Home Storie Domani è lunedì: un giorno di (stra)ordinaria follia 
(Articolo tratto da Raido – Contributi per il Fronte della Tradizione n. 34 – Solstizio d’Inverno 2007)
Oggi non parliamo di sfide o gesta eroiche, né di vertiginose montagne o di esperienze al limite, ma di quanto accade nel disumano mondo degli uomini (moderni), quello della città, della quotidianità, delle piccole “miserie umane” che febbrilmente si muovono nel contesto cittadino. Oggi parliamo della pianura, perché viviamo in pianura, perché siamo uomini della pianura, perché aspiriamo a superare la pianura. E la pianura è sinonimo di deserto e come ammoniva Nietzsche “il deserto cresce e guai a colui che nasconde in sé dei deserti”.
Anche questa mattina, verso le 7 è suonata la sveglia e tempo di una doccia e un caffè sono pronto per una nuova giornata di lavoro che si prospetta dura, poiché c’è un obiettivo da raggiungere a breve termine e mi gioco molto del mio futuro. Mentre percorro la strada che mi separa dall’ufficio e mentre sono immerso nel vorticoso flusso del traffico cittadino, la mia mente è completamente presa dal lavoro che mi aspetta e con un po’ di ansia e di apprensione studio ipotetiche strategie di riuscita. Sono giorni che ci penso e debbo dire che da un po’ di tempo a questa parte non ho altro per la testa, anche se mi suona nella mente una frase di un caro amico che ripeteva come il lavoro fosse solo uno strumento e non il fine della vita… bah, il concetto è bello ma non è così facile e poi forse lo dice uno che nel lavoro riesce poco.
La giornata procede, computer, telefonata, soluzione da trovare, e-mail, fotocopia, altra telefonata, internet, pausa pranzo, caffè, due chiacchiere, invidia del collega, problema inaspettato, preoccupazione, arrabbiatura, ci vediamo domani… stessa ora solito posto. Sono entrato che era giorno, esco che è buio fitto. Mentre mi dirigo verso l’auto, in un breve attimo di lucidità penso a come generalmente gli uffici sono un coacervo di energie psichiche, risultato di quanto ognuno riversa per circa otto ore della giornata, dei propri stati d’animo, dei problemi e delle infelicità, del modo d’essere, degli umori e dei diversi sentire, il che determina un contesto che tende a svuotare, a “succhiare l’anima”, a lasciarti pelle e ossa.
Lascio da parte questa riflessione per rimettermi in auto, visto che ho un po’ di strada da fare e il traffico è sempre lì, immancabile, un fiume di auto anonime che a loro volta trasporta gente anonima, la quale non sa perché magari si trova ferma al semaforo immersa nei suoi pensieri e nelle sue ansie metropolitane o in uno stato di stordimento e di incoscienza, dopo una giornata di lavoro che ti riduce, è proprio vero, pelle ed ossa. Arrivato a casa, mi ricordo che, secondo i programmi, mi sarei dedicato ad altro oggi, magari alla corsa nel parco sottostante o ad una lettura, ma mi rendo conto di non esserne in grado o meglio di non averne voglia… mi sento proprio pelle ed ossa. Allora opto per la decisione più facile e a portata di mano, quella più coerente con lo stato in cui mi trovo: mi “spalmo” sul divano e la giornata volge al termine guardando la televisione in uno stato di incoscienza. Avverto un certo appetito ma propendo per un pasto rapido, freddo e anche poco equilibrato poiché manca la voglia di cucinare e preferisco “rispalmarmi” sul divano. Tempo mezz’ora e sono completamente andato, sono entrato nel mondo del sonno profondo. Sono giorni che faccio questa vita, forse mesi o forse anni e sono giorni che dormo in maniera strana: o troppo profondamente o in maniera intermittente e al risveglio sento sempre che è mancato qualcosa, nell’uno o nell’altro modo. La nebbia cala fitta e il sonno mi trasporta in una dimensione familiare e conosciuta.
Un nuovo giorno riparte, sono pronto per andare a lavoro, sono riposato e rinfrancato. Oggi è il gran giorno, visto che il “capo” esaminerà il lavoro che ho preparato e visto che saprò se veramente posso aspirare a fare carriera. Sinceramente non sono molto entusiasta di quest’ultima idea, anzi francamente non mi interessa più di tanto, visto che penso sempre a dare il meglio di me al lavoro per una questione che potrei definire “etica”, di principio. Sono, infatti, convinto che non ha senso investire una vita intera per un qualcosa che al giorno d’oggi è totalmente disumano, meccanizzato, anonimo, privo di qualsiasi forma di “personalità”. Sin da bambino sono cresciuto in una famiglia agiata, borghese, la quale però mi ha sempre insegnato il rispetto per le cose e le persone, ma soprattutto l’equilibrio nei confronti delle cose e delle persone. Ecco allora che anche il lavoro, così come lo studio, l’ho inteso come una campo per verificare questo mio equilibrio, per verificare e conoscere me stesso, le mie reazioni dinanzi al rapporto quotidiano coi colleghi, col capo e soprattutto dinanzi alla quantità di energie che debbono essere investite.
Ogni uomo ha nella vita delle priorità e in base ad esse, se consapevole e cosciente di quello che vuole, dedica più o meno tempo e più o meno energie ad una attività rispetto che a un’altra. Il lavoro per me è un mezzo di sussistenza e allo stesso tempo di conoscenza di come sono e di quello che voglio. Nient’altro, anche se già questo è molto e soprattutto è difficile che sia sempre così. Tornando alla mia giornata, il lavoro che ho presentato non pare entusiasmare, anzi viene bocciato in favore di un altro progetto che francamente consideravo inferiore; la cosa che più mi fa male è che la notizia viene data “a bruciapelo”, davanti a tutti, senza un minimo di rispetto. Resto allora un attimo a pensare, mi chiudo nel mio ufficio a meditare sul perché di questo esito che sinceramente considero inaspettato. Il capo non ha approvato l’impostazione del mio progetto e senza indugi l’ha scartato. Tuttavia, non ero quello che prima diceva che la carriera non gli interessa e che lavorare è solo un “mezzo per sopravvivere”? E’ vero, la convinzione è sempre quella ma quando si è dinanzi ad esperienze così dirette, che investono il tuo orgoglio, la considerazione che hai di stesso, ma anche il tempo e la fatica che hai impiegato, la “botta” è decisamente dura.
Resto mezz’ora a pensare, o forse a far sbollire l’arrabbiatura visto che i pensieri che si rincorrono sono confusi e disarticolati. Squilla il telefono, è un collega che mi propone una serata per dimenticare, una bevuta che serva ad evadere da me stesso e a dimenticare la “giornataccia”; in genere con l’ubriacatura si riesce a dimenticare tutto almeno per una sera, lasciandosi alle spalle i problemi. Rimando la decisione a dopo, non voglio ancora impegnarmi. Da quando ho iniziato a lavorare, dopo l’università, non mi era mai capitata una così cocente delusione e sinceramente non mi ero mai confrontato con cosa volesse dire il “sentirsi messo in discussione”: sempre perfetto, sempre in ordine, sempre risoluto e sicuro.
Sto per chiamare il collega e sto per optare per la “serataccia”, in modo che tutto si dimentica e domani magari è un nuovo giorno. Un attimo di indecisione e dalla finestra aperta una folata di vento fa cadere alcuni fogli e su di uno vi è trascritta una frase estratta da un testo a me caro, quello che porto sempre nello zaino durante le solitarie ascese in montagna: “Chi è euforico nei giorni felici sarà depresso in quelli tristi”. E’ proprio vero, penso tra me, e soprattutto è vero quanto sia difficile trovare quel equilibrio e quel distacco che ti permette di essere lucido e consapevole. La giornata lavorativa volge al termine ma, invece di tornare a casa, decido di uscire dalla città e di andare in un posto familiare a un’ora di strada, verso le montagne, le mie amate montagne appenniniche.
Questa sera il tramonto lo vediamo da qui, in una silenziosa e solitaria platea naturale. Mi sento bene, forte, assolutamente lontano da quello stato di malessere che dopo la notizia del pomeriggio mi aveva colto. A quest’ora magari sarei stato in qualche pub alle terza o quarta pinta di Guinness con propositi “bellicosi” per tutta la serata e invece sono qui, ritrovato e in quello stato di “beata solitudo, sola beatitudo”. Il sole è calato, la mia mente non vaga in maniera disordinata ma è fissa nel pensare a come nella vita bastano piccoli segnali per fare prendere pieghe diverse alle situazioni, avvertimenti che se colti possono veramente cambiare la vita. Se non fossi stato attento a quel foglio svolazzante magari non starei a ritrovare me stesso dopo una giornata difficile e ma a perdermi in chissà quale locale, visto che le intenzioni non erano quelle di una piacevole birra ma di una serata ad alto tasso alcolico, quelle in cui “si beve per dimenticare” per intenderci. Il sole è calato ma i colori rosso fuoco dipingono ancora il cielo terso di una giornata d’inverno; mentre mi dirigo all’auto per tornare verso casa un cane pastore si avvicina con fare curioso, senza abbaiare e con l’intenzione di farsi accarezzare. L’espressione compiaciuta e il fare festoso mi sembrano il giusto epilogo per un’ora trascorsa nel posto che frequento quando avverto il bisogno di interrogarmi… perché generalmente ognuno ha un suo posto, magari segreto come quando da bambino giocava e si chiudeva nel suo piccolo mondo. Sono arrivato a casa, tempo di una doccia e subito a letto: la giornata è stata molto intensa.
La sveglia alle sette suona puntuale come tutte le mattine e oggi, il gran giorno, mi sento stranamente più riposato. Ho sognato stanotte, e come se ho sognato! Prima di pranzo ho l’incontro col capo che esaminerà il lavoro, mi gioco molto del futuro e della mia reputazione. Sono carico e raggiante, le porte della carriera sono ad un passo. Stanotte ho sognato dicevo, anche se non ricordo bene quale fosse il contesto e l’ambiente, o meglio ricordo solo di una frase e di un libro che conosco perché regalatomi. Lo prendo dalla libreria, si tratta dell’Hagakure. Il codice dei Samurai, che sinceramente non ho mai avuto il tempo di leggere. Lo porto con me, magari più tardi cerco quella frase e vedo se corrisponde a quella del sogno. Ma ora non c’è tempo per queste cose, il grande giorno è arrivato, il mio futuro mi attende, la mia vita anche.