Con questa uscita giunge al termine la nostra intervista all’autore de “l’Atleta combattente”, un libro che non possiamo far altro che invitarvi a leggere. Dopo sei mesi e sei interviste a Matteo Colnago, autore del libro, siamo giunti al termine di questa nostra chiacchierata per chiarire, ampliare e diffondere il messaggio che l’atleta combattente si pone.
D) Matteo, spesso si parla di essere esempio ma non ci si sofferma mai abbastanza sul fatto che bisogna anzitutto “essere”, prima di puntare all’esempio. Nel tuo libro questa cosa invece viene finalmente fatta capire. Cos’altro puoi dirci a riguardo?
Se rispondessi a questa domanda mediante un approccio dottrinale o filosofico susciterei nel lettore più confusione che altro in quanto il tema è talmente ampio e profondo che porterebbe ad un decentramento del tema senza innescare una lucida e metodologica visione, dato che l’Essere rappresenta l’Essenza. Allora vi pongo davanti ad un esercizio, per ovviare eventuali fraintendimenti, rendendo così la domanda una sorta di linea guida.
Ognuno di noi, per vocazione, impostazione mentale e fisica predilige una determinata disciplina sportiva. Ora ponetevi queste due domande:
perché faccio sport?
cosa ottengo praticando lo sport?
Tenevi stretta la vostra risposta, custoditela nella vostra mente.
Nel frattempo, vi racconto due storie che hanno come comune denominatore l’atleta che si scaglia verso la vetta ma risultano poi essere diametralmente opposte in quanto in una l’atleta precipita nel vuoto spirituale, pur “calpestando” la vetta:
1 – Ogni anno viene percorsa l’Ultra Trail Mont Blanc che racchiude diverse competizioni che a loro volta si distinguono per lunghezza e dislivello; durante la UTMB 101km – 6100D+, un violento temporale causò una frana rendendo il sentiero impraticabile. Diversi partecipanti vennero tratti in salvo dall’elisoccorso a causa del sentiero impraticabile decretando così la fine della gara. La reazione degli atleti fu un’orchestra d’isteria e rabbia accompagnata da picchi di collera e frustrazione il tutto condito da profuse lacrime di disperazione per non aver completato la gara; questa è la risposta di chi consuma in un rapporto morboso lo sport e ne è quindi schiavo. Il gesto atletico viene sfruttato per velleità personale al fine di iniettare in se stessi ingenti quantità di narcisismo, al fine di compensare la carenza di comprensione e consapevolezza di sé, senza accorgersi che in questo vortice velleitario egli diventa succube di se stesso. L’identità personale si riduce ad un cronometro, soffocati dal tempo e presi ritmicamente a colpi di lancette dimenticando di essere ovvero di esistere. E se “esistere è combattere ciò che ci nega”, in questo caso l’atleta diventa la negazione di se stesso.
2 – La nascita delle olimpiadi ha sancito la tregua militare ma non ha fermato l’esigenza e la volontà dell’uomo di esprimersi seguendo ciò che d’innato possiede: conoscere se stesso. Mettersi in gioco, affrontarsi e affrontare, tre caratteristiche che delineano lo spirito del combattente. La lotta fonde due elementi essenziali: mente e corpo. Non è un caso che questi due fattori rispecchiano il principio fondativo del pensiero e dell’azione, ovvero ciò che divampa in noi, che proiettiamo all’esterno rendendolo tangibile mediante i fatti e concretizzando la nostra essenza. Lo sport è lotta perché vi è dinamismo, aggressività, meditazione, ascolto, sacrificio, gioia e dolore, componenti che catalizzano l’ardore del combattimento. Pensiamo al duello tra cavalieri un combattimento simboleggiato dai due tagli della spada, rispettivamente contro il nemico esterno e quello interno.
Quella dualità e le caratteristiche della lotta determinano l’essenza di ciò che siamo e che, tramutato sotto un’ottica sportiva, non è nient’altro che trovare il proprio equilibrio, saper vivere nello spazio circostante mentre ci estraniamo da un tempo che non ci appartiene. Un alpinista, durante la sua scalata desidera la vetta ma catalizzando la sacra dualità riesce a vivere con pienezza, soddisfazione e consapevolezza il suo gesto atletico. Ciò gli permette di trascendere da ogni forma di schiavitù mentale e fisica, di completarsi attraverso la sensibilità di assorbire emozioni, sentimenti e sensazioni e la capacità di conciliare nella sfida una formazione continua del corpo e dello spirito. A prescindere dal risultato, ciò che conta, è battersi fino in fondo.

. Antonio Medrano, nella sua opera “La via dell’azione”, edito da Cinabro Edizioni, dimostra che la vera essenza della vita risiede nella qualità del proprio agire: «bisogna sottolineare innanzitutto l’importanza che, per la nostra vita personale ha in modo particolare la qualità della nostra azione mentale: ovvero, la qualità del nostro modo di pensare e di sentire, la qualità dei nostri pensieri idee e ideali sentimenti emozioni atteggiamenti e desideri perché da questo dipenderà la qualità del resto delle nostre azioni sia di parola che di opera e pertanto la totalità del nostro vivere».
D) Di una delle più grandi derive dello sport, il doping, abbiamo già parlato nella scorsa intervista, ma della paura di mettersi in gioco e di rompere la monotonia della propria comfort zone (in maniera sana ovviamente) non ne abbiamo ancora fatto cenno.
Sulla comfort zone psicologi, sociologi, stregoni e motivatori improvvisati hanno filosofeggiato sulle definizioni e architettato strambi stratagemmi per definire ed ovviare la comfort zone.Per amor del cielo, nulla da obbiettare verso la psicologia e la sociologia clinica le quali hanno avuto un approccio scientifico fondamentale cercando di ovviare le relative problematiche che ne derivano, ma come spesso accade nell’infausto meccanismo del mondo moderno, si cerca la soluzione nel carnefice con il risultato di creare il fatidico circolo vizioso del “cane che si morde la coda”. Se il concetto e l’espansione di “comfort zone” (o zone di comodità per usare la nostra lingua) è degenerata con l’avvento dell’uomo borghese, come può un tale animo esserne la cura? Procediamo dunque passo dopo passo per trovare insieme la chiave di lettura con cui aprire i nostri cuori a più vasti orizzonti. Le derive come il doping portano ad allontanare l’atleta dalla dimensione sacra dello sport; come la paura porta un pugile a chiudersi nell’angolo del ring, reagendo con impassibilità e speranza ai colpi dell’avversario, aspettando che la divina provvidenza inneschi in lui un “tocco magico” per liberarsi dalle grinfie del “nemico” oppure attendendo la “morte sportiva” ovvero il KO. In questa equazione matematica, dopo la deriva (doping) incappiamo nel limite: il confine che separa il conscio con l’inconscio ovvero ciò che siamo e ciò che non sappiamo ancora di essere. Il delta di quest’equazione lo troviamo lanciando il cuore oltre l’ostacolo squarciando così quel mantello di pece nera che ci avvolge e soffoca gli istinti più autentici e integrali dell’essere umano: tendere verso l’alto per conoscere se stessi. L’alto non è sinonimo di supremazia come volgarmente viene concepito dal principio democratico, bensì implica il miglioramento continuo mettendosi alla prova, distruggendo la famigerata comfort zone soprannominata “cella dorata”, madre di tutti gli animi borghesi. Non esistono segreti, trucchi o pozioni magiche per volgere verso la vittoria ma atteggiamenti, metodi e comportamenti che tracciano e definiscono il percorso verso l’inconscio, la dimensione più profonda, vera ed autentica di noi stessi. La zona di conforto è etimologicamente una dimensione che riduce l’essere umano a privarsi di ogni tipo di responsabilità, delegando la vita al fato piuttosto che mettersi in gioco per scrivere la propria storia, quel sonno profondo in cui sogniamo di diventare ciò che dovremmo essere, ciò che sappiamo che dobbiamo essere senza però metterci in gioco. Responsabilità vuol dire attingere ad un modello umano che pone le sue radici verso il sacro, verso ciò che è giusto e non quello che conviene. Distruggere la comfort zone significa ritornare alle origini, riallacciare quel rapporto di fedeltà tra il pensiero e l’azione; incarnare quel modello umano che più di tutti nella Storia ha saputo creare e preservare il valore della Tradizione, sbattere in faccia al nemico l’esempio, squarciare le tenebre del sonno profondo con la luce dell’azione pregna di qualità. Responsabilità, carattere, coraggio…un trittico ardimentoso che trafigge come una baionetta l’inerzia e la vigliaccheria della comfort zone. Lo sport è un mezzo completo per trascendere in questa dimensione in quanto psiche e corpo danzano insieme scandite dal ritmo incessante di autentiche virtù che firmano la nascita dell’atleta combattente. Egli rappresenta un modello umano prima ancora di essere membra e cuore tesi all’assalto, un modello umano che dobbiamo riscoprire per poter riemergere. Perché parlo di atteggiamenti e in particolar modo di responsabilità? Il problema della comfort zone nasce tanto tempo fa, quando la romanitas stava per essere divelta, non solo nel retaggio del sangue ma anche in quello della cultura.
Il batter il pugno sul petto non ha creato Uomini, ma pecore!
D) Come ultima domanda ti lasciamo libero di dire ciò che meglio credi ai nostri lettori che hanno seguito la nostra rubrica. Hai un consiglio o qualche altro messaggio da lanciare?
Mi trovavo in palestra, il silenzio era spezzato dall’incessante ritmo delle corde mentre schioccavano nell’aria; una vibrazione costante e ritmica interrotta dal tonfo potente ed acuto dei violenti colpi sui sacchi appesi al soffitto. I nostri sguardi apparentemente inespressivi s’incrociavano uno con l’altro, i visi scavati raccoglievano la forza tranquilla che traspariva dal nostro respiro; all’improvviso un sibilo stridente squarcia il “tepore” che si era creato mentre ci riscaldavamo. Le corde vengono gettate a terra, uno scambio di sguardi sanciscono l’inizio del “fuoco freddo”. Un’esplosione di violenza, aggressività, rispetto, tranquillità, forza, freddezza, concentrazione divampa sul ring. Mi avvicino ad un ragazzo che da poco aveva iniziato a seguire gli allenamenti, lo guardo chiedendogli: “Ma te che vuoi fare? Vuoi combattere, vuoi allenarti…perché sei qui?”. Lui rimase in silenzio per qualche secondo, facendosi forza rispose: “Io voglio avere quella cosa che avete voi negli occhi”.
Questo è stato uno degli insegnamenti più belli che la mia esistenza poteva regalarmi. Perché quel ragazzo aveva capito tutto, aveva capito se stesso osservando gli altri, aveva colto ciò che bisogna Essere prima ancora di combattere. Aveva capito dov’era il traguardo prima ancora di partire, sapeva ciò che voleva e doveva diventare. Voleva diventare Essenza.