare l’Islam e l’Iran dalla colonizzazione economica e culturale dell’“Occidente” a guida nordamericana e sionista.
 
La lotta di non era solo una lotta in difesa dell’Islam, era anche una lotta per la riconquista di una concezione onnicomprensiva della sovranità e dell’indipendenza in tutte le sue dimensioni: economica, politica e culturale.
 
Era una lotta contro l’oppressione. Ed un giureconsulto, un dottore della legge dell’Islam, non può rimanere in alcun caso inerme quando gli si chiede (come fatto dallo Shah) di sostenere apertamente l’oppressione.
 
I “colonialisti” e i loro servi, secondo Khomeini, hanno diffuso l’idea che la politica è una roba sporca con la quale gli uomini virtuosi ed i religiosi non devono immischiarsi. Tuttavia, una società diviene virtuosa solo quando è governata da persone virtuose (idea che ricorda da vicino anche i principi del governo confuciano).
 
Per questo motivo l’Imam invitava i suoi discepoli ad essere “Partito di Dio”: ovvero, spirituali (ruhaniyyum) e beneducati nella condotta dell’Islam. Perché il peccato di un ulema è molto più grave del peccato di un uomo normale.
 
La conoscenza del giureconsulto è quella che meglio si adatta non solo alla difesa della virtù ma anche alla difesa delle libertà e dell’indipendenza del popolo. E per questo motivo, nel periodo dell’occultamento dell’Imam del Tempo, i religiosi devono assumere le responsabilità del governo in quanto la conoscenza della legge è la condizione fondamentale dell’autorità.
 
Sia chiaro che, come afferma lo stesso Khomeini, quella del governo del giureconsulto, non è una sua invenzione ideologica; essa è al centro della questione del governo islamico sin dalla sua origine [7].
 
L’essenza della Rivoluzione Islamica consiste proprio nel suo incarnare un moto che riporta ad un punto di origine: un “Ritorno alla Tradizione”, all’autenticità, che ancora oggi preserva l’Iran dall’omologazione culturale di matrice occidentale.
 
La Rivoluzione, ritornando al verso coranico citato all’inizio, ha posto le basi per una cosciente mutazione intima del popolo iraniano (da intendersi come riappropriazione del suo “Esser-ci” autentico) che lo ha reso capace di modificare il proprio destino sconfiggendo l’usurpatore della sovranità divina.
 
Non si può negare che essa abbia avuto anche dei riflessi geopolitici. La Rivoluzione, infatti, ha restituito all’Iran il suo ruolo di centro; di polo geopolitico capace di esercitare la sua influenza lungo le direttrici della dimensione spaziale e dell’elevazione spirituale.
 
Questa ha fornito a tutte le etnie e le minoranze religiose presenti sul suolo iraniano il senso di appartenenza ad una comunità di destino che ha portato cristiani, ebrei e zoroastriani a combattere al fianco dei musulmani durante la guerra imposta dall’Iraq di Saddam Hussein.
 
Oggi, la propaganda sionista sta cercando di destabilizzare l’Iran e di distruggere il legame che contraddistingue i diversi gruppi etnici presenti all’interno di una Nazione che è erede di una millenaria tradizione imperiale.
 
Solo qualche giorno fa, la nuova amministrazione nordamericana, non sorprendentemente, ha ribadito di non avere alcuna intenzione di rimuovere il regime sanzionatorio contro l’Iran, proseguendo nella linea tracciata dai suoi predecessori [8].
 
Quale senso ha la prosecuzione del regime sanzionatorio quando (almeno a parole) si afferma la volontà di tornare al cosiddetto “accordo sul nucleare iraniano”? [9]
 
La risposta a tale quesito è fornita da un piano sionista del 2014 (ovvero prima ancora della firma del JCPOA) in cui si ribadiva la necessità di pressare gli Stati Uniti affinché non solo non venissero rimosse le suddette sanzioni ma ad esse se ne aggiungessero di nuove.
 
L’obiettivo, in questo senso, era quello di impoverire le aree periferiche dell’Iran per scatenare rivolte etnico-settarie che, qualora ben incanalate ed eterodirette, potrebbero condurre a veri e propri moti separatisti e, in ultima istanza, alla parcellizzazione dello Stato iraniano.
 
Il progetto sionista, nello specifico, si concentrava sullo sfruttamento dell’organizzazione terroristica MeK e della minoranza curda (che ha una lunga tradizione di ottimi rapporti con Tel Aviv) così come di quella araba ed azera (qualora si riuscisse a convincerle della bontà dell’idea separatista) [10].
 
Oggi, si può ancora considerare l’Iran come un paradiso di stabilità se paragonato ai suoi vicini sia occidentali che orientali. Tuttavia, i nemici della Rivoluzione, sia esterni che interni (come dimostrato dall’assassinio dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh), sono più attivi che mai.
 
L’unica via percorribile per la sua difesa, dunque, rimane quella della cooperazione con le altre forze dell’Eurasia per l’affermazione di un sistema globale post-americano.
 
A questo proposito, il primo reale obiettivo (ed il punto di partenza) non potrà che essere l’eliminazione della presenza nordamericana sia in Afghanistan (fondamentali in questo caso i recenti colloqui tra Talebani ed Iran) [11] che in Iraq e Siria.
 
Note
[1] Chi scrive ha trattato il tema della restituzione del concetto di “conflitto” all’ambito della teologia nell’opera “Essere e Rivoluzione. Ontologia heideggeriana e politica di liberazione” (NovaEuropa 2019). Essere “uomini veri” significa anteporre la meditazione all’azione onde evitare che questa diventi priva di scopo e sterile: ovvero, una dispersione delle facoltà umane nella mera agitazione. Essere “uomini veri”, inoltre, significa comprendere che esistono tre ambiti: quello metafisico, quello fisico e l’ambito intermedio in cui i primi due si incontrano. Ridurre il pensiero e l’azione al solo ambito fisico significa negare l’essere stesso dell’uomo.
[2] Si veda R. Khomeini, La più grande lotta. Per liberarsi dalla prigione dell’ego e ascendere verso Dio (Irfan Edizioni 2008).
[3] Y. C. Bonaud, Uno gnostico sconosciuto nel XX secolo. Formazione e opere dell’Imam Khomeini (Il Cerchio 2010), pp. 88-90.
[4] Si veda su www.islamshia.org il discorso integrale tenuto dal Generale Martire Hajj Qassem Soleimani, comandante delle forze Quds dei Guardiani della Rivoluzione Islamica, in occasione della sessione di chiusura del Congresso nazionale dedicato agli ottomila martiri offerti dal Gilan durante la Guerra Imposta all’Iran Islamico e Rivoluzionario dall’Iraq.
[5] In ambito sunnita, l’idea dell’Islam come religione e “filosofia” orientata all’azione verso la trasformazione sociale venne fatta propria nei primi decenni del XX secolo dal pensatore e poeta Muhammad Iqbal, riconosciuto come il padre spirituale del Pakistan.
[6] R. Khomeini, Il governo islamico. O l’autorità spirituale del giureconsulto (Il Cerchio 2007), p. 120.
[7] Ibidem, p. 108.
[8] Si veda Biden says he won’t lift sanctions on Iran to bring country back to negotiating table, www.edition.cnn.com.
[9] È bene anche ricordare che i termini dell’accordo non venivano rispettati da parte nordamericana sin dalla fine del secondo mandato di Barack Obama.
[10] Si veda How to hurt Iran, even without airstrikes, www.mida.org.il.
[11] Si veda Iran hosts Taliban leader as peace talks stalled, www.reuters.com.