Articolo tratto dalla rivista “L’Alfiere” n. XV–XVI (giugno–ottobre 1964) di Attilio Mordini
IL SIMBOLO DEL GIUDIZIO
Il giglio è simbolo di integrità e giustizia e lo troviamo per la prima volta nell’isola di Creta,
accanto alla scure bipenne, quale prerogativa della regalità minoica. Il significato che per lo più
i moderni attribuiscono al giglio come simbolo di castità e di purezza, lungi dall’essere errato,
è tuttavia del tutto secondario. La castità, in quanto integrità, è infatti essa stessa misura d’ogni
giudizio. E’ unità, e quindi principio di ogni distinzione. Come vedremo, il prevalere di questo
secondo significato sul primo si deve al sopravvento, nel mondo, di tutto quanto è morale e
devozionale su ciò che è metafisico e, quindi, veramente essenziale.
In lingua greca giglio si dice krinon, termine che con ogni probabilità si forma dalla stessa
radice del verbo krino che significa taglio, divido, distinguo, e, finalmente, giudico. Il giglio,
infatti, appartiene alla famiglia delle gamopetale; non ha un boccio composto di petali già
distinti e al tempo stesso ben serrati tra loro che, all’atto della fioritura, si aprono; il suo boccio
consta bensì di un solo elemento. Fiorendo si spacca (e dunque si divide) in sei petali aperti a
stella.
D’altra parte, l’affinità tra l’idea di dividere, di spaccarsi, e l’idea del giudizio si trova
affermata quasi ovunque nel linguaggio: basti pensare al tedesco moderno ur–telein, giudicare
(da Ur–teil, giudizio, sentenza), dove il prefisso ur indica primordialità e l’infinito telein (da cui
l’italiano tagliare) significa appunto dividere. E così è da accostarsi allo stesso verbo greco
krino il latino cerno, il cui participio passato cretum ripete con evidenza proprio la voce di
Creta, il nome dell’isola del giudizio! Ed è la stessa voce che si ripete anche nelle parole italiane
decreto e decretare.
E da ciò appare subito evidente anche l’affinità tra il simbolo del giglio ed il simbolo della
scure bipenne caro ai sovrani cretesi. Già la doppia lama esprime l’idea della diade; e l’uso di
tale strumento è appunto quello di tagliare e dividere. In Creta la troviamo prima di tutto quale
scure sacrificale, destinata cioè non soltanto all’uccisione del toro (animale particolarmente
sacro in quell’isola) nei sacrifici al dio Giove, ma anche alla decapitazione dei condannati;
infatti la stessa esecuzione capitale era considerato un rito ed un sacrificio per la giustizia.
IL GIUDIZIO, LA CREAZIONE E LA LEGGE
La stessa bipenne era strumento di lavoro in quell’isola che, proprio nel boscoso monte Ida,
aveva nascosto Giove fanciullo all’ira di Saturno. E si narra che i Cureti, il corpo sacerdotale
che aveva in custodia Giove infante, avesse insegnato alle genti di Creta le arti manuali e le
leggi, fondando così il primo ordinamento corporativo1. E tra tutte le arti eccellevano
l’architettura e la carpenteria (si pensi al Labirinto di Cnosso), arte della scure, arte dei Re.
Il simbolo della bipenne sembra seguire quasi sempre il simbolo del giglio, non solo in Creta,
ma anche in tutte le civiltà tradizionali, sia in modo ben evidente, sia per certe coincidenze che,
se meglio osservate, rivelano ben altre e più profonde affinità. Ritroviamo ad esempio la scure
bipenne dei principi etruschi nella stessa Toscana dove si affermerà, più tardi, il giglio di Firenze2; e la scure bipenne dei Celti nello stesso territorio ove si affermerà il giglio d’oro dei
reali di Francia. Come vedremo in seguito, per i reali di Francia, giglio d’oro e scure bipenne
erano ben conosciuti e considerati in stretta e reciproca corrispondenza l’uno dall’altra, e non
si tratta di mera coincidenza.
Quanto agli Etruschi, pur se la relazione tra i due simboli non si manifesta nei loro confronti
in tutta la sua evidenza, ci sembra di poter affermare, ancora una volta, che la consapevolezza
di tale relazione non doveva essere andata perduta. Si può ancora vedere nel museo
archeologico di Firenze la stele funeraria di Uvele Feluske, da Vetulonia, in cui è raffigurato un
combattente nell’atto di sollevare con la destra una bipenne, mentre con la sinistra impugna lo
scudo. Ebbene, lo scudo è decorato, in tutta la sua ampiezza, da un fiore geometrico a sei petali.
Ora proprio il giglio, come abbiamo detto, nell’atto di aprirsi si spacca in sei parti; la
decorazione su tale scudo sembra perciò ripetere il motivo liliare, almeno nella sua essenza,
accanto al motivo della scure bipenne.
Ci appare essenziale il numero dei petali del giglio, soprattutto se consideriamo che sei è il
numero del macrocosmo, e ciò in piena analogia con i giorni della creazione3. Sotto tale aspetto
il giglio, quale fiore a sei petali, corrisponde in pieno alla stella a sei raggi formata da due
triangoli incrociati tra loro e detta stella di Salomone da quel sovrano che, oltre ad essere noto
per la sua giustizia, aveva costruito il Tempio di Gerusalemme. Ora, essendo il Tempio simbolo
del cosmo, la costruzione del Tempio è analoga all’Opus magnum della creazione.
E qui l’idea di giudizio e l’idea di creazione trovano il loro punto d’incontro proprio nell’atto
di dividere e di distinguere. Lo stesso verbo latino creare muove dalla radice KER, che, se da
un lato ha il senso di dividere, separare e giudicare (come nel greco krino e nel latino cerno),
dall’altro esprime l’idea di crescere, produrre e di generare. Creare e giudicare muovono perciò
dalla medesima radice e rivelano due aspetti della paternità e della sovranità di Dio strettamente
complementari tra loro.
In modo del tutto analogo, infatti, nel tedesco moderno si ha scheiden (gotico skaidan, latino
scindere, radice i.e. SKEI) che significa dividere e distinguere; e d’altra parte, schaffen che vuol
dire creare. E’ in antico alto tedesco skaffin significa giudice.
E’ altresì indiscusso che il Pantokrator è al tempo stesso il Verbo che crea ed il Verbo che
giudica. Le due cose sono intimamente e indiscutibilmente unite, poiché lo stesso creare è anche
un distinguere le singole creature tra loro. E’ l’Uno che si manifesta nel molteplice «Sia fatta la
luce… E la divise dalle tenebre. E chiamò la luce giorno e le tenebre notte» (Genesi I 3–4). E
nella narrazione della Genesi, ogni giorno in cui Dio opera si alterna con la rispettiva notte; i
sei giorni sono perciò divisione e separazione da altrettante notti, in tutto e per tutto analoga
alla divisione e alla separazione tra le opere della luce e le opere delle tenebre che costituisce
appunto il giudizio di Dio. E ciò impone all’uomo, tra l’altro, l’esame di coscienza ogni volta
che la notte scende a por termine alla sua giornata.
Tutto questo, si badi bene, si trova esposto nel Pentateuco, vale a dire in quei primi cinque
libri della Scrittura che, secondo il canone ebraico, son detti Torah, e cioè Legge, sia quale
Legge della creazione, sia come Legge data da Dio sul monte Sinai al popolo d’Israele.
LA GIUSTIZIA E LA CASTITÀ
Soffermandoci sulla Tradizione ebraica, sarà bene osservare che è proprio con la Bibbia che
il simbolo del Giglio viene accostato alla castità in modo evidente; e precisamente nel libro di Daniele con l’episodio della casta Susanna. Ed è appunto il nome di Shoshanna che, in lingua
ebraica, significa Giglio; ma non bisogna dimenticare che il nome del libro e del suo
protagonista è Daniele, che, sempre in lingua ebraica, significa Dio è giudicante. La giustizia
resta perciò il significato veramente essenziale cui il nome di Shoshanna, cioè di Giglio, ha da
riferirsi.
Se esaminiamo poi l’episodio di Susanna più da vicino, avremo modo di constatare, e quasi
di toccare con mano, la coerenza dell’universale linguaggio dei simboli. Conviene innanzitutto
osservare che l’episodio di Susanna, che occupa tutto il tredicesimo capitolo del libro di Daniele
nel canone della Volgata Clementina, non figura nel canone ebraico e ci è pervenuto dal testo
greco dei Settanta. Così l’episodio non si trova nemmeno nel canone di quelle chiese
evangeliche che dal canone ebraico prendono misura per l’Antico Testamento. E ciò spiega
come gli ultimi due capitoli di Daniele secondo il canone cattolico – vale a dire secondo la
Volgata –, che sono appunto il tredicesimo ed il quattordicesimo, non sono da collocarsi, per il
loro contenuto, almeno secondo l’ordine cronologico dei fatti, alla fine del libro.
L’episodio di Susanna sembra segnare addirittura l’esordio di Daniele nella vita pubblica
quale giudice illuminato da Dio; e la casta Susanna, il giglio, è dunque da considerarsi, ancora
una volta, occasione e misura di Giudizio. La casta sposa di Joachim è la donna integra alla cui
misura vengono smascherati e condannati due falsi giudici d’Israele.
Durante l’esilio del popolo ebraico in Babilonia la casa di Joachim, ebreo ricco e timorato
di Dio, era sede del tribunale d’Israele. Ogni sera i giudici vi si radunavano con il popolo e
giudicavano di volta in volta i casi del giorno. Due di questi giudici, due anziani, invaghiti della
bella moglie di Joachim, che era appunto la casta Susanna, si appostano nel giardino di lei per
sorprenderla sola durante il bagno; le fanno proposte oscene minacciandola di accusarla
falsamente di aver adulterato sotto i loro occhi con un giovane, se ella non accondiscende alle
loro brame. Ma Susanna preferisce venir condannata ingiustamente piuttosto che salvare la
propria vita contravvenendo alla legge di Dio.
I giudici procedono senz’altro contro di lei nella casa di Joachim suo marito. La sentenza di
morte è già pronunciata quando si leva improvvisamente un giovanetto per accusare gli stessi
giudici. E’ Daniele. Subito ordina che i due anziani vengano separati l’uno dall’altro; e interroga
il primo sotto quale albero avrebbe vista Susanna darsi al giovane amante che, secondo l’accusa,
sarebbe fuggito dal giardino all’arrivo dei due giudici. Sotto un lentischio, è la risposta del. Si
fa subito entrare l’altro e gli si pone la stessa domanda. Sotto un elce, risponde questi. Ecco
dunque che i due sono colti in contraddizione, ecco che Susanna è salva e i due falsi giudici
sono smascherati.
IL GIGLIO NELLA TRADIZIONE EBRAICA
E’ evidente, perciò, che tutto l’episodio della casta Susanna si imposta più al tema della
giustizia che non a quello della castità. Come abbiamo visto, si tratta di smascherare due giudici
abbietti e di porre al loro posto il giovane Daniele, vero giudice di Dio; mentre d’altro canto
Susanna è, si, casta, ma solo di castità coniugale. Ha marito ed ha anche figli. Infatti, chiamata
in giudizio, «Essa venne coi genitori, coi figli e con tutti i parenti» (Dn XIII 30). E leggendo
attentamente il colloquio tra lei ed i due vecchi giudici che le propongono di cedere alle loro
voglie, il comportamento di Susanna ci appare, si, casto, ma soprattutto forte; è insomma una
castità… di tutt’altra tempra che non quella purtroppo propagandata dal vieto devozionalismo
di questi due ultimi secoli!
E infine le parole con cui Daniele sferza i due falsi giudici ribadiscono ancora il senso del
giudizio quale divisione per la restaurazione e l’affermazione di una trascendente integrità. Al
primo giudice, che afferma d’aver visto Susanna adulterare sotto un lentischio, Daniele grida:
«E’ pretta bugia che ti cadrà sul capo, ecco l’angelo di Dio che ha ricevuto la sentenza e che ti spaccherà in due» (Dn XIII 55). E la stessa sentenza ripete al secondo che dice di averla vista
sotto un elce (Dn XIII 59).
Il giudizio di Daniele vuol’essere anche insegnamento al popolo d’Israele: i giudici, infatti,
hanno da essere stirpe regale e perciò stesso della tribù di Giuda, la tribù che, tra le altre,
espletava un ruolo del tutto militare ed equestre, così come sacerdotale era invece il ruolo della
tribù di Levi. Prima ancora di averne provata la consapevolezza, Daniele apostrofa duramente
gli indegni giudici: «Razza di Canaan e non di Giuda, la bellezza ti ha sedotta e la passione ti
ha traviato il cuore. Così facevate con le figlie d’Israele ed esse, impaurite, accoglievano le
vostre proposte; ma la figlia di Giuda non tollerò la vostra iniquità» (Dn XIII 36–37). Non solo,
dunque, bolla i due giudici di falsità perché, razza di Canaan e non di Giuda, preferivano il loro
libito alla giustizia; ma giudica altresì le donne che debolmente cedevano loro perché israelite
e non giudaite. Ecco il giglio nel suo aspetto di integrità e, quindi, di incorruttibilità e di castità;
ecco il giglio quale divisione, distinzione e addirittura discriminazione anche tra l’aristocratica
tribù di Giuda, fatta di uomini valorosi e giusti, di donne caste e incorruttibili, e il restante
popolo d’Israele.
E’ la tribù di David e Salomone, la tribù che aveva fatto costruire il Tempio di Gerusalemme
per l’arte sacra della carpenteria di Iram principe di Tiro. E ancora una volta la scure aveva
tagliate e squadrate le travi dai cedri del Libano, e con arte mirabile le impalcature e le
suppellettili venivano ornate di gigli (3 Re VII 19 e 22). E’ la tribù di Giuda da cui doveva
sorgere il Messia, pietra angolare dell’universo, misura dell’intero creato, e giudice dei secoli
per l’eternità.