FUOCO | Lo Spirito della modernità: da Voltaire alla tessera verde

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Ammettiamolo: la sorte di molti di noi è di assumere farmaci cronicamente o per tempi prolungati. E dunque, inevitabilmente, d’incappare nell’odioso meccanismo dell’assuefazione: il corpo si abitua e abbisogna di un dosaggio maggiore. Il meccanismo di assuefazione è, purtroppo, naturale per il corpo, che è sottoposto alle insindacabili leggi della chimica e della biologia; ma non è – o non dovrebbe essere – normale per lo spirito, il quale è – o dovrebbe essere – mosso da «ragioni» del tutto differenti, per dirla con Pascal. Eppure, se si provasse ad abbracciare con uno sguardo la Modernità, e se si tentasse di sussumerne una definizione in tre parole, queste sarebbero di certo «assuefazione dello spirito». E a cosa si assuefà lo spirito? Ad essere distrutto, oppresso, negato.

«Così par anco a me; ma io vorrei che procedeste più grosso, e alquanto meno da filosofo» (dato che non lo siete), mi si potrebbe obiettare con le parole del grande storico fiorentino Benedetto Varchi. E dunque si procederà più grosso: si andrà sul concreto, pur senza rinunciare a un po’ di filosofia spicciola. E si partirà da un momento chiave per la comprensione di cosa sia la Modernità – che non è un concetto meramente cronologico –: un momento di cui si hanno distratti ricordi scolastici: il momento in cui la maestrina dalla penna (e dalla tessera di partito) rossa faceva del proprio meglio per ammosciare le «r» nel pronunziare quella benedettissima stringa di parole francesi: Traitté sur la tolérance di Voltaire. Un vero classico. A questo punto partiva una celebrazione agiografica di Voltaire che assomigliava paurosamente a quelle che il philosophe tanto derideva nel IX capitolo dell’opera summenzionata. Opera che l’uomo che si richiama a una visione tradizionale deve leggere (cosa che, peraltro, difficilmente fanno le maestrine dalla penna rossa), pur con un ovvio spirito critico. Vi si trova infatti, sparsa qua e là, fra tante riflessioni e sentenze che possono essere anche apprezzate, la dichiarazione di quali siano le armi per «assuefare dello spirito». Si tratta di armi di cui oggi – specialmente fra il ceto politico e intellettuale dominante – viene fatto larghissimo uso, e sostanzialmente sono: l’irriverente e caricaturale messa in ridicolo del «vecchio» in quanto tale; la deformazione storica gravida di conseguenze nel presente; l’esclusione di alcuni individui dalla comunità politico-intellettuale sulla base proprio delle suddette mistificazioni. Se ne possono osservare le ricadute oggi, e noi anti-moderni le proviamo sulla nostra pelle: rappresentati come trogloditi, vittime di ingiuriose redutiones ad hitlerum (sia nel senso letterale che traslato, e la categoria oggi più di moda è no-vax anti-scienza), non possiamo toccare palla – con eccezioni risibili nel numero, non certo nella qualità, fra le quali ricordiamo l’immenso Franco Cardini – nella riflessione culturale che si auto-definisce «alta» e che, per legittimare la propria egemonia e perpetrarla nel tempo, ha de-costruito e ricostruito a suo piacimento la storia di un Paese, partendo dalla rappresentazione proprio della nascita dell’Italia: dal Risorgimento, sul quale questa non è la sede adatta a dire altro se non che è stata compiuta un’immane opera mistificatoria (val la pena affidarsi ai lavori di due storici, uno di destra e uno di sinistra: Massimo Viglione e Alberto M. Banti). Ciò che interessa qui è capire come e perché questo processo di ridicolizzazionedeformazioneesclusione sia funzionale all’«assuefazione dello spirito»: come, cioè, pretenda costantemente di superarsi e miri, come fine ultimo, a distruggere ogni certezza, a ridurre tutto al nulla. E a dircelo è ancora Voltaire, in una lettera di commento al Traitté inviata a un altro eroe delle maestrine dalla penna – e dalla tessera di partito – rossa: l’enciclopedista D’Alembert. Queste le sue parole: «essi [scilicet: i filosofi seguaci di Voltaire] aumenteranno sempre di più; e i giovani destinati alle più alte cariche s’illumineranno con loro, e la religione si farà meno barbara e la società più mite».

Non avrebbe senso qui prendersela col philosophe e indicargli sommessamente gli orrori – tutti avvenuti dopo la sua «grande lezione» laicista – commessi dal Terrore, da due guerre mondiali, dal colonialismo. Ha più senso riflettere su quei minacciosi «aumenteranno sempre di più» e «la società [si farà] più mite». Aumento continuo e stordimento: ecco i perni di un processo di assuefazione. Perché, si badi, con «mite» non si deve intendere «pacifica» (e l’ha convalidato la Storia), quanto piuttosto «non reattiva». E questo è il sogno della modernità: neutralizzare nell’uomo tutto ciò che vi è di umano, oltre a tutto ciò che vi è di divino – o come lo si voglia chiamare. Neutralizzare cioè quella dicotomia che fa vivere e pulsare l’uomo: la dicotomia fra humilitassublimitas, per usare le bellissime parole di San Bernardo di Clairvaux. La Modernità, che inizia con un moto falsamente liberatorio, con l’«assalto al Cielo», con l’«Ecrasez l’infame!», finisce – o meglio diventa post-modernità – con l’«assalto all’uomo» (e alla donna, soprattutto) delle sguaiatezze sessantottine; assalto che ora trova l’uomo indebolito, inebetito, morente. E magari lo trova impossibilitato – o, ancora peggio, impaurito – a mostrare il viso se prima non ha mostrato un codice a barre; impossibilitato – o  impaurito – a dare un bacio; impossibilitato – o impaurito – a fare progetti per una vita che egli non si domanda neanche più se sia tale, con uno spirito assuefatto a ogni tipo di violenza e di stortura.

Ancora, val la pena riflettere su quel «la religione si farà meno barbara»: frase dal portato (consciamente o inconsciamente) abominevole, come se la religione dovesse conformarsi ai criteri di «civilizzazione» di chi a quella religione è estraneo (leggi: imperialismo etico a stelle e strisce in Medio Oriente)!

Ma ciò che in questa frase è ancora più preoccupante è l’uso certo del tempo futuro: la coscienza di un processo di assuefazione dello spirito che ridurrà l’uomo a un «mite disperato» che dileggerà la Tradizione poiché ha sentito dire che si fa così, e che sostituirà a quegli «Dei falsi e pagani» (i poveri Cristo, Jahvè, Allah, Giove, Shiva), che fanno tanto out-of-date, la dea Ragione – cosa per altro accaduta in maniera letterale durante il Terrore giacobino –, il dio Progresso, la dea Scienza. E oggi la religione dominante effettivamente venera questa «trinità meno barbara», e prescrive – anzi: impone senza alcuna tolleranza voltairiana – processioni ai suoi templi (maxime gli hub vaccinali, ove sempre più ci recheremo a chiedere «miracoli»), pellegrinaggi ad loca sancta (cos’altro è il «viaggio a New York» da fare almeno una volta nella vita?), rituali collettivi (ovviamente post-umanamente virtuali: si pensi alle conferenze stampa cui siamo appesi), conformismo anche a livello delle idee (che si traduce in un monopolio quasi perfetto dei canali di trasmissione del sapere, e non serve addurre esempi). 

No, la Modernità non ha risolto nessun problema: non ha ridotto tutto a quel «due più due fa quattro» di cui parlava Voltaire nel capitolo XXI del Trattato, pensando che così si sarebbe sbarazzato di Dio. O meglio, proprio nel voler ridurre l’idea di Dio a quel «due più due fa quattro», la Modernità, al contrario, è divenuta e sempre più si appresta a divenire l’età in cui «fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro» (G. K. Chesterton).