Sabato mattina. Le 4.45. Non è servita la sveglia per alzarmi, perché sono sveglio da molto. La tensione per l’appuntamento che mi sono dato supera la stanchezza di una settimana di lavoro. Il caffè sul fuoco, lo zaino, controllo gli scarponi. Ripongo la bandiera della Tradizione sopra il k-way, piegata accuratamente.
Posteggio l’auto nel buio, scendo mentre i primi uccelli iniziano a cantare. La salita si fa subito serrata sotto la volta del bosco. Sono solo.
Dopo poche curve, il primo incontro. È uno stambecco maschio che presidia il sentiero, mentre più in alto le femmine spingono i nuovi nati ad accalcarsi verso il fianco della montagna; per evitare le aquile, mi ha spiegato una volta un anziano.
Gli passo accanto e continua la sua veglia solitaria. Questo sentiero è qui da ottocento anni: a quest’ora, fino a un secolo fa, sarebbe stato già percorso da chi attendeva ai lavori. Oggi ci sono solo baite crollate e cappelle per chi è stato colto dalla valanga.
La via ha pozze indurite di ghiaccio, ma il buio sta cedendo alla prima luce. Più in alto, sulle cime innevate, scaglie di un sole rosso rosato. Sono partito presto per evitare anche i mattinieri; la mascherina, una volta tanto, è rimasta in auto: si è liberi, qui.
Alle ultime svolte del sentiero mi appare la meta: il villaggio antico, scampato anche alla peste per la sua posizione aspra, lontana e sommitale. Poche case, una chiesa, il forno del pane comune. E adesso un rifugio, un’area picnic per quelle due settimane dell’anno in cui la montagna viene offesa dalla presenza della folla. Ma ora è tutto silente, anche il grande tiglio – l’albero del villaggio – tace.
Una pertica di legno, altissima, è piantata accanto alla chiesa da tempo immemorabile: asta senza vessillo, che mille volte ho guardato senza curarmene. Oggi, però, ha una luce nuova: sarà la lancia della nostra bandiera.