Dal cavaliere al soldato politico

781
Parlando del nuovo modo di fare la guerra in seguito all’introduzione delle armi da fuoco, definite da Ludovico Ariosto “macchine infernali”, “abominoso ordigno” e “scellerata invenzione”, l’autore dell’Orlando Furioso dichiara che «il mestier de l’arme è senza onore». E non è un caso se nel periodo immediatamente successivo, dalla penna di Cervantes veniva assicurata eterna gloria al personaggio di Don Chisciotte (“Il Cavaliere della Fede che ci fa saggi con la sua follia”). Il quale Don Chisciotte, essendosi dedicato ad una maniacale lettura dei libri di cavalleria, trascurò il proprio patrimonio ed ogni altro interesse borghese, per emular le gesta dei prodi combattenti del passato, aspirando alla medesima gloria narrata dalle pagine dei libri da lui appassionatamente letti.
Con la sua (apparentemente) folle condotta, il “cavaliere dalla triste figura” si proponeva di ristabilire il primato di quell’onore che era scomparso dalle usanze militari di quel tempo; volendo egli così rientrare nel solco della tradizione cavalleresca allora in estinzione; quasi in contemporanea col riassorbimento nel Centro Supremo degli ultimi Rosacroce ancora operanti in Europa, che sarebbe avvenuto all’indomani della Guerra dei Trent’anni. La prima cosa che Don Chisciotte fece per portare a compimento il suo eroico proposito «fu di ripulire certe armi appartenenti ai suoi bisavoli, che da secoli e secoli erano state messe e dimenticate in un canto», lanciandosi quindi contro un mondo per lui diventato ignoto e incomprensibile. Una lotta impari e disperata che, dietro la maschera dell’umorismo, cela una vera e propria rivoluzione interiore del protagonista: unico saggio in grado di ribellarsi ad una insensata realtà, sempre più in via di imbarbarimento.
Che egli dovesse risultare folle a giudizio dei suoi parenti e conoscenti era d’altronde inevitabile, dato il suo scandaloso intento di schierarsi dalla parte dei perdenti della storia e risalire controcorrente le acque tempestose della modernità. Forse il primo di una lunga serie di scomode figure, al pari degli eterni ribelli, dei presunti tiranni, degli oppositori politici e degli eretici culturali, fino ai “complottisti”, “revisionisti” e “negazionisti” attuali; tutti matti, come si sa, e tutti sottoposti regolarmente alla gogna psichiatrica, cui i nemici della tradizione sono soliti esporre coloro che si rifiutano di obbedirgli, o che semplicemente sfuggono alla loro nefasta influenza. Espediente sanitario che — in virtù della “prova psicologica” — poteva essere concepito solo dalla mente di autentici psicopatici: al pari dei traditori seriali, che vedono tradimenti e “corna” dappertutto; o dei ladri matricolati, che diffidano dell’altrui onestà; come, del resto, chi è uso a compiere genocidi è naturalmente portato ad attribuire agli altri la propria inclinazione omicida.
Eppure, l’ideale eroico che animava Don Chisciotte rimandava alla nobilissima figura del Cavaliere, che nel linguaggio comune conserva l’idea di lealtà, nobiltà e correttezza; uno dei pilastri, insieme alla figura del monaco, della società medioevale. Esempi entrambi di rinuncia e abnegazione (dove il primo era chiamato a difendere la preghiera e le meditazioni del secondo); del tutto inconciliabili col successivo utilitarismo della razza dell’uomo sfuggente che avrebbe di lì a poco cancellato le ultime tracce della società tradizionale dal suolo europeo. L’affermazione del sistema democratico si baserà, infatti, sulla prevalenza dell’elemento borghese, il quale assegna al “mestiere delle armi” l’esclusiva funzione di difendere le comodità, il benessere fisico e la sicurezza dei commerci e degli affari, contrapponendo al guerriero l’ipocrita figura del soldato (“impiegato della guerra”). Il quale non combatte più le giuste battaglie ma compie benevole “missioni di pace”; mascherando dietro il peggiore sentimentalismo le più efferate stragi di civili e di vittime innocenti; dove l’odio ed il disprezzo per il nemico alimentati dalla degradante propaganda diventano il fattore decisivo e indispensabile per mobilitare le “coscienze democratiche”.
Divisa ed emblema del cavaliere erano l’onore e la fedeltà, con la conseguente accettazione di una gerarchia e di una disciplina, del comando e dell’obbedienza, della distanza e dell’impersonalità, della misura nel parlare e nel discutere, della lucida compostezza e della padronanza di sé; tutte cose in grado di plasmare ed orientare la cultura, le istituzioni e l’intera organizzazione della società aristocratica, al di là del semplice evento bellico e militare. La padronanza ed il dominio di sé, propri del guerriero, cedono ora il passo agli attori delle guerre democratiche, dove coscritti e mercenari devono sottoporsi a vere e proprie ubriacature, non solo ideologiche e propagandistiche ma anche attraverso l’uso di sostanze inebrianti e stupefacenti, che ne alterano la coscienza per rimediare alla mancanza di coraggio.
Nella regola primitiva dell’Ordine del Tempio, si fa appello a «quanti disprezzano profondamente la propria volontà e desiderano, con purezza di cuore, servire il re supremo come cavalieri e indossare, ora e per sempre, con premurosa sollecitudine, la nobilissima armatura dell’obbedienza», al fine di professare la propria fede, «con pura abnegazione e ferma perseveranza». Basterebbero queste premesse per dare il senso autentico di una scelta, dove quello militare è solo l’ultimo degli impegni rispetto a tutti quanti gli altri assunti verso se stessi e la propria ascesi. Infatti, rinunciare alla propria volontà è possibile solo affidandosi a Dio, altrimenti non ci si può che assoggettare al suo nemico. 
Essendo il Templare prima che un guerriero un monaco e un uomo religiosissimo (“mondo dentro e fuori”), le rigidissime norme, le prove più dure, le punizioni esemplari e l’austera vita della casa dell’Ordine cui egli doveva sottomettersi mettevano al primo posto la castità, “che rende il cuore saldo ed il corpo sano”: l’unica arma che insieme all’obbedienza garantisce la vittoria nella lotta contro le proprie passioni. E siccome, secondo i cistercensi, i cibi molto nutrienti accrescono l’appetito sessuale, era imposta anche la moderazione nel mangiare carne. Ugualmente bandite erano le parole scurrili e le empie risate, «vi comandiamo di evitare una grave piaga: invidia, dicerie, livori e maldicenze». Particolare cura veniva infine dedicata al cavallo, simbolo della parte animale da dominare e condurre alla giusta meta; nonché importante mezzo e strumento per la piccola guerra santa.
In uno scritto dedicato ai “guardiani della Terra Santa”, Guénon ci ricorda che i Templari ricevevano  «un particolare tipo di iniziazione che è possibile chiamare cavalleresca», adatta alla natura propria degli uomini che appartengono alla casta guerriera (simile agli antichi misteri di Mithra, anch’essi riservati all’elemento guerriero), in virtù della quale essi non si limitavano a difendere e proteggere militarmente i territori contesi all’Islam, ma anche e soprattutto a custodire il “Cuore del Mondo” là collocato, in quanto centro spirituale della tradizione occidentale. Quello che rappresentava un riflesso del Centro Supremo della Tradizione primordiale dalla quale tutte le tradizioni particolari dipendono e, per gradi diversi, ne ricevono la comunicazione dei principi a cui attenersi. 
I Templari, in quanto “guardiani”, pur restando al limite del centro spirituale, avevano il compito di assicurare le relazioni con l’esterno, dove la loro duplice funzione militare e religiosa (essendo al contempo cavalieri e monaci) consentiva di sposare e far convivere in un’unica figura l’azione e la contemplazione, indicando così la Via all’Occidente. E il superamento da parte loro del dualismo exoterico — cosa che avrebbe rappresentato uno dei principali atti d’accusa nel processo che ne determinò lo scioglimento — è un chiaro segno dell’apertura, per lo meno presso il cerchio più interno della loro gerarchia, al riconoscimento dell’unità di tutte le tradizioni particolari nell’unica Tradizione primordiale: “per essi, non faceva differenza che l’avversario fosse cristiano o saraceno, come era lo stesso che la lotta si concludesse in gloria o disfatta, perché il combattere per essi era un’ascesi e una purificazione”. Concetto che fa il paio con quanto espresso da San Bernardo: «Sia che viviamo, sia che moriamo, noi apparteniamo al Signore».  I Templari, in questo modo, assicurarono e garantirono l’Unione della tradizione europea col Centro Supremo; fino alla rottura di ogni comunicazione sopraggiunta in seguito alla loro violenta distruzione, la cui tragica ferocia d’esecuzione lascia trapelare il sinistro sottofondo che la determinò. 
Relazioni e legami col Centro che, comunque, per un certo tempo continuarono ad essere garantite da altre organizzazioni (anch’esse di derivazione templare), come quella dei Fedeli d’Amore, cui apparteneva Dante, o come la militia del Santo Graal, dove l’idea dell’occultamento momentaneo della tradizione è ben evidenziata (come nella saga di re Artù o nelle leggende che riguardano la latenza sull’Etna degli imperatori ghibellini mai morti), che troverà poi concreta applicazione nel ritirarsi degli ultimi Rosacroce dall’Occidente.  
Ma anche sull’altro versante, quello islamico, l’ideale cavalleresco era presente e svolgeva una non diversa funzione di quella dei Templari, che con la cavalleria araba non si limitarono solo a combattere ma ebbero anche scambi e confronti a livello spirituale. In essa militavano altrettanti prodi e valorosi guerrieri impegnati a contendere la Terra Santa alle armate cristiane e a custodire il medesimo Centro. La Futuwah, infatti, era un ordine cavalleresco presso il quale conviveva l’elemento guerriero insieme a quello religioso, che veniva fatto risalire al genero del Profeta ‘Ali, fiore e prototipo dei cavalieri arabi: «non c’è spada che zul fakar (nome della spada di ‘Ali) né cavaliere che ‘Ali», dice l’Arcangelo Gabriele al Profeta Muhammad durante la sua ascesa celeste.
Dati questi nobili e gloriosi precedenti, era inevitabile che chiunque abbia tentato in tempi recenti di restaurare le leggi dell’onore e della fedeltà per sanare la ferita inferta dalla Rivoluzione francese, non potesse fare a meno di guardare a quel modello e a quegli esempi per organizzare la sua lotta: risvegliando le stesse vocazioni, le stesse regole e lo stesso tipo di associazione. 
La naturale aggregazione dei giovani aderenti a quelle organizzazioni avvenne intorno ai valori guerrieri propri del mondo virile: virtù e coraggio, volontaria subordinazione a un capo, capacità di guidare e farsi guidare, impegno e devozione, visione e lungimiranza, iniziativa e fantasia, obbedienza e autorità, disprezzo per le discussioni inutili e per le opinioni personali. Il carattere sacrale dell’adesione a simili gruppi — considerata un privilegio e un onore — ha sempre comportato, fin dalla più remota antichità, un processo di rinascita e  purificazione (debitamente sottolineato da appositi riti e dal superamento di prove di resistenza fisica e spirituale). 
La testimonianza personale della visione spirituale di cui erano portatori divenne il loro stile; la coerenza il loro abito; il rifiuto di scendere a patti con la sovversione ne determinò l’azione; la difesa di giustizia e verità l’impegno imprescindibile; la consapevolezza e la responsabilità di parlare e agire a nome di tutta l’organizzazione ne regolò le scelte; l’armonia fisica e psichica ne determinò il prestigio; la condivisione dei principi ne assicurò la compattezza e la concordia; il far prevalere l’appartenenza al gruppo rispetto ai vincoli sentimentali e affettivi ne garantì l’affidabilità. Furono legami e sostegni di questo tipo e di tale intensità a garantire il successo e l’efficacia nell’azione di colui che è stato definito, non a torto, il “soldato politico”; il quale incarnò concretamente la dottrina, gli obiettivi e i metodi dei movimenti nazionali e antimoderni sorti in Europa all’indomani della Prima Guerra Mondiale.
Uno di questi gruppi, sicuramente quello meglio organizzato e maggiormente attivo e presente — non solo in Germania, ma sull’intero continente europeo, ed oltre, fino alle più alte cime tibetane — fu l’Ordine delle SS; di cui Léon Degrelle ebbe a dire: «Le Waffen SS, la sua più famosa emanazione, fu la formazione politico-militare più straordinaria di sempre che ha conosciuto l’umanità. Arrivò a contare, nel corso della II Guerra Mondiale, un milione di volontari provenienti da ventotto paesi differenti. Tutti questi ragazzi vennero ad offrire la loro vita (402.000 morirono in combattimento) per una causa che aveva catturato ogni particella della loro vita fisica e della loro volontà. […] È stato necessario che una fede enorme li invadesse e poi li consumasse affinché fiorisse questo dono assoluto, questa disciplina libera, totale, e la convinzione sovrana che essi portavano al mondo un tipo di uomo nuovo». Mentre  per Adriano Romualdi «la comune esperienza del fronte, la lotta quotidiana contro il più feroce nemico della civiltà europea, il comunismo russo, avevano creato all’interno delle Waffen SS una solidarietà cavalleresca tra combattenti».
Altrettanto potrebbe dirsi riguardo alle altre realtà fondate sugli stessi principi e costituite secondo lo stesso modello organizzativo, come le Camice Nere dell’Italia fascista, quelle della Falange Spagnola di José Antonio, fino alla Guardia di Ferro o Legione dell’Arcangelo Michele di Corneliu Codreanu in Romania. Tutti quanti modelli ed esempi di fulgido splendore e di entusiasta fede nelle proprie idee; in perfetta sintonia con l’antico ideale cavalleresco, cui tutte quante, non a caso, si richiamarono e fecero riferimento.
C’è una frase — Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est (“Ciò che è stato creduto dovunque, da sempre, da tutti”) — che indica meglio di qualunque altra l’universalità dei principi, uguali sotto tutte le latitudini ed in ogni epoca; a conferma dell’unità di tutte le tradizioni, e delle più intime e naturali inclinazioni dell’essere umano rettamente orientato. Presso i movimenti politici sopra evocati un rituale comune era celebrato nel ricordare il camerata caduto eroicamente nel compimento del proprio dovere: il dichiararlo “Presente!”, sentendolo in questo modo al proprio fianco nel prosieguo della comune lotta, dove i vivi e i caduti continuano a militare sollo stesso fronte. Ed è proprio al militante del Fronte della Tradizione che tutti questi esempi del passato possono tornare a fornire, oggi più che mai, un prezioso sostegno nell’affrontare con lo spirito giusto lo scontro finale che si profila all’orizzonte. Quando risuonerà ancora l’appello degli antichi cavalieri: «Sorgi e combatti!».